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Tre nodi per continuare a produrre acciaio in Italia*

Indipendentemente dalle scelte di ArcelorMittal, ci sono tre questioni che devono essere affrontare da chiunque voglia gestire lo stabilimento ex-Ilva. Oltre allo scudo penale, sono cruciali le decisioni sull’altoforno e l’aumento della produzione.

ArcelorMittal va via o resta?

In amministrazione straordinaria dal 2015, il 1º novembre 2018 Ilva entra ufficialmente a far parte del colosso ArcelorMittal, che ha vinto la gara d’appalto e ha firmato l’accordo finale con l’allora ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio.

Ci entra attraverso AM Investco Italy, un consorzio partecipato per il 94,4 per cento da ArcelorMittal e per il 5,6 per cento dal gruppo Intesa Sanpaolo (subentrato dopo l’uscita di Marcegaglia).

Formalmente è un contratto d’affitto fino alla fine del 2022, quando si dovrebbe procedere alla vendita degli impianti al prezzo stabilito sulla base della gara.

Ora, però, la nuova proprietà ha scritto formalmente di voler recedere da quel contratto adducendo come motivo il fatto che il Parlamento ha cancellato l’estensione del cosiddetto scudo penale (cioè l’immunità dei dirigenti durante l’esecuzione del Piano ambientale) dall’amministrazione straordinaria ad ArcelorMittal.

Le vicende dello scudo penale sono già state trattate diverse volte e non ci tornerò sopra. Basti dire che in varie versioni è stato messo e tolto quattro volte nel corso degli ultimi anni, danneggiando così la credibilità del paese. Tanto è vero che l’ipotesi di oggi, nel tentativo di recuperare credito, è quella di uno scudo più generale, che copra tutte le aziende in condizioni simili.

Al di là dello scudo penale, nessuno sa se ArcelorMittal vuole davvero trattare o ha già deciso di andare via. Sarebbe del tutto razionale per la multinazionale dell’acciaio rimanere in Italia, alla luce del forte impegno dispiegato per vincere la gara e concludere l’accordo finale con Di Maio, e considerato che ha già speso 1,2 miliardi di euro (dei 4,2 previsti entro il 2023), ha chiuso diversi altri impianti in Europa per acquistare Taranto e ha appena nominato un nuovo amministratore delegato per risanare l’azienda.

Molti pensano che Arcelor voglia ritrattare l’accordo perché è sopravvenuta la crisi dell’acciaio. In effetti, ha messo 1.300 persone in cassa integrazione pochi mesi dopo essere subentrata e produce 4 milioni tonnellate all’anno invece delle 6 previste.

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Molti altri, però, pensano che ArcelorMittal abbia già gettato la spugna, tanto è vero che secondo Moody’s il gruppo perde in borsa perché non è chiaro se riuscirà a liberarsi di Taranto.

Le tre questioni da affrontare

Sia che abbiano sbagliato clamorosamente i conti (o altrettanto clamorosamente sottovalutato la situazione a Taranto) e vogliano abbandonare sia che vogliano solo trattare, nella loro lettera di recesso Mittal padre e figlio sollevano tre questioni che chiunque in futuro voglia gestire l’impianto dovrebbe ben considerare. E andrebbero considerate anche se a gestire lo stabilimento dovesse essere lo stato, benché l’ipotesi appaia particolarmente difficile sia per le regole europee, sia per le difficoltà di un mercato decisamente competitivo come quello siderurgico (ricordiamoci che Ilva perde milioni di euro ogni giorno), sia perché vi sono ovvie difficoltà di finanza pubblica.

La prima questione indicata dai Mittal riguarda lo scudo penale. Nella lettera di recesso scrivono che non possono lavorare senza di esso e che non si fidano più di governi che cambiano e scudi che cambiano di conseguenza. Rimetterlo o meno immediatamente è divenuta una questione negoziale: è chiaro che lo si conferma solo se i Mittal sono disposti a trattare, ma è altrettanto chiaro che chiunque voglia gestire Ilva ne ha bisogno, quindi è solo una questione di tempo. Nel frattempo, quello che si può pretendere subito è che, in caso di abbandono di Mittal, gli impianti vengano lasciati con tutte le misure di sicurezza in ordine e in grado di funzionare. Perché lo scudo penale non protegge solo i proprietari, ma anche i semplici quadri che si occupano della gestione quotidiana.

La seconda questione riguarda il sequestro della magistratura dell’altoforno numero 2. Dopo la morte tragica di un operaio nel 2015, il forno è stato sequestrato e per il dissequestro il custode giudiziario ne ha imposto l’integrale automazione. I Mittal sostengono che, se è così, dovranno fare la stessa operazione anche per l’altoforno 1 e 4 (che sono del tutto simili al 2), cosa molto complicata nel breve periodo e che impedisce di arrivare alla produzione di 6 milioni di tonnellate prevista nel piano industriale, perché nel periodo necessario per automatizzarlo, l’altoforno rimane fermo.

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Bisogna dunque capire se davvero bisogna automatizzare i forni e, in caso affermativo, se è possibile raggiungere i 6 milioni di tonnellate. Magari Mittal ha sbagliato i conti e ora vuole ritrattare il piano industriale, ma può anche essere vero che con i forni sotto sequestro (e con la crisi dell’acciaio evidentemente sottovalutata) è difficile aumentare la produzione.

L’ultima questione non riguarda il verbo “potere”, ma il verbo “volere”: si vuole davvero aumentare la produzione? Nella lettera, Mittal solleva il tema del consenso a Taranto. È arrivato il momento di decidere: se si vuole aumentare la produzione, bisogna dirlo con chiarezza. Personalmente ritengo che i benefici del mantenimento del sito, fatte le bonifiche ambientali concordate, superino decisamente i costi. Quel che fa ben sperare è che a firmare l’accordo con Mittal del 2018, che prevedeva prima 6 e poi 8 milioni (dal 2023) di tonnellate di produzione, sia stato lo stesso Di Maio. E, d’altra parte, la ex-ministra della Salute Giulia Grillo ha certificato che a Taranto oggi l’aria è più pulita che a Milano.

Si tratti dunque con Mittal e si rimetta lo scudo penale se la multinazionale è disposta a sedersi al tavolo della trattativa. E se su quel tavolo ci sono da una parte 4 milioni di tonnellate (Mittal, appunto) di produzione e dall’altra un percorso che porti a 6 milioni di tonnellate minimizzando i costi sociali, un compromesso si potrà trovare.

*Le opinioni espresse in questo articolo sono personali e non coinvolgono l’istituzione di appartenenza

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  1. Henri Schmit

    Articolo preciso, equilibrato e condivisibile. L’elenco dei problemi da risolvere è tuttavia incompleto. Per un’industria come quella di TA, per dimensione e natura (immobilizzazioni, investimenti, ciclo lungo), è più importante SE, COME e DOVE che non CHI. Il disastro pre-commissariamento non è stato causato dai Riva, ma dalla PA che doveva esigere il rispetto dei canoni ambientali. Aggravante è la circostanza che fino a poco prima la gestione era pubblica e i problemi ambientali sono stati ignorati o nascosti. Alla fine degli anni 1970 ARBED, il colosso lussemburghese, decise di chiudere miniere e altiforni a Lux (oltre 6 mio t di acciaio vs. 11 per tutta l’Italia di allora! Oltre 1/4 del PIL, oltre 3/4 dell’export; 23.000 dipendenti diretti e dell’indotto, tutti da tenere indenni con soldi pubblici! attraverso una tassa di solidarietà prelevata per anni) e di trasferire l’attività verso il mare del Nord = Sidmar a 30km! da Gent, vs confine NL e mare. TA non nata intorno all’ILVA ma fondata 2700 anni fa dagli Spartani è una città bellissima (la parte antica e novecentesca a S-E). Come accettare altiforni vetusti, inquinanti e non automatizzati (di prop. dello stato!) IN una città, causando morte in fabbrica e peggio intorno. Non è accettabile! Spetta allo stato proteggere la salute, risanare il quartiere Tamburi e trovare un sito idoneo per impianti siderurgici moderni ed efficienti, se intende tenere quest’attività per forza nel paese. Mittal è più rischio che soluzione.

  2. Opellulo

    L’articolo é abbastanza fantasioso; giá ora ci sono poli siderurgici italiani piú piccoli e moderni che faticano a rimanere a galla (penso a Terni) mentre qui si ipotizzano investimenti assurdi per un centro di produzione obsoleto e non competitivo. Tutto questo per ottenere cosa? Un aumento di produzione di acciaio a basso valore aggiunto?

    Le corporazioni non sono famose per fare beneficenza..

  3. Federico Leva

    Non so che cosa abbia detto Giulia Grillo, ma nella presentazione collegata non si dice affatto che “a Taranto oggi l’aria è più pulita che a Milano”. Nella presentazione l’ISS dice che la situazione è migliorata in corrispondenza del calo della produzione (incredibile!) e che una serie di patologie sono in “eccesso” rispetto alla media (tumori del tessuto linfoematopoietico per minori di 19 anni, patologie dell’apparato respiratorio e leucemie). Forse l’autore ha usato un’altra fonte per questo confronto Taranto-Milano? Oppure si è fermato a pagina 9 (su 18) dove si parla di diossine e si afferma che “è però in linea con quanto osservato in altre
    aree industrializzate in Italia”?

  4. Stefano Andreoli

    Anche io sono andato a cercare nel link il confronto tra l’aria di Milano e quella di Taranto, ma non l’ho trovato. Potrebbe indicare la pagina ? Grazie.

  5. L’articolista è chiaramente di parte. Intanto parla del problema Taranto come se le morti in quella città fossero solo una conseguenza inevitabile, 18 malati di tumore all’anno solo un rischio calcolato? E si parla di quantità di produzione in termini di costi, Ma i costi sociali e non solo quelli economici di vite umane per curare quei malati non vengono messi in conto?
    Non c’è soluzione?
    Certo che si !
    Si chiude l’area a caldo che procura l80% dell’inquinamento e ha impianti di tecnologia anni 70, E si alimenta l’area a freddo con convertitori elettrici, o magnetici o a gas. Le quote di mercato dell’ILVA non sono dati dalla produzione di acciaio, ma dei prodotti semilavorati, lamiere tubi coils! Dunque è su questo che si deve puntare e sulla salute di una città!

    • Henri Schmit

      Ottimo! Manca solo capire, decidere, trovare CHI (quale imprenditore) lo farà; e CHI (nell’esecutivo) capisce per trovare e decidere chi lo farà. La domanda in questo paese è sempre e ovunque (ILVA, Alitalia, Mosè, controllo bancario, legge finanziaria) la stessa : CHI comanda (cioè decide in trasparenza, non con pieni poteri o dietro le quinte) e se ne assume la responsabilità?

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