L’approvazione del Piano tedesco crea un precedente che rende difficile mantenere le regole europee così come sono oggi. Può aprire la strada a revisioni che consentirebbero di potenziare il coordinamento delle politiche fiscali nazionali.
Le nuove regole europee e il coordinamento che manca
Le nuove regole fiscali europee approvate ed entrate in vigore l’anno scorso, e già ampiamente discusse su questo sito, hanno vari aspetti critici. Il più importante è che non danno una soluzione soddisfacente al tema del coordinamento delle politiche fiscali dei singoli paesi, elemento cruciale in assenza di una capacità fiscale comune a livello centrale. Mantengono, infatti, l’impostazione del vecchio sistema imponendo una politica fiscale uniforme per tutti i paesi: perseguire l’obiettivo del 60 per cento per il rapporto debito/Pil e un disavanzo strutturale massimo dell’1,5 per cento, a prescindere dal grado di rischiosità del debito.
La prima applicazione del nuovo sistema ha visto quasi tutti i paesi (a cominciare dall’Italia) presentare tra ottobre 2024 e i primi mesi del 2025 i “Piani strutturali di bilancio di medio termine” (di qui in avanti solo “Piani”). Nell’applicazione pratica, sono emersi sia elementi di flessibilità, come la possibilità di dialogo tecnico tra la Commissione e gli stati membri nella definizione delle traiettorie fiscali, sia criticità, come un’eccessiva e un po’ velleitaria enfasi sulle proiezioni di lungo periodo basate sull’analisi di sostenibilità del debito.
La Germania, per le sue vicende politiche interne e i tempi lunghi nella formazione del governo Merz dopo le elezioni di febbraio 2025, è rimasto a lungo l’unico paese a non avere adempiuto al nuovo obbligo giuridico europeo. Finalmente, a fine luglio 2025, il paese ha presentato il suo Piano, che è stato approvato dalla Commissione a settembre e dal Consiglio a ottobre 2025.
Il Piano tedesco e la sua approvazione introducono alcuni importanti novità nel dibattito sulle regole fiscali europee, con implicazioni che vanno al di là del caso specifico. In particolare, creano un precedente che rende difficile mantenere le regole come sono oggi e che sembra così aprire la strada a revisioni importanti che consentirebbero di migliorare il coordinamento delle politiche fiscali nazionali. Vediamo perché.
Il Piano tedesco
Intanto, va ricordato che a marzo 2025 la Germania ha rivisto anche i propri vincoli interni, a carattere costituzionale – il famoso “freno al debito”, notoriamente più restrittivo delle regole europee – allo scopo di poter investire di più in difesa e in infrastrutture. La decisione di Berlino ha sicuramente influenzato anche le scelte della Commissione che ha proposto, sempre a marzo 2025, un progetto (il Readiness 2030, poi definitivamente approvato dal Consiglio a giugno 2025) per consentire ai paesi europei che desiderano farlo di spendere di più per la difesa senza violare le regole fiscali. Sulla base di questo nuovo apparato normativo, la Germania ha presentato il suo Piano, di durata settennale (come quello italiano), con i principali effetti riportati nella tabella 1.
Il confronto tra il Piano e i suggerimenti della Commissione (contenuti nella prior guidance di giugno 2025) è reso complesso dal fatto che la traiettoria di spesa trasmessa dalla Commissione non tiene conto della national escape clause (Nec) per la difesa attivata dalla Germania. La clausola, oltre a consentire una spesa aggiuntiva per la difesa fino all’1,5 per cento del Pil l’anno, introduce una modifica della regola fiscale che deve essere incorporata nella traiettoria di spesa. In particolare, per tutta la durata della Nec (quattro anni, dal 2025 al 2029) sono sospese le due clausole di salvaguardia introdotte con la riforma del 2024: per la resilienza del disavanzo – che per un piano a sette anni è un miglioramento dello 0,25 per cento l’anno del saldo primario strutturale; e per la sostenibilità del debito – per la Germania, con un debito tra il 60 e il 90 per cento, la riduzione del rapporto con il Pil di mezzo punto l’anno.
Il percorso proposto per la spesa netta nel Piano tedesco deve, dunque, soddisfare solo i requisiti dell’analisi di sostenibilità del debito, ma non le due salvaguardie. Secondo le informazioni contenute nella prior guidance, ciò si traduce per la Germania nella possibilità di un peggioramento di 0,2 punti all’anno del saldo primario strutturale rispetto al Pil (che, cumulandosi, danno luogo alla differenza tra le prime due righe della tabella). Non è invece esplicitato l’effetto della Nec sulla traiettoria di spesa consigliata dalla Commissione.
Come si osserva dalla tabella, senza tener conto dell’applicazione della Nec, la crescita della “spesa netta” nel Piano della Germania nel biennio 2025-2026 è nettamente superiore a quella suggerita dalla Commissione, dall’1,7 per cento in media nel biennio al 3,1 per cento. Una differenza rispetto alla traiettoria proposta dalla Commissione che non trova uguali nei Piani degli altri paesi, l’unico caso che si avvicina è quello della Finlandia. Con l’attivazione della Nec e la disattivazione delle clausole di salvaguardia la crescita media prevista dal Piano tedesco nel biennio diventa addirittura del 4,5 per cento. Tuttavia, come si vede sempre dalla tabella 1, la forte espansione della politica fiscale – da un punto di vista congiunturale del tutto ragionevole, visto che la Germania è in recessione da due anni – si interromperebbe drasticamente già a partire dal 2027, con una frenata della spesa netta e un rapido miglioramento del saldo primario strutturale nel biennio successivo, il 2028-2029, in modo tale da raggiungere nel 2031 un avanzo primario strutturale superiore a quanto previsto dalla Commissione: 1,1 per cento del Pil, invece dello 0,8 per cento.
Il rispetto delle regole fiscali europee
Al di là della sensatezza sul piano economico di una manovra a “yo-yo” (una forte espansione per due anni, seguita da una decisa contrazione nel triennio successivo), la domanda è come la proposta possa essere stata giudicata compatibile con le regole fiscali europee, anche tenendo conto degli spazi ulteriori offerti dalla possibilità di detrarre la spesa addizionale per la difesa. L’argomentazione tedesca è che a seguito della politica fiscale espansiva e di altri micro-interventi dettagliati nello stesso Piano, il Pil potenziale dovrebbe conoscere una vigorosa ripresa negli anni successivi, esercitando così anche una pressione positiva sui prezzi (il deflatore del Pil). Ne seguirebbe una forte crescita nominale, sufficiente, quando accompagnata dalla politica restrittiva del triennio finale del Piano, a riportare la Germania nell’alveo delle regole europee. Anche il debito su Pil, previsto in crescita nel Piano tedesco fino al 67 per cento nel 2029, si ridurrebbe negli anni successivi, fino a collocarsi nelle fasi finali al 65 per cento e poi in fase di progressiva riduzione nel decennio successivo, come richiesto dalle regole europee.
Nella sua valutazione di settembre, la Commissione ha accolto quest’impostazione e ha approvato il Piano.
Le implicazioni per le regole europee
Ora, tralasciando il fatto se le ipotesi macroeconomiche proposte dai tedeschi siano ragionevoli o meno, il punto interessante è che la Commissione abbia accettato che un Piano, molto articolato negli aspetti più micro (quello tedesco lo è) e che prevede un incremento temporaneo, per quanto sostanziale, degli investimenti possa avere effetti sulla crescita del Pil potenziale (già nel 2025, dallo 0,5 allo 0,9 per cento, si veda la tabella 1), una possibilità che finora era stata invece negata per altri Piani nazionali, a cominciare da quello italiano. Siccome un’eccezione fa la regola, quello che vale per la Germania deve poter valere anche per altri paesi.
D’altra parte, non appare molto sensato che la Commissione spinga i paesi a adottare riforme e investimenti favorevoli alla crescita, soprattutto per quelli che richiedono l’allungamento ai 7 anni, ma che poi questi aspetti non trovino nessun riscontro nelle stime del Pil strutturale che rimane (per i 17 anni successivi) vincolato alle stime svolte all’inizio. Naturalmente, la valutazione dovrebbe essere attenta, per evitare comportamenti opportunistici, ma in linea di principio dovrebbe essere possibile avanzare proposte che intendano migliorare il Pil strutturale.
La seconda considerazione riguarda proprio la struttura del Piano tedesco. La schizofrenia della manovra a “yo-yo” non dipende dai vincoli nazionali interni del paese, che con la riforma costituzionale del marzo 2025 sono stati resi in buona parte silenti, ma proprio dal tentativo di coniugare la necessità impellente di una forte espansione fiscale (per infrastrutture e difesa) con l’obbedienza alle regole fiscali europee. La torsione imposta alla politica economica tedesca dallo sforzo di seguire obiettivi incoerenti tra di loro appare chiaramente sub-ottimale. Soprattutto alla luce del fatto che, anche se le previsioni risultassero a posteriori sbagliate e il debito su Pil tedesco dovesse alla fine del periodo crescere e non ridursi (fino all’80 per cento secondo alcune stime, basate sul consenso dei principali previsori tedeschi), non per questo diventerebbe insostenibile o tale da determinare, sulla base di tutte le stime disponibili, una forte crescita degli interessi da pagare per il debito.
Le riforme possibili
Berlino potrebbe tranquillamente aggiustare i propri conti, se necessario, ma da un punto di vista economico non esiste nessun argomento razionale perché debba farlo di corsa, per rispettare le regole europee, a partire già dal 2027 invece che con i tempi opportuni. Un paese a basso debito come la Germania dovrebbe avere la possibilità di spendere di più per sostenere la propria economia e quella europea. Tra l’altro, si realizzerebbe così quel coordinamento che sulla base della stessa legislazione europea dovrebbe caratterizzare la politica fiscale, con i paesi che hanno spazio fiscale che spendono di più rispetto agli altri, quando ve ne sia necessità.
Non a caso, proprio sulla base di queste aporie del loro Piano nazionale, alcuni commentatori tedeschi hanno proposto di rivedere le stesse regole fiscali europee. La proposta più semplice sarebbe quella di aumentare il benchmark del debito a cui tutti i paesi europei devono tendere, dall’ormai obsoleto 60 per cento del Pil del Trattato di Maastricht a un più ragionevole 90 per cento. È un’ipotesi che riecheggia quella avanzata nel 2021 dall’allora direttore del Meccanismo europeo di stabilità, peraltro anche lui tedesco, Klaus Regling. È possibile che le vicende tedesche aprano la strada ad evoluzioni, sicuramente desiderabili, di questo tipo.
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Si è laureato in Filosofia a Firenze e ha svolto studi di economia nel Regno Unito (MA, Essex; PhD, Warwick). Si occupa prevalentemente di temi di economia pubblica. Ha insegnato nelle Università di Birmingham, Bergamo, Brescia, Venezia e come visiting professor negli USA, in Svezia, Germania e Cina. Attualmente è professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l'università Cattolica di Milano, dove ha diretto anche il Dipartimento di Economia e Finanza e la Doctoral School in Public Economics. Ha svolto e svolge tuttora attività di consulenza per enti pubblici nazionali e internazionali ed è stato membro di numerose commissioni governative, compresa la Commissione sulla Finanza Pubblica presso il Ministero del Tesoro nel 2007-8. È attualmente membro dell'European Fiscal Board, un comitato di consulenza del Presidente della Commissione Europea e Vicepresidente esecutivo dell'Osservatorio sui conti pubblici dell'Università Cattolica.
Si è laureato in Scienze Statistiche all'Università "La Sapienza" di Roma e ha proseguito gli studi di Economia presso la London School of Economics. Professore di Scienza delle Finanze presso l'Università "La Sapienza" di Roma (in precedenza ha insegnato all'Università di Campobasso, alla LUISS di Roma, alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione e all'Università di Perugia). Si occupa prevalentemente di temi di finanza pubblica. Ha svolto attività di consulenza per istituzioni italiane e internazionali (IMF, Camera dei Deputati, Presidenza della Repubblica). Ha fatto parte della Commissione tecnica per la spesa pubblica (Ministero del Tesoro) dal 1991 fino al suo scioglimento nel 2003. Dal luglio 2006 dirige la Scuola Superiore dell'Economia e delle Finanze. Redattore de lavoce.info.
È stato Presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio dal 2014 al 2022.
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