Dal 2012, sull’acciaieria di Taranto si è consumato un conflitto tra valori di rango costituzionale: ambiente, salute, vita, lavoro e impresa. Risolverlo richiede un processo di riconversione degli impianti e la ricollocazione di parte degli addetti.

Un difficile bilanciamento

Nel 2012, anno del primo sequestro degli impianti dell’ex-Ilva di Taranto per proteggere l’aria, le falde e il territorio circostante, era chiaro a tutti che, per uno stabilimento altamente inquinante costruito negli anni Sessanta, non ci fossero le condizioni per proseguire l’attività secondo i canoni produttivi tradizionali. 

Da allora, ben otto governi di diversi colori politici – con un succedersi convulso e non sempre chiarissimo di norme che ha alimentato il contenzioso – hanno tentato di salvare la produzione in quella fabbrica di acciaio primario, destinato soprattutto al mercato italiano. Ci sono state le sistematiche proroghe dei termini, la ripetuta concessione di deroghe alle norme ambientali, l’alleggerimento delle sanzioni anche penali, il finanziamento illimitato della cassa integrazione per i dipendenti, i prestiti straordinari all’azienda. Ma dal 2012 a oggi non sono stati ancora realizzati tutti gli interventi necessari per garantire la salute di lavoratori e cittadini. Piano piano, uno dietro l’altro gli altoforni sono stati spenti: di cinque ne è rimasto attivo uno solo, che però dal 4 novembre è stato disattivato – ufficialmente – per la manutenzione ordinaria.

Dal 2015, quando Ilva è entrata in amministrazione straordinaria, si prova a vendere lo stabilimento nella speranza che prima o poi si presenti un imprenditore capace di realizzare la decarbonizzazione annunciata, costruire i forni elettrici, gli impianti per la produzione del ferro preridotto (Dri: direct reduced iron) e garantire la salvaguardia dei livelli occupazionali. 

Ma per ora nessuno a Taranto è riuscito a rispettare le norme sia costituzionali (nel 2022 sono cambiati gli articoli 9 e 41) sia europee (la direttiva 2024/1785 ha riscritto quella precedente 2010/75 più volte violata nello stabilimento), che negli ultimi anni hanno introdotto parametri più stringenti per la tutela della salute e dell’ambiente. Nel frattempo, la magistratura ha dovuto adeguarsi ai mutamenti del diritto con decisioni che hanno fortemente scoraggiato gli investitori. 

Un quadro giuridico-amministrativo estremamente confuso

Alla vigilia delle elezioni regionali nessuno pronuncia le parole fatidiche: chiusura dello stabilimento di Taranto, esubero di personale. Ma dopo l’ultimo incontro tra governo e parti sociali il clima è infuocato. Il piano di decarbonizzazione presentato dall’esecutivo con otto slide non propone una soluzione sulla proprietà dell’azienda, limitandosi a prospettare più cassa integrazione e la chiusura delle batterie di cokefazione.

Chi si candida a governare la Regione Puglia sa (anche se non lo dice) che dovrà collaborare assai strettamente con Roma se vorrà portare sul territorio nuovi investimenti nazionali ed europei che possano garantire nuovi posti di lavoro. Ma chi si candida a rilevare lo stabilimento (nelle slide si parla di un player estero) sa che l’ultima autorizzazione alla produzione di acciaio (Aia), che consente la continuità produttiva a carbone per altri dodici anni e la produzione fino a 6 milioni di tonnellate annue, è stata impugnata da sette associazioni; e non è detto che passi indenne il vaglio del giudice amministrativo. Inoltre, il Consiglio di Stato ha garantito in via d’urgenza l’erogazione del gas, ma è ancora aperto il contenzioso con i fornitori che non vengono pagati da anni. E, dopo una sentenza della Corte di giustizia europea, il Tribunale di Milano – investito della questione – deve decidere se consentire o no la continuazione di una attività oggettivamente dannosa per l’ambiente e per la salute dei cittadini.

Il governo, dal canto suo, continua a intervenire con leggi-tampone per consentire ad Acciaierie d’Italia, subentrata nella gestione dello stabilimento e in parte nazionalizzata da quando Invitalia è entrata nel capitale sociale, la liquidità necessaria alla gestione dello stabilimento, che fa registrare ogni giorno una perdita di circa 2 milioni di euro. Qualsiasi altra impresa, in queste condizioni, sarebbe stata liquidata; senonché qui si tratta di uno “stabilimento di interesse nazionale”: per questa ragione, il governo si è addirittura impegnato a garantire all’impianto Dri e alla centrale termoelettrica una fornitura di gas a prezzi agevolati per mezzo di condotte terrestri, visto che la città di Taranto rifiuta l’ormeggio nel porto di una nave rigassificatrice, nonostante i vantaggi che comporterebbe. Ma anche assicurare questi impegni non è facile per il governo, più volte richiamato dalla Commissione europea a rispettare le regole sugli aiuti di Stato all’impresa. 

Necessità di una drastica riconversione tecnologica degli impianti e delle persone

Dalla riunione dell’11 novembre a Palazzo Chigi con i soli sindacati emerge che il processo di vendita è – a dir poco – in salita. Il governo, per un verso, annuncia la trattativa riservata con un nuovo acquirente e un piano di decarbonizzazione quadriennale con l’installazione di quattro forni elettrici; ma questo non significa che l’acciaio italiano sarà green. Per altro verso, il decreto-legge 26 giugno 2025 n. 92, contraddicendo quanto previsto in uno precedente (16 dicembre 2019, n. 142) ha escluso che la produzione di acciaio in Italia possa avvenire utilizzando l’idrogeno. 

La riduzione dei volumi di produzione di acciaio si riverbera poi sugli altri stabilimenti a valle del ciclo produttivo e sull’indotto con inevitabile esubero strutturale di personale per tutti i siti. Pur prevedendo per il prossimo futuro un’integrazione tra forni elettrici e produzione di Dri, nessuno può ragionevolmente dubitare che diecimila dipendenti siano troppi. 

Il dato allarmante è che la cassa integrazione straordinaria vede l’aumento dalle 4050 persone di luglio alle previste 6mila a partire da gennaio 2026. È chiaro che gli squilibri finanziari, causati dai bassi livelli di produzione e da un mercato in calo inducono l’azienda ad alleggerire i costi del personale, che vengono scaricati sulla collettività con la cassa integrazione; e inducono il governo a pensare al cosiddetto. “spezzatino”, ossia alla vendita separata dei siti produttivi collocati in quattro regioni diverse: Puglia, Piemonte, Liguria e Lombardia.

Nel frattempo, nessuno propone politiche attive e di ricollocazione del personale in cassa integrazione, come la legge prescrive in questi casi. A dire il vero, nell’accordo dello scorso luglio le regioni stesse hanno annunciato percorsi di formazione e riqualificazione professionale per i lavoratori in cassa integrazione a zero ore. Mentre l’azienda si è impegnata a utilizzare i fondi interprofessionali per la formazione continua per almeno quattro settimane continuative.

Non sappiamo se i corsi siano stati attivati oppure no e se i lavoratori vi abbiano o meno partecipato; ma l’entità di questo “programma” appare del tutto inadeguata in relazione all’entità della riconversione necessaria. Certo è che le tecnologie innovative per la produzione di acciaio e, in generale, per la decarbonizzazione richiedono nuove competenze, ma offrono anche ottime probabilità di ricollocazione. Gli stakeholders – imprese, sindacati, istituzioni nazionali e locali – sono chiamati a creare le condizioni di fiducia reciproca indispensabili per la proposta di una scommessa comune, delineata su questo sito sei anni or sono, nella quale ciascuno dia il proprio contributo per il bene comune, nella consapevolezza che tutti i protagonisti faranno altrettanto. Ma il primo passo per la scommessa comune è concordare un progetto per il polo siderurgico di Taranto, avendo le idee chiare sui suoi costi finanziari e occupazionali e su come farvi fronte: nelle slide del governo non si trova niente di tutto ciò.

Per far fronte alle ricadute occupazionali del progetto sarebbero a disposizione ancora – per pochi giorni – le ingenti risorse (la parte non ancora spesa dei circa 5 miliardi iniziali) per le politiche attive assegnateci dal Pnrr, di cui 4 miliardi per il programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori): la scadenza per presentare progetti e impegnare i fondi europei è fissata per il 31 dicembre di quest’anno. Il rischio di perdere la parte non ancora impegnata è altissimo: e se accadrà qualcuno dovrà spiegare ai lavoratori dell’ex Ilva il motivo per cui non sono state tempestivamente utilizzate – come avrebbero potuto essere – per un serio piano di riconversione e parziale ricollocazione.

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