Il governo sembra voler prendere in esame alcune misure di modifica dei rapporti tra Ministero e Università che lavoce.info aveva già trattato all’inizio dell’estate. Riproponiamo ora questo dibattito con un nuovo intervento di Giovanni Azzone.

Università, risposte sbagliate per giuste esigenze

Le recenti proposte del ministero dell’Istruzione, università e ricerca per la riforma del sistema di finanziamento dell’università, (su lavoce.info, ne ha già discusso Paolo Silvestri), costituiscono un esempio emblematico del modo in cui a una giusta esigenza si può dare una risposta talmente sbagliata da risultare controproducente.

Il problema

Il problema è abbastanza noto. L’attuale sistema di finanziamento del sistema universitario, in linea tendenziale (1), ripartisce tra le università il fondo di finanziamento ordinario (Ffo) sulla base dei risultati “quantitativi” (sostanzialmente, il numero di studenti attivi, con qualche correttivo legato alle specificità delle diverse facoltà). L’unico elemento legato alla qualità del processo formativo è il numero di crediti acquisiti da ciascuno studente, che ha un effetto moltiplicativo nel modello di ripartizione: vengono così premiati gli atenei con un processo formativo più veloce (2).

La soluzione proposta del Miur per riuscire a premiare gli atenei di qualità è articolata su due punti:
A legislazione vigente, legare i finanziamenti ad alcuni parametri “qualitativi”: percentuale di abbandoni dopo il primo anno, percentuale di immatricolati che nell’anno di prima iscrizione non abbiano ottenuto una adeguata percentuale di crediti; percentuale di laureati nel limite della durata del corso, aumentata di un anno; percentuale di occupati, a un anno dal conseguimento del titolo, in relazione alla diversa tipologia delle lauree e delle situazioni di contesto.
In seguito, a partire dal 1 gennaio2005, sostituire l’attuale sistema di finanziamento con un sistema maggiormente centralizzato, in cui la ripartizione delle risorse non sia più effettuata attraverso parametri di tipo quantitativo, ma sulla base della valutazione data dal Miur al piano triennale scorrevole che ogni università dovrà presentare.

I rischi del cambiamento

Per comprendere i rischi di questa proposta, può essere utile schematizzare i due sistemi di finanziamento, evidenziando il ruolo svolto dal Miur e dai singoli atenei.
Il sistema attuale costituisce un esempio classico di sistema “adattativo”. La programmazione avviene in quattro fasi.

Il Miur individua gli obiettivi del sistema universitario e i vincoli posti alle scelte delle singole università. In particolare, tali vincoli sono definiti dai “requisiti minimi” ( risorse umane e strumentali) cui devono soddisfare i corsi di studio per essere accreditati dal Miur.
Coerentemente con gli obiettivi, le risorse assegnate da Governo e Parlamento al sistema universitario vengono suddivise dal Miur tra gli atenei, sulla base di indicatori di prestazione (come abbiamo detto, attualmente si utilizzano gli “studenti pesati”).
Le università individuano autonomamente le modalità più opportune di utilizzare tali risorse in piani e progetti funzionali al raggiungimento degli obiettivi assegnati.

Il Miur verifica i risultati ottenuti, dando avvio a un nuovo ciclo di programmazione.

Come è noto, il sistema adattativo è in generale adatto a contesti complessi, poco prevedibili, con numerosi stakeholder, in cui è essenziale disporre di una buona capacità di risposta all’evoluzione del contesto. È, quindi, una soluzione coerente con le caratteristiche del sistema universitario italiano.
Quello proposto dal Miur alla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane è invece un classico esempio di sistema di programmazione “integrato”.

Il Miur definisce gli obiettivi del sistema universitario, i singoli atenei predispongono piani pluriennali e, infine, il Miur confronta tali piani e decide l’allocazione ottimale delle risorse tra le università.

Un sistema di programmazione integrato, tuttavia, funziona solo quando siano rispettate alcune condizioni. In primo luogo, il contesto è facilmente prevedibile, in modo da poter valutare il realismo degli obiettivi individuati dalle università nei propri piani triennali. E il contesto è omogeneo, in modo da poter confrontare agevolmente i diversi obiettivi presenti in ciascun piano.
Il sistema integrato funziona in ambienti semplici, facilmente prevedibili e con una struttura di potere fortemente accentrata.
Al contrario, in contesti complessi porta inevitabilmente ad alcune “degenerazioni”. Non è possibile confrontare seriamente gli obiettivi contenuti nei diversi programmi e l’allocazione delle risorse è in realtà basata sulla pura negoziazione.

Di conseguenza, la pianificazione viene percepita come attività inutile e rituale, rivolta più a “promettere” che a valutare ragionevolmente le diverse alternative.
Poiché l’effettivo raggiungimento degli obiettivi non viene “premiato”, si innesca una forte demotivazione e una scarsa attenzione agli obiettivi dichiarati dal Miur.

Di fatto, quindi, l’adozione del sistema di programmazione proposto dal Miur, invece di premiare gli atenei, spingendoli a migliorare la qualità del proprio processo formativo, rischierebbe di generare l’effetto opposto, riducendo l’attenzione delle università verso le priorità ministeriali.

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(1) In realtà, sulla base del numero di studenti attivi viene definito il Ffo “teorico” di ciascuna università. Il raggiungimento di tale valore, a partire dal livello “storico” del finanziamento attribuito prima dell’entrata in vigore del meccanismo attualmente vigente, costituisce il risultato di un processo graduale (il cosiddetto “riequilibrio”). Attualmente, le università ricevono un finanziamento che, nei casi più favorevoli, è di circa il 20 per cento superiore rispetto al Ffo teorico, e in quelli più sfavorevoli è di circa il 25 per cento inferiore.

(2) In passato, il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario ha sperimentato, su piccola scala, anche alcuni indicatori legati alla qualità della didattica e della ricerca, che però non sono entrati in modo strutturale nel sistema di finanziamento

Ritorno al passato

Paolo Silvestri
8 luglio2003

Nei giorni scorsi la stampa ha ripreso una nota del ministro Moratti indirizzata ai rettori: particolare rilievo è stato dato a una parte del documento, e si è così avvallata l’idea che il ministero finanzierà le università sulla base dei “risultati” e non più “a pioggia”. In realtà, il documento costituisce un atto di indirizzo che si inquadra nel piano di sviluppo 2001-03, in merito ai requisiti minimi dei corsi di studio avviati con i nuovi ordinamenti didattici: non è una nota sulla riforma dei criteri generali di finanziamento delle università. Il Governo si è invece espresso sulla materia in altra sede e con un orientamento ben più radicale: la soppressione delle norme che attualmente disciplinano l’autonomia finanziaria delle università, la cui portata merita di essere brevemente richiamata.

I pochi commi che hanno cambiato l’università

A partire da metà degli anni Novanta le università italiane sono state investite da un processo di riforma senza precedenti, che ha toccato ogni aspetto della vita universitaria. La leva che ha consentito di rimettere in moto un sistema bloccato da almeno una ventina d’anni erano pochi commi inseriti nell’articolo 5 della legge 537/1993 di accompagnamento della Finanziaria per il 1994, che ha dato vita all’autonomia finanziaria degli atenei.

Con la creazione del fondo per il finanziamento ordinario delle università (Ffo) e del meccanismo del riequilibrio, con la delegificazione della normativa sulle tasse universitarie e l’abolizione delle piante organiche, gli incentivi delle università si sono radicalmente modificati: gli atenei sono stati costretti a recuperare quella responsabilità nella gestione delle risorse prima schiacciata tra l’eccesso di regolamentazione del centro e la consuetudine dei rettori di contrattare con il ministero ogni singola micro risorsa (1).

Si è trattato di un processo faticoso e complesso da gestire: non è infatti bastato fare la legge e costruire un apparato tecnico in grado di supportarlo perché il sistema trovasse un suo punto di equilibrio, ma è stato necessario convincere la maggioranza dei rettori che, dato un vincolo aggregato di risorse pubbliche e data la fortissima sperequazione tra atenei e aree disciplinari, la soluzione più equa ed efficiente fosse quella di redistribuire i finanziamenti sulla base di costi standard per studente, ossia sulla base di parametri “anonimi” e noti ex ante. Pur tra incertezze ed errori, il sistema ha funzionato, e ha inaugurato un nuovo stile nelle relazioni tra il centro e la periferia, improntato sulla trasparenza e su una più netta distinzione delle competenze.

Tutto bene dunque? Certamente no; oggi pesano non solo alcuni errori del passato, ma anche le omissioni, in primo luogo, la mancata riforma del sistema di governance interna delle università e la scarsità di risorse. Si tratta di questioni più o meno dibattute, ma che se non affrontate seriamente rischiano di lasciare il sistema “in mezzo al guado” di un delicato processo di transizione (2).

Il colpo di spugna in agguato

In sordina, nel corso dell’iter parlamentare che sta portando alla conversione in legge del decreto 9 maggio 2003, n. 105, recante disposizioni urgenti per le università (quello che, per intenderci, finanzia le borse di mobilità internazionale degli studenti, del dottorato ecc.), con un emendamento del Governo si è cercato di passare un colpo di spugna, abolendo l’articolo 5 della 537/1993. L’emendamento, presentato all’ultimo momento, quando il consenso sulla norma sul diritto allo studio era già stato raggiunto, è stato bloccato dal Presidente della Camera, che lo ha ritenuto non ammissibile perché non strettamente attinente al decreto legge. Ma è assai probabile che il Governo lo ripresenti in Finanziaria o con un provvedimento ad hoc.

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Un nuovo meccanismo di programmazione

Che cosa propone in alternativa il ministro? E perché abolisce l’articolo 5 della 537? Si delinea un meccanismo assai più complesso, che si basa sulla dialettica diretta tra il ministro che, con proprio decreto, definisce ogni tre anni (rimodulabili però annualmente) gli obiettivi e le risorse del sistema universitario, e gli atenei (solo i pubblici o anche quelli legalmente riconosciuti?), che sempre ogni tre anni presentano programmi di attività che individuano il fabbisogno di personale, l’offerta formativa, il programma di sviluppo della ricerca, le azioni di potenziamento dei servizi agli studenti e i programmi di internazionalizzazione.

Dunque, un metodo di ripartizione delle risorse non più basato su criteri noti ex ante e affidato a parametri quantitativi, ma sul risultato della valutazione dei programmi avanzati dalle singole università effettuata dal ministro. Un potente meccanismo di programmazione, almeno in apparenza.
Chi ha esperienza diretta in campo universitario sa bene però come generalmente vengono fatti i piani di sviluppo delle iniziative da parte degli atenei: l’impegno è tutto rivolto a giustificare la richiesta più alta possibile di risorse, anziché a mettere a punto progetti sensati.

D’altra parte, è anche noto che la capacità tecnica del ministero di entrare nel merito dei progetti è molto limitata. Nonostante l’esperienza positiva del Comitato nazionale di valutazione, siamo ancora molto lontani dall’applicazione di un modello di valutazione esterna delle università, l’unico capace di garantire un giudizio di merito dei progetti, inserendoli nel loro specifico contesto. L’evoluzione del sistema in questa direzione è certamente auspicabile, ma impone un salto culturale (e finanziario) enorme: la previsione di rafforzare lo staff ministeriale con alcuni (massimo dieci) professionisti “qualificati nel campo della valutazione” è semplicemente un palliativo.

Desiderio di dirigismo

Ciò che traspare dalla norma è piuttosto il duplice desiderio di un ritorno al dirigismo centralistico tipico degli anni Ottanta e di un sostanziale ampliamento dei margini di discrezionalità nell’allocazione dei fondi, margini che la precedente normativa aveva ridotto all’osso, pur senza cancellarli (accordi di programma).

Se, da un lato, possono anche risultare comprensibili le propensioni accentratici del ministero, inquietante, è la mancanza di reazioni da parte delle università.
È molto probabile che questo silenzio nasconda il desiderio di chiudere con la 537/1993, soprattutto da parte di quegli atenei che hanno sistematicamente perso risorse negli anni passati mediante il meccanismo del riequilibrio.
Ma, dal momento che le risorse pubbliche per il sistema universitario non sono destinate ad aumentare, il gioco allocativo sarà inevitabilmente a somma zero. Di conseguenza, o il nuovo meccanismo finirà per non punire (e non premiare) nessuno, con buona pace degli obiettivi del sistema di programmazione, oppure ci saranno nuovi vincenti e perdenti.
È assai probabile che alcuni atenei nutrano la segreta speranza (o la ragionevole certezza) di essere i candidati vincenti perché più bravi a contrattare. In entrambi i casi è elevato il rischio che a perdere sia il sistema nel suo complesso e che questo gran cambiamento non nasconda altro che un desiderio, sempre duro a morire, di tornare al passato.

 

(1) Per un’analisi della riforma del finanziamento delle università si rinvia a G. Catalano e P. Silvestri, “Regolamentazione e competizione nel sistema universitario italiano: effetti e problemi del nuovo sistema di finanziamento,” in Daniele Fabbri e Gianluca Fiorentini (a cura di), Regolamentazione e finanziamento dei servizi pubblici. Roma: Carocci, 1999, pp. 143-85.

(2) Una discussione di questi problemi è contenuta in D. Rizzi e P. Silvestri, “Mercato, concorrenza e regole nel sistema universitario italiano. Riflessioni in margine ad un articolo di H. Hansmann.” Mercato concorrenza regole, aprile 2001, 3(1), pp. 147-74.

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