Approvata più di due anni fa, la riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti incontra difficoltà di attuazione forse inevitabili. Ma su alcuni punti ci sono stati passi indietro. E i problemi non devono tramutarsi in blocchi insuperabili.

A che punto è l’attuazione della riforma

Sono trascorsi due anni e mezzo dall’approvazione della riforma nazionale dell’assistenza agli anziani non autosufficienti, la legge delega 33/2023. La riforma – la prima nella storia del nostro paese – ha un obiettivo ambizioso: modificare strutturalmente il sistema di welfare italiano, ideato quando gli anziani non autosufficienti erano molti meno di oggi, per metterlo in condizione di rispondere alla loro sempre più diffusa presenza. A che punto siamo con l’attuazione? Proviamo a rispondere seguendo i tre obiettivi principali della riforma: la costruzione di un sistema unitario, la definizione di nuovi modelli d’intervento e l’ampliamento dell’offerta.

Un sistema unitario

Attualmente l’assistenza pubblica rivolta agli anziani viene gestita da tre settori distinti e scarsamente coordinati tra loro: le politiche sanitarie, quelle sociali e i trasferimenti monetari erogati dall’Inps. La legge 33/2023 ha introdotto lo Snaa (Sistema nazionale per la popolazione anziana non autosufficiente). Prevede – a livello centrale, regionale e locale – la programmazione integrata di tutti gli interventi a titolarità pubblica per la non autosufficienza, afferenti alle tre filiere. In pratica, gli attori pubblici coinvolti programmano congiuntamente come utilizzare l’insieme delle risorse per la non autosufficienza, a livello statale, regionale e locale. Successivamente, però, un altro decreto ne ha rinviato l’introduzione.

A livello dei singoli individui, richiedere assistenza pubblica, attualmente, costringe famiglie e anziani a peregrinare tra una moltitudine di sportelli, luoghi e sedi, affrontando una vera e propria babele di procedure diverse. La semplificazione del labirinto burocratico è un obiettivo fondante della riforma. Dopo oltre un anno di lavoro sul relativo decreto attuativo, da parte del ministero della Salute, la situazione è in stallo. La bozza elaborata determinerebbe iter più complicati rispetto a oggi, aumentando addirittura per gli interessati e le famiglie il numero di passaggi da compiere. In pratica, l’opposto dell’obiettivo dichiarato. Il ministero, d’altra parte, pare ora intenzionato a preparare un nuovo testo.

Nuovi modelli d’intervento

La legge 33/2023introduceva servizi domiciliari pubblici appositamente ideati per gli anziani non autosufficienti – servizi che oggi in Italia non esistono. Quello più diffuso, l’assistenza domiciliare integrata (Adi) delle Asl, offre infatti solo singole prestazioni di tipo medico e infermieristico, in media 14 visite annuali, che sono utili, ma certo non sufficienti a gestire la complessità dei bisogni di questa popolazione.

La nuova assistenza domiciliare era basata su tre pilastri: una durata commisurata ai bisogni (che si prolungano nel tempo); una visione globale della condizione dell’anziano (grazie alla collaborazione tra servizi sociali e sanitari); la capacità di offrire risposte appropriate alle diverse esigenze e variabili secondo le situazioni (sul versante infermieristico, riabilitativo, sociale, psicologico e altro). Anche in questo caso, un successivo decreto attuativo ha rinviato l’introduzione della domiciliarità rivolta alla non autosufficienza.

Passando ai servizi residenziali, lo schema del relativo decreto attuativo – presentato in aprile – contiene alcuni punti positivi sull’organizzazione dei servizi, ma elude le questioni fondamentali, a partire dalla più importante: la dotazione di personale, cioè la garanzia di un numero sufficiente di operatori per assistere adeguatamente i residenti.

Se il decreto venisse approvato nella forma attuale, l’assenza dello stato diverrebbe la posizione ufficiale delle istituzioni italiane. Ciò equivarrebbe a stabilire, per gli anni a venire, che il compito di affrontare le numerose e complesse questioni legate all’assistenza residenziale spetterà esclusivamente alle regioni.

La legge 33 prevede di riformare l’indennità di accompagnamento, attualmente la misura pubblica più diffusa, trasformandola nella prestazione universale. Questo beneficio viene garantito esclusivamente in base ai bisogni assistenziali degli anziani, mantenendo quindi l’attuale status di diritto. L’importo, oggi uguale per tutti, viene differenziato secondo l’effettiva necessità di assistenza, garantendo una maggior equità grazie alla previsione di risposte diverse per condizioni diverse. Infine, a fianco dell’utilizzo del denaro senza vincoli – modalità vigente – viene stabilita una maggiorazione della somma ricevuta in caso la si impieghi per assumere regolarmente assistenti familiari (“badanti”) o per usufruire dei servizi di soggetti privati e del privato sociale accreditati, incoraggiando così una miglior appropriatezza dell’assistenza.

La riforma, tuttavia, è stata sostituita dalla sperimentazione per il biennio 2025-2026 di una versione assai diversa della prestazione. Qui la possibilità di riceverla viene condizionata non solo dall’elevato fabbisogno assistenziale del richiedente, come accade oggi, ma anche dal fatto che le sue risorse economiche siano inferiori a una determinata soglia. In una simile ipotesi, la tutela della non autosufficienza in quanto tale cessa di costituire un obiettivo del welfare pubblico, che interviene solo quando il cittadino non autosufficiente o la sua famiglia non sono economicamente in grado di provvedere.

L’ampliamento dell’offerta

È evidente che per fornire risposte più ampie servono nuove risorse. Tuttavia, la riforma finora non ha ricevuto fondi dedicati. Si stima che a regime siano necessari tra i 5 e i 7 miliardi aggiuntivi annui di spesa pubblica, un obiettivo da raggiungere gradualmente, attraverso un piano pluriennale. Sarebbe però miope concentrarsi unicamente sui fondi senza considerarne l’utilizzo. Finora, la riforma non ha portato a definire alcun concreto percorso di sviluppo al quale destinare gli eventuali maggiori stanziamenti. In altre parole, se – per ipotesi – domani il governo volesse riservare un miliardo alla riforma, non saprebbe verso quale intervento convogliarlo. Qualunque nuovo finanziamento – quanto mai auspicabile e necessario – dovrà essere strettamente collegato a una maggior progettualità.

Ritardi si, immobilismo no

La tabella 1 sintetizza lo stato dell’arte dell’attuazione della riforma approvata nel marzo 2023. Giunti a dicembre 2025, è lampante che il percorso è in deciso ritardo. È normale che una riforma ambiziosa in un settore a elevata complessità politica e tecnica – del quale, oltretutto, lo stato in precedenza non si è mai occupato in modo organico – incontri difficoltà importanti. Sarebbe fatale, però, lasciare che i problemi si tramutino in blocchi insuperabili portando a una situazione di immobilismo.

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