Sono i paesi già più competitivi a beneficiare di più del Next Generation EU. Se non si comprendono gli effetti sulle dinamiche territoriali, insistere sul modello Pnrr può portare ad aggravare i divari già esistenti, abbandonando gli obiettivi di coesione.
La relazione sull’attuazione dei Pnrr
L’ultima relazione della Commissione europea sull’implementazione del dispositivo per la ripresa e la resilienza che finanzia i Pnrr europei fornisce una stima degli impatti diretti, come l’aumento di produzione e occupazione nei settori che ricevono i fondi, e indiretti, come gli spillover in altri settori della catena del valore generati da una domanda aggiuntiva di beni intermedi e finali, con possibili ricadute che vanno oltre i confini nazionali. I dati sugli impatti sono stati ripresi in modo acritico e superficiale dai media e non solo (esempi sono qui, qui, qui e qui), che hanno parlato di un effetto di 200 miliardi del Pnrr sul Pil italiano. In realtà, la situazione non è così chiara e rosea e merita qualche riflessione.
Per l’Italia tante risorse, ma pochi effetti sul Pil
Le differenze tra paesi sono significative. Da un lato, gli stati membri più integrati nel mercato unico e caratterizzati da un elevato livello di competitività sembrano beneficiare maggiormente, in relazione ai fondi ricevuti, in termini di impatti diretti e indiretti sulla crescita del Pil fino al 2030 (per esempio, Germania, Francia, Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia, Austria). All’opposto, vi sono altri stati che nonostante la mole rilevante delle risorse ricevute registrano effetti relativamente modesti. Tra questi la Spagna e l’Italia, i due maggiori beneficiari di NgEU.
Il nostro paese ha ricevuto circa 194 miliardi e si attende nel decennio un impatto totale di circa 189 miliardi, più o meno equivalente in valore assoluto al trasferimento, con un moltiplicatore anzi lievemente inferiore a 1. In altri termini, la componente degli investimenti del Pnrr genererebbe un effetto sul prodotto interno lordo meno che proporzionale alle risorse finanziarie allocate (peraltro, una delle ipotesi dello studio alla base della relazione europea è che ci sia piena implementazione di tutti i 27 Pnrr. Al contrario, per paesi come Germania e Francia, il Pil aggiuntivo derivante da effetti diretti e indiretti è sostanzialmente superiore alle risorse ricevute con il Pnrr.
La figura 1 mostra il valore degli impatti totali in percentuale della dotazione Pnrr nei singoli stati membri dell’Ue. Per l’Italia, il rapporto è sotto il 100, a indicare che l’impatto totale non arriva a uguagliare il valore dei fondi ottenuti. Un elemento che concorre a spiegare le differenze tra stati è il peso degli effetti indiretti, che per il nostro paese è piuttosto limitato (figura 2).
Figura 1 – Impatto totale del Pnrr in rapporto alla dotazione (%)

Figura 2 – Stima degli effetti indiretti (spillover) sul Pil 2023

Va detto che la stima dell’impatto sul Pil non include gli effetti delle riforme strutturali che, seppur difficili da misurare, dovrebbero dare una spinta positiva alla crescita, soprattutto nel lungo periodo. Il Documento programmatico di finanza pubblica di ottobre 2025, al netto delle contraddizioni che contiene (come riportato su lavoce.info qui e qui), così come alcuni studi relativi all’Italia evidenziano effetti potenzialmente positivi a partire dal 2026. Tuttavia, per stessa ammissione degli autori di questi studi, i risultati sono soggetti a molta incertezza e potenziali rischi (per esempio, riforme attuate in modo inefficiente o dinamiche inflattive). Su alcuni di questi rischi e, in particolare, sulla capacità di implementare efficaci riforme, alcuni commentatori hanno espresso una visione non troppo ottimistica (ad esempio Tito Boeri e Roberto Perotti). È anche opportuno sottolineare che l’integrazione tra investimenti e riforme è presente in tutti i Pnrr europei, pertanto, nel lungo periodo anche gli altri paesi beneficeranno di un effetto addizionale sulla crescita dovuto alle riforme. Vi è da sperare, semmai, che l’Italia non ottenga benefici economici in termini di Pil minori agli altri paesi, come accade ora per la componente degli investimenti.
Gli effetti sui divari fra aree e regioni
In definitiva, la relazione della Commissione europea non dà informazioni dettagliate ed esaustive su questi effetti, mentre il modello macroeconomico utilizzato per stimare gli impatti sul Pil, indipendentemente dalla sua sofisticazione e completezza, non può fornire un’articolazione minuziosa delle ricadute e dell’efficacia degli investimenti. Se si vuole davvero comprendere il valore aggiunto del Pnrr è auspicabile uno sforzo valutativo olistico, che vada oltre le stime macroeconomiche finora condotte e che faccia luce anche sugli effetti sulle disparità territoriali interne ai diversi paesi.
È uno sforzo cruciale poiché il Pnrr è indicato come il modello da seguire per progettare e gestire il nuovo fondo per la coesione, l’agricoltura e lo sviluppo rurale, la pesca e la politica marittima, la prosperità e la sicurezza nel post 2027. Per esempio, sostituirà il Fesr (Fondo europeo per lo sviluppo regionale), il Fse+ (fondo sociale europeo) e il fondo per la coesione. Dai dati della relazione della Commissione emerge che sono i paesi dove la competitività è più elevata a beneficiare maggiormente di Next Generation EU. Insistere sul modello Pnrr, senza una comprensione articolata degli effetti sulle dinamiche territoriali e di come l’approccio possa essere migliorato per non danneggiare la convergenza, può voler dire aggravare i divari nazionali e regionali a scapito delle aree meno sviluppate dell’Ue abbandonando ogni obiettivo di coesione socio-economica e territoriale.
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