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Un programma europeo di assistenza alla mobilità *

Dopo il referendum svizzero, anche l’Unione Europea si interroga sulla mobilità interna dei lavoratori. Urge riconsiderare le modalità di accesso al welfare da parte di chi si sposta per lavoro all’interno dei confini comunitari. Senza limitarne la libertà di circolazione.

IL PRECEDENTE SVIZZERO

Il voto del 25 maggio rischia di diventare non solo un referendum contro l’Euro, ma anche un referendum contro l’immigrazione. Come in Svizzera dove i cittadini hanno recentemente votato a maggioranza contro la libera circolazione dei lavoratori fra il loro Paese e l’Ue. I politici europei sono terrorizzati. David Cameron ha chiesto una rinegoziazione dei trattati europei con l’obiettivo di inserire delle restrizioni alla libera circolazione dei lavoratori comunitari all’interno dell’Unione Europea, uno dei pilastri del Mercato Unico dal Trattato di Roma in poi. In Germania il dibattito sull’immigrazione proveniente da Bulgaria e Romania ha alimentato le paure che gli immigrati bulgari e rumeni possano abusare del generoso sistema di welfare tedesco.
Limitare la libera circolazione dei lavoratori non è solo una minaccia all’identità europea, vuol dire minare alle basi l’unione monetaria. La mobilità del lavoro è essenziale in un’unione monetaria in cui i mercati del lavoro dei Paesi membri da almeno cinque anni a questa parte si muovono in direzioni tra di loro divergenti. Per ridurre la disoccupazione e, al contempo, contrastare pressioni inflazionistiche o deflazionistiche in diverse parti dell’Eurozona, la mobilità dei lavoratori all’interno dell’unione monetaria può essere molto più efficace di una politica monetaria necessariamente comune per tutti i Paesi membri.
Il problema è che l’eterogeneità delle condizioni economiche all’interno dell’Unione Europea è anche la vera ragione per cui stanno emergendo queste forti tensioni politiche sui flussi migratori. E’ in atto un profondo cambiamento nella direzione dei flussi migratori verso l’Europa. Gli emigrati bulgari, rumeni e di altri nuovi stati membri dell’Europa centrale e orientale rappresentano oggi la parte più mobile della forza lavoro europea.  Mentre l’emigrazione verso nord dei cittadini dei Paesi in crisi dell’Europa meridionale è stata relativamente limitata, anni di profonda crisi nel sud-Europa hanno sostanzialmente fatto cessare i flussi provenienti dai nuovi paesi membri della Ue verso Paesi di destinazione tradizionali come Italia, Spagna e Irlanda. Questi flussi migratori si dirigono adesso verso la Germania, la Svizzera e, in misura minore, la Gran Bretagna. Circa il 70 per cento del recente boom migratorio verso la Germania può essere attribuito al peggioramento delle condizioni economiche nelle destinazioni alternative (Bertoli et al., 2013).
L’immigrazione dai nuovi stati membri dell’Ue compensa, almeno in parte, la scarsa mobilità dei lavoratori italiani, greci, spagnoli e portoghesi, riduce la disoccupazione nell’Europa meridionale in crisi e previene un eccesso di domanda in Paesi come la Germania. Gli immigrati devono poter andare dove c’è lavoro.

L’ACCESSO DEGLI IMMIGRATI AL WELFARE

Come è stato documentato in nostri studi (Boeri, 2010), la maggiore fonte di preoccupazione dell’opinione pubblica non è legata al lavoro, ma all’accesso da parte degli immigrati al welfare. I dati non sembrano avvalorare la tesi secondo cui gli immigrati abusano dei generosi sistemi di protezione sociale europei. In Svizzera, i tassi di disoccupazione dei lavoratori stranieri sono bassi e la popolazione straniera residente è un contribuente netto dello stato sociale, particolarmente per quanto riguarda il sistema pensionistico. In Gran Bretagna il tasso di disoccupazione degli immigrati provenienti dai nuovi stati membri della Ue è più basso di quello della popolazione autoctona. Stessa cosa si può dire circa la probabilità di ricevere prestazioni sociali (Dustmann e Frattini, 2013). Sempre per disoccupazione e prestazioni sociali erogate, i tedeschi sono solo poco al di sotto dei livelli dei bulgari e dei rumeni residenti in Germania, il cui livello è comunque ben inferiore alla media della popolazione straniera residente: la grande maggioranza degli immigrati lavora, paga le tasse e versa i contributi sociali (Brücker et al., 2014).
Il problema è che mentre i lavoratori immigrati sono sottorappresentati tra i pensionati, i destinatari di indennità di malattia e di sussidi di disoccupazione, tutte prestazioni sociali di tipo assicurativo finanziate coi contributi dei lavoratori, sono invece sovra-rappresentati fra coloro che ricevono trasferimenti di assistenza a prescindere dai contributi versati (Boeri, 2010). Il saldo netto è positivo – in quanto  sono maggiori i trasferimenti intergenerazionali fatti ai pensionati da parte dei lavoratori immigrati rispetto ai sussidi assistenziali che quest’ultimi ricevono (vedi Bonin, 2006 per la Germania; Dustmann e Frattini, 2013, per il Regno Unito) – ma l’opinione pubblica vede in questo accesso degli immigrati all’assistenza sociale una minaccia. Bene chiarire che non si tratta di abuso: i lavoratori immigrati non ricevono maggiori trasferimenti rispetto a quelli loro dovuti in base alle regole del paese di accoglienza, alle loro posizioni lavorative, alle caratteristiche delle loro famiglie e al loro reddito (Boeri, 2010).
Le preoccupazioni dell’opinione pubblica vanno comunque prese seriamente in considerazione. Una ragione ulteriore per cui l’Ue deve affrontare il problema è che l’accesso al welfare da parte dei cittadini di altri paesi europei è una bomba a orologeria che potrebbe deflagrare anche prima delle elezioni. Il fatto è che la Corte Europea di Giustizia dovrà ben presto esprimersi in merito all’accesso alle prestazioni sociali del welfare da parte dei cittadini immigrati. Al momento la legislazione europea su questo tema si basa sul principio dell’uguaglianza di trattamento. I lavoratori immigrati, che pagano le tasse e i contributi sociali, hanno diritto ai benefici del welfare previsti per i cittadini autoctoni. La direttiva europea sulla libera circolazione e le legislazioni nazionali prevedono anche delle clausole di salvaguardia volte a prevenire il cosiddetto “welfare shopping”, cioè il rischio che gli immigrati scelgano in che Paese stabilirsi non in base alle opportunità di impiego, ma guardando alla generosità relativa del welfare nel paese che li dovrebbe accogliere. In particolare, gli immigrati da altri paesi dell’Ue che non lavorano devono provare di poter provvedere autonomamente alla loro sussistenza e non possono godere dell’assistenza sociale per un periodo transitorio che può durare fino a 2 anni.
Questi regimi transitori sono molto controversi. I tribunali del lavoro tedeschi si sono spesso espressi contro l’esclusione dal welfare di chi proviene da altri Paesi Ue ed è in cerca di lavoro. Questa esclusione viene considerata come una violazione del principio di uguaglianza di trattamento della direttiva europea sulla libera circolazione dei lavoratori.  La questione è stata sottoposta alla Corte Europea di Giustizia.  In un’audizione presso la Corte, la Commissione Europea ha sostenuto che l’esclusione dalle prestazioni sociali di chi cerca lavoro viola la direttiva europea sulla libera circolazione. Se la Corte Europea di Giustizia dovesse ora recepire questa posizione della Commissione (raro che la Corte si dissoci dalla Commissione), la cancellazione dei regimi transitori scatenerebbe il sentimento anti-Ue e anti-immigrazione in tutta Europa.

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CHE FARE?

Per disinnescare questa bomba ad orologeria senza compromettere la mobilità dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea, è opportuno riconsiderare al più presto l’accesso al welfare da parte di chi si sposta all’interno dell’Ue sulla base di due principi fondamentali.
Il primo è che gli immigrati devono avere accesso al welfare nei Paesi dove pagano le tasse e i contributi sociali. Altrimenti costi e benefici fiscali dell’immigrazione si genererebbero in paesi diversi. Questa è la ragione economica principale a sostegno del principio di uguaglianza di trattamento.  Questo principio, tuttavia, non è sufficiente. Di fatto, copre i rischi legati alla mobilità dei lavoratori da un Paese Ue ad un altro, ma presuppone che i migranti abbiano già un lavoro prima di muoversi, cosa alquanto irrealistica.
Questo ci porta al secondo principio chiave: dovrebbe essere l’Unione Europea a finanziare i sussidi di disoccupazione e l’assistenza sociale nel periodo transitorio, attraverso l’introduzione di un programma di sostegno alla mobilità finanziato direttamente dal bilancio dell’Unione. Il sussidio per l’assistenza alla mobilità dovrebbe essere limitato al livello di sussistenza ed erogato solo per un breve periodo (al massimo 6 mesi) applicando le stringenti regole del Paese di destinazione e i livelli di reddito minimo garantito nel Paese d’origine,  corretti per assicurare la parità di potere d’acquisto.
Dato che la percentuale di immigrati che ricevono prestazioni sociali all’arrivo è inferiore al 10 per cento, il costo di questo programma d’assistenza alla mobilità sarebbe limitato e potrebbe essere contenuto sotto i 2 miliardi di euro per l’intera Unione Europea.
Il vantaggio di questo programma di assistenza è che incentiva la circolazione dei lavoratori guidata unicamente dalle opportunità di impiego. Ha quindi anche il pregio di evitare che ci sia una gara al ribasso nel fornire prestazioni assistenziali di base. Infatti non sovraccarica il welfare dei Paesi di destinazione. La giustificazione economica è che ci sono benefici per l’intera Unione Europea nel promuovere la mobilità del lavoro ed è dunque opportuno  che l’Unione si faccia carico di una parte dei costi iniziali dei Paesi d’immigrazione.
Dal punto di vista politico, l’assistenza alla mobilità può avere importanti ricadute: non discrimina chi si sposta per motivi di lavoro all’interno dell’Ue ed è quindi conforme alla direttiva sulla libera circolazione. Potrebbe essere un primo tassello verso l’armonizzazione dei sistemi di assistenza sociale nell’Unione. Anche perché i Paesi di provenienza dei flussi migratori verrebbero incoraggiati ad introdurre delle reti di protezione, sostenendo così indirettamente il welfare dei propri connazionali quando emigrano. I politici che usano i migranti come capro espiatorio rimarrebbero senza argomenti convincenti. Le loro campagne contro “le spugne del welfare” non troverebbero spazio nell’opinione pubblica, a prescindere dalle decisioni della Corte di Giustizia in Lussemburgo.

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* Il testo integrale in inglese su Vox

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Il Punto

  1. rob

    Che ci sia bisogno di un maggiore equilibrio nella circolazione delle persone non riguarda solo il lavoro, ma anche per esempio la giustizia. Al rumeno non solo conviene il welfare tedesco, ma anche il sistema giudiziario italiano. Un furto di un cavallo in romania è punito con 7 anni di galera ( vera) in italia il reato di abigeato credo che non esiste più. Lo smisurato aumento di particolari furti è dovuto alla facilità di circolazione che permette di arrivare subito dopo al mercato di ricettazione (penso al rame, come alle biciclette) . “l’armonizzazione dei sistemi di assistenza sociale nell’Unione.”
    Aggiungo anche il sistema giudiziario e delle pene.

  2. ing

    Chi è costretto ad emigrare (e so di cosa parlo) sarebbe la via più veloce per riequilibrare le condizioni economiche divergenti fra gli stati europei, uniti a questo punto non si capisce perché ed in che cosa; andrebbero mantenuti a livello di “sussistenza” gli aiuti, non sia mai che con qualche spicciolo comprino un gelato.

  3. Armando Avallone

    La soluzione proposta dai prof. Boeri e Bruckner non mi entusiasma per due ragioni di merito e una di metodo.
    Innanzitutto non trovo giusto che paesi che faticano a tenere in piedi il loro welfare (Bulgaria, Grecia, Italia, Spagna, etc.) debbano contribuire indirettamente attraverso il bilancio Ue a finanziare il welfare di paese che attirano lavoratori da altri stati membri (Germania, Olanda, Belgio, etc.).
    In secondo luogo credo la soluzione proposta, in cui le decisioni sul welfare sono prese al livello dello stato membro ma i soldi vengono dalla UE, possa portare a risultati poco efficienti (È facile decidere come spendere i soldi di un altro – vedi il “federalismo all’italiana” ). Insomma o si fa un sistema di welfare europeo, finanziato con fondi UE e con le decisioni principali prese a livello UE, o si resta con l’attuale sistema nazionale, finanziato a livello nazionale e senza discriminazioni sulla base della cittadinanza.
    Infine non credo che decisioni su questioni importanti come welfare e cittadinanza debbano essere prese sulla base di valutazioni di puro “marketing politico”.

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