Negli Usa la gestione degli aeroporti è pubblica con concessioni parziali e concorrenziali. In Italia e in Europa vige un modello integrato, che favorisce posizioni di rendita privata. Alcune proposte per riequilibrare e rendere più trasparente il sistema.

Dentro l’aeroporto c’è un centro commerciale

Quando un cittadino entra in un aeroporto, raramente pensa a chi lo gestisce o a come funziona la sua economia. Eppure, da queste scelte dipendono una parte del costo dei biglietti, la struttura degli spazi e la destinazione dei profitti derivanti dall’attività aeroportuale.

Negli ultimi venti o trent’anni, gli aeroporti si sono trasformati in sistemi complessi, dove il passeggero percorre un tragitto progettato per massimizzare il tempo di permanenza e la spesa. Il percorso verso il gate è oggi concepito come un centro commerciale intrinseco, nel quale ogni flusso attraversa negozi, ristorazione e servizi.

Nei grandi scali, le attività commerciali generano circa il 40 per cento dei ricavi complessivi, quota che scende negli aeroporti minori. Quasi metà del valore economico di un aeroporto moderno (ovvero del suo gestore) non deriva quindi dall’attività aeronautica in senso stretto, ma da ciò che accade dopo i controlli e lontano dalle piste.

A seconda di come la normativa nazionale decide di trattare queste entrate — integrandole o meno nel calcolo delle tariffe — cambia chi ne beneficia: lo stato, il gestore o il passeggero.

Concessioni e tariffe: un monopolio naturale che va regolato

Gli aeroporti restano infrastrutture pubbliche, ma vengono affidati in concessione a soggetti privati per periodi lunghi.

La concessione attribuisce al gestore un diritto esclusivo su un’infrastruttura che opera in monopolio territoriale: per questo motivo le tariffe devono essere regolate.

La tariffa aeroportuale deve remunerare gli investimenti e i costi operativi, ma non deve trasformarsi in extraprofitti derivanti dalla posizione dominante.

Il modo in cui questo equilibrio viene realizzato distingue nettamente Stati Uniti ed Europa

Negli Usa una regia pubblica

Quasi tutti gli aeroporti statunitensi appartengono a città, contee o autorità portuali (come la Port Authority of New York & New Jersey).

Il privato interviene solo su asset specifici: un terminal, un parcheggio, un impianto cargo.

L’esempio più noto è LaGuardia Terminal B, affidato in concessione al consorzio LaGuardia Gateway Partners (Vantage, Meridiam, Skanska) per progettare, finanziare, costruire e gestire il terminal sotto controllo pubblico.

Schema analogo per Jfk Terminal 4, operato da JfkIat (gruppo Schiphol), primo terminal nordamericano gestito da un privato in lease dedicato: anche qui il pubblico conserva la proprietà e la regia, mentre il privato porta capitale e competenze operative.

Di conseguenza, non esistono monopoli sull’intero aeroporto. Il pubblico mantiene la responsabilità strategica, la sicurezza e la determinazione delle tariffe; il privato si limita a fornire efficienza su un perimetro preciso, con remunerazione proporzionata alla performance. È un modello che limita le rendite e favorisce confronti competitivi tra operatori diversi nello stesso scalo.

In Europa concessioni integrate e gestore unico

Nel Vecchio Continente prevale il modello della concessione totale: la proprietà resta pubblica, ma la gestione integrata di air-side, land-side e commerciale è affidata a un unico concessionario per 20–30 anni o più.

La direttiva 2009/12/Ce consente agli stati membri di scegliere come regolare le tariffe aeroportuali, ma la prassi continentale ha spesso consolidato assetti monopolistici regolati, dove il gestore gode di ampia autonomia economica. Gli schemi concessori prevalenti sono due: single till e dual till

Nel single till, tutte le entrate, comprese quelle commerciali (negozi, parcheggi, real estate), concorrono a ridurre i costi riconosciuti e quindi abbassano le tariffe che devono pagare passeggeri, merci e vettori.

Nel dual till i ricavi commerciali sono solo parzialmente considerati (di norma circa il 50 per cento) ai fini della riduzione tariffaria; la quota restante resta interamente al gestore.

Nei paesi con modello single till (Regno Unito, Svezia, Finlandia) le tariffe risultano mediamente più basse; dove prevale il dual till (Francia, Germania, Italia), il gestore trattiene gran parte dei profitti non-aviation.

In altre parole, con il single till, i profitti derivanti dal supermercato e dal parcheggio “aiutano” a ridurre le tariffe aeroportuali; con il dual till, quei profitti non vengono conteggiati — o lo sono solo in minima parte — e restano integralmente al concessionario.

Il modello della Spagna

La Spagna rappresenta un modello intermedio tra quello statunitense e quello tipicamente europeo. Sebbene le concessioni siano totali, tutti i principali aeroporti sono gestiti da Aena s.a., società a maggioranza pubblica (lo stato spagnolo detiene circa il 51 per cento) e quotata in borsa dal 2015.

Aena controlla quasi l’intera rete nazionale – più di 45 aeroporti – operando in regime di concessione unificata e sotto la vigilanza della Comisión Nacional de los Mercados y la Competencia (Cnmc), che regola le tariffe.

Il sistema spagnolo adotta un approccio single till quasi integrale: i ricavi commerciali – duty free, retail, parcheggi e real estate – concorrono pienamente alla riduzione delle tariffe aviation. Questo ha consentito di mantenere costi aeroportuali tra i più bassi d’Europa, pur garantendo utili consistenti e dividendi al Tesoro spagnolo grazie alla partecipazione pubblica diretta.

Il dual till “puro” dell’Italia 

L’Italia, invece, rappresenta un caso emblematico. I principali sistemi aeroportuali (Roma, Milano, Venezia, Napoli) operano sotto un regime dual till, stabilito nei contratti di programma firmati con Enac (Ente nazionale aviazione civile) e vigilati dall’Autorità di regolazione dei trasporti (Art). Enac cura la parte tecnica, di sicurezza e concessoria: rilascia le licenze, approva i piani di investimento e stipula i contratti con i gestori. Art, invece, è un’autorità indipendente con sede a Torino, istituita nel 2011, che definisce i criteri tariffari, vigila sulla trasparenza contabile e sull’equità di accesso alle infrastrutture. In sintesi: Enac regola il “come”, Art il “quanto”.

Quando i ricavi commerciali – che rappresentano circa il 40 per cento delle entrate totali di un grande aeroporto – non riducono le tariffe aviation, si produce un trasferimento netto di ricchezza dai passeggeri ai concessionari: come utenti, i passeggeri pagano diritti aeroportuali più elevati incorporati nel biglietto; come consumatori, contribuiscono ai profitti del gestore acquistando beni e servizi all’interno dello scalo.

L’aeroporto diventa così una macchina da margine, capace di monetizzare due volte lo stesso flusso di traffico, pur operando su un bene pubblico spesso cofinanziato con fondi europei.

Il caso di Aeroporti di Roma è pressoché unico nel panorama globale. Il dual till è sancito nel contratto di programma come elemento strutturale della concessione. 

Le tariffe vengono calcolate escludendo totalmente i proventi commerciali (retail, parcheggi, ristorazione, immobili). Si tratta quindi di un dual till puro, dove l’intera redditività del comparto non aviation resta nelle mani del gestore e non contribuisce ad abbassare i costi per compagnie e passeggeri. Nel caso Adr, l’effetto calmierante è nullo.

Un sistema da riformare

Insomma, se negli Stati Uniti il pubblico resta garante dell’interesse collettivo e utilizza il privato come strumento di efficienza, in Europa – e ancor più in Italia – lo stato si è invece ritirato, consentendo a pochi gestori di trasformare un’infrastruttura pubblica in una rendita privata a rischio nullo. Resta l’eccezione virtuosa del modello spagnolo.

Per riequilibrare il sistema, servirebbero tre azioni coerenti e progressive. In primo luogo servirebbe allineare gli incentivi, cioè introdurre, almeno nei futuri rinnovi o ampliamenti, elementi di single till, affinché una parte significativa dei margini commerciali contribuisca alla riduzione delle tariffe aviation. Poi si dovrebbe rafforzare la trasparenza: i dati separati tra aviation e non-aviation, richiesti da Art, dovrebbero essere pubblici e confrontabili con le compagnie aeree, le uniche controparti tecnicamente preparate. E poi si dovrebbe favorire la concorrenza interna: la transizione non può riguardare le concessioni principali, spesso pluridecennali e fondate su investimenti già sostenuti dai gestori. Può però riguardare nuove opere e servizi: ampliamenti terminalistici, aree cargo, parcheggi, infrastrutture energetiche, servizi digitali. Tali interventi — non legati agli asset originari — possono essere sviluppati tramite Ppp – partenariati pubblico privati – selettivi o gara pubblica, introducendo moduli concorrenziali senza destabilizzare gli equilibri attuali.

In conclusione, il riequilibrio del sistema non passa dalla rottura del modello, ma dalla sua evoluzione: dalla rendita di posizione alla creazione di valore tramite efficienza, trasparenza e concorrenza nei segmenti dove è davvero possibile. Senza questo percorso graduale, ogni biglietto aereo continuerà a contenere una tassa invisibile: quella del profitto monopolistico pagato dai cittadini per l’uso di un bene pubblico che, almeno in teoria, appartiene a tutti.

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