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I lavoratori invecchiano, le statistiche migliorano

L’occupazione aumenta dell’1 per cento e il tasso di disoccupazione scende al livello più basso degli ultimi undici anni. Dalla rilevazione trimestrale Istat delle forze lavoro arrivano buone notizie. Che però, a parità di occupati, si spiegano con l’invecchiamento e la diminuzione della popolazione italiana. Aspettando gli effetti della Legge Biagi, permangono intanto dualismo territoriale occupazionale e settentrionalizzazione della crescita del lavoro.

Con una crescita del Pil negativa, una finanza pubblica traballante e un’inflazione galoppante, il mercato del lavoro rappresenta la nota più positiva della situazione congiunturale italiana.
Nonostante qualche campanello d’allarme per gli ultimissimi mesi, questo è il quadro che emerge dalla rilevazione trimestrale delle forze lavoro, relativa al luglio 2003.
Su base annuale, l’occupazione italiana è cresciuta dell’1 per cento, mentre il tasso di disoccupazione ha raggiunto l’8,3 per cento, il livello più basso degli ultimi undici anni.
Ma per capire veramente le statistiche del lavoro sono necessarie due considerazioni. La prima riguarda la congiuntura, la seconda l’invecchiamento della popolazione

La congiuntura

Se guardiamo alla crescita trimestrale destagionalizzata, il livello occupazionale è rimasto invariato, riflettendo l’andamento del Pil. Tuttavia, il tasso di occupazione (definito come il rapporto tra il numero di occupati e popolazione in età lavorativa) è aumentato dal 56 al 56,4 per cento.
Questo dato, contabilmente soddisfacente, è legato alla dinamica della popolazione in età lavorativa, e rappresenta forse il fenomeno più interessante della nuova inchiesta delle forze lavoro. In altre parole, stiamo iniziando a osservare gli effetti dell’invecchiamento e della diminuzione della popolazione italiana sulle statistiche del lavoro.

L’invecchiamento della popolazione

Lo spostamento della popolazione verso classi di età maggiore tende a provocare simultaneamente un aumento del tasso di occupazione e una diminuzione del tasso di disoccupazione.
Pensiamo prima alla fascia di età più anziana, quella che va dai 50 ai 64 anni. In un dato periodo di tempo, l’invecchiamento della popolazione implica che in questa fascia di età entreranno più individui cinquantenni con alti tassi occupazionali, rispetto alle uscite verso la pensione di individui di 65 anni con bassi tassi occupazionali. Questo effetto coorte fa aumentare il peso della classe di età più anziana, come si evince dall’aumento di 161mila occupati su base annua della classe di età 50-59. Visto in questi termini, l’aumento occupazionale dei lavoratori più anziani appare anche compatibile con il continuo aumento delle uscite verso le pensioni di anzianità, come recentemente sostenuto dall’Inps.
Ma l’invecchiamento della popolazione ha anche un impatto sul tasso di disoccupazione. A parità di occupati, un aumento di anziani con alti tassi di occupazione e una riduzione di giovani in entrata tende a far diminuire il tasso di disoccupazione, in quanto la disoccupazione in Italia (e altrove) si concentra tra i lavoratori giovani. Queste considerazioni suggeriscono che i fenomeni osservati (aumento del tasso di occupazione e riduzione del tasso di disoccupazione a parità di occupati) potranno continuare nei prossimi trimestri, con effetti positivi sulle statistiche del lavoro. In altre parole, se il mercato del lavoro riuscirà a mantenere invariato il numero di occupati, le statistiche tenderanno inevitabilmente a migliorare.

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Aspettando gli effetti della Legge Biagi

Al di là di questo fenomeno, permangono il dualismo territoriale occupazionale e la settentrionalizzazione della crescita del lavoro, in modo analogo a quanto avevamo riferito commentando l’indagine trimestrale relativa ad aprile 2003 (vedi Garibaldi).

Infine, la situazione descritta da dati Istat relativi a luglio non riflette ancora gli effetti della Legge Biagi, approvata definitivamente soltanto a settembre. Per cercare di valutare gli effetti di tale riforma, sarà necessario attendere le prossima inchiesta sulle forze lavoro.

 

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sommario 23 settembre 2003

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Modigliani

  1. Un giovane lettore

    I dati destagionalizzati (Apr 2003-Luglio 2003) segnalano sia una diminuzione assoluta del numero di occupati (meno 6000 unit? sia la riduzione delle persone in cerca di occupazione (meno 16.000 unit?. E?un tale andamento interpretabile come presenza di componente scoraggiata ?

    • La redazione

      Caro lettore,
      La diminuzione del numero di occupati destagionalizzati ?talmente piccola da poter essere ignorata, come fatto nel mio articolo.
      La diminuzione della disoccupazione secondo me ha a che vedere con gli effetti coorte, come sostenuto nel mio articolo.
      Questo ?compatibile anche con l’aumento degli occupati pi? anziani. Potrebbe per?anche esserci una componente di scoraggiamento, come da lei suggerito, ma occorrebbe guardare ai dati sui flussi.

      Grazie, P.G.

  2. davide colombo

    L’invecchiamento della popolazione italiana spiega il miglioramento del tasso di disoccupazione (a parità di occupati). Le chiedo, Professore Garibaldi, se non ci sia un equivoco statistico di fondo che, forse, andrebbe chiarito. L’Istat considera persone in età di lavoro quelle comprese nelle classi di età tra i 15 e i 64 anni. Un riferimento molto vasto che, se dal mercato del lavoro facciamo un piccolo salto agli equilibri demografici che “stanno dietro” lo sbilancio previdenziale italiano, produce un indice di dipendenza degli anziani (65 anni e oltre) sulla popolazione attiva tra i più alti d’Europa. Le chiedo: posto che l’obbligo scolatico è oggi a 16 anni, ha ancora senso considerare in “età da lavoro” coorti di cittadini di età compresa tra i 15 e i 18 anni? Tutti sappiamo che un lavoro stabile si raggiunge in realtà molto più tardi…. Grazie e buon lavoro
    Davide Colombo

    • La redazione

      Lei ha in parte ragione, forse dovrebbe iniziarsi dopo i 15 anni, e verso i 18 anni. Tuttavia questa statistica è molto usata in ambienti internazionali e sarebbe un disastro se l’istat da sola decidesse di cambiare base.
      Cordiali saluti. P.G.

  3. Mara Gasbarrone

    Sono molto d’accordo con Lei sull’importanza del fattore demografico, completamente trascurato in molte analisi (cfr. il commento all’indagine dell’ISAE).
    Non sarebbe ora, per portare più avanti l’analisi, di affiancare – a quelli tradizionali – anche degli indicatori che consentano di isolare il peso esercitato dalla componente “struttura per età della popolazione” come si fa abitualmente in demografia?
    Mi riferisco alle “popolazioni tipo”, con classi di età di dimensioni uniformi, cui applicare i tassi specifici di occupazione / disoccupazione / attività. E’ l’unico modo, penso, di misurare l’impatto “sociale” delle trasformazioni del mercato del lavoro. L’impatto economico, naturalmente, richede un’analisi un po’ diversa.

    • La redazione

      Sono daccordo con lei, anche se il numero aggregato è comunque importante e utile, e deve essere mantenuto. La sua scomposizione per classi di età e popolazioni tipo va fatta con più attenzione e forse la conoscenza dei demografi sarebbe da prendere a tesoro. Aiuterebbe anche a interpretare i cambiamenti in corso. Ad ogni modo, servono tutte e due.
      Cordiali saluti, Pietro Garibaldi

  4. Trinco Ugo

    Da qualche anno il tasso di disoccupazione scende, anche ora che siamo in recessione/stagnazione. Cerco di spiegare questa incrongruenza apparente con l’aumento di flessibilità che è stata introdotta in Italia negli ultimi anni e che apparentemente ha migliorato il tasso di occupazione.
    Come facile esempio, parlando con altri 3 amici attorno ad un tavole e portando alle estreme conseguenze alcune considerazioni, ho raccontato che nell’Italia di alcuni anni fa se solo uno di noi avesse avuto un lavoro a tempo indeterminato e gli altri fossero stati disoccupati, il tasso di disoccupazione sarebbe stato del 75%, mentre nell’Italia più flessibile di oggi se ciascuno avesse un contratto a tempo per 3 mesi, il tasso di disoccupazione sarebbe del 0%, nonostante che le ore lavorate fossero le stesse nei 2 casi.
    Ciò porterebbe a dire che la flessibilità, durante la fase di transazione tra sistema rigido e flessibile, rende inaffidabili i dati statistici, migliorandoli.
    Ovviamente, raggiunto il regime, la statistica sarà relativa a dati omogenei e quindi valida.
    Gradirei un Suo autorevole commento su quanto espresso da un dilettante.
    Grazie e complimenti per il lavoro svolto.

    • La redazione

      Il suo esempio è giusto ma è anche coerente con la definzione del tasso di disoccupazione, il cui compito è quello di contare le teste che lavorano, indipendentemente dal numero di ore che ciascuna testa lavora. Per controllare le ore lavorate ci sono altre statistiche, e forse una delle migliori e già il prodotto interno lordo. Non è vero che il tasso di disoccupazione è più inaffidabile in periodo di transizione, è solo che dobbiamo sapere intepretarlo. Per gli effetti della flessibilità può comunque leggere gli articoli apparsi su lavoce.info in passato.

      Saluti, PG

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