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Precari veri e presunti

Il sentire comune vuole che i collaboratori coordinati e continuativi siano più di due milioni. E che quindi in Italia si assista a una generale precarizzazione del lavoro subordinato. Ma è una credenza lontana dalla realtà: se si analizzano i pochi dati disponibili, ci si accorge che i veri co.co.co. sono circa seicentomila. Gli altri sono riconducibili ai liberi professionisti, pensionati e persone con doppio lavoro. Anche la nuova figura del “lavoratore a progetto” può essere positiva. Il rischio è semmai nei decreti attuativi della Legge Biagi che, invece di razionalizzare il fenomeno, potrebbero finire per incrementare il lavoro nero.

Se provate a chiedere in giro quanti sono i collaboratori coordinati e continuativi, troverete che molti sanno rispondere: “Sono più di due milioni”. Se poi chiedete chi sono, constaterete che la loro immagine professionale è eterogenea, mentre è molto omogenea quella sociale. Si sa che svolgono mestieri assai diversi (operatori di call-center, animatori turistici, consulenti informatici, intervistatori a domicilio, esperti di formazione, promotori finanziari), ma si pensa che la precarietà del rapporto di lavoro li renda un po’ tutti dei poveracci.

Questa immagine è sorretta non soltanto dalle storie metropolitane fiorite su di loro e dall’apposita rubrica de l’Unità (“Atipiciachi”), ma da una diffusa casistica individuale e dai libri ormai dedicati ai “co.co.co”. Oltretutto, si sa che molte amministrazioni pubbliche impiegano questi lavoratori para-subordinati proprio perché non vogliono aumentare i dipendenti.

L’immagine e la realtà

Se davvero ben due milioni di persone, il 10 per cento degli occupati, lavorassero come para-subordinati pur essendo di fatto dei subordinati, l’Italia avrebbe un enorme problema sociale, da sommare a quello dei milioni di lavoratori in nero.
Ma è proprio questo il punto da sollevare: la convinzione che i co.co.co. siano così tanti suffraga l’idea che in Italia ci sia una crescente precarizzazione del lavoro.

Questa immagine annichilisce la realtà del nostro mercato del lavoro, dove la crescente flessibilità non ha impedito che aumentasse la quota di impieghi stabili, e dove il 30 per cento dei lavoratori interinali viene assunto a tempo indeterminato (si veda l’ultimo “Rapporto di monitoraggio” del ministero del Lavoro).

La contraddizione fra immagine e realtà deriva dagli scarsi dati e dalle superficiali conoscenze sui co.co.co. Una ignoranza già costata cara al centro-sinistra, che nel 1998 si propose di regolare e tutelare i co.co.co. con una legge approvata dal Senato, ma poi bloccata alla Camera. Ed è una contraddizione che potrebbe costare cara anche al centro-destra se fosse vero che, in base all’articolo 69 della Legge Biagi, il grosso dei co.co.co. si aggiungerà per legge ai lavoratori subordinati, come teme Pietro Ichino (Corriere della sera, 31 agosto) e come spera la Cgil (Rassegna sindacale, suppl. al n. 11, 2003).

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I (pochi) dati sui co.co.co.

Qual è dunque la realtà? Quanti sono e, soprattutto, chi sono i co.co.co?

Secondo i dati Inps, nel 2002 gli iscritti all’apposito Fondo istituito nel 1996, erano quasi 2,4 milioni. Erano iscritti, cioè non necessariamente attivi e non necessariamente contribuenti. Purtroppo, manca proprio questo dato, quello che maggiormente interessa.
Tuttavia, dalle informazioni Inps sui primi tre anni della “gestione separata” sappiamo che nel 1999 gli attivi erano il 72 per cento degli iscritti; che questa quota era in calo, se non altro perché gli iscritti non cancellati continuavano, e continuano ancora oggi, ad aumentare.
È dunque plausibile supporre che nel 2002 la quota di attivi sia la stessa del 1999, cosicché i co.co.co. contribuenti si attesterebbero intorno alla ragguardevole cifra di 1,7 milioni.
Però, i co.co.co. sono un aggregato eterogeneo non soltanto in termini professionali ma anche sociali, come mostra la loro distribuzione per status occupazionale.

Uno studio del Cnel, che comparirà sul “Rapporto sul mercato del lavoro 2002”, consente infatti di individuare questa tipologia di figure, ottenuta riportando al 2002 le posizioni registrate al 1999:

a) 200mila sono “professionisti” operanti con partita Iva soprattutto in professioni non riconosciute, quindi privi di cassa previdenziale e obbligati a iscriversi alla “gestione separata”.

b) 500mila sono “doppio-lavoristi” e “pensionati” che, potendo far valere una propria copertura previdenziale, svolgono attività che integrano un reddito d’altra fonte, quasi sempre maggiore di quello da co.co.co.

c) 400mila sono “amministratori” di società (ma anche di condominio), che denunciano redditi sensibilmente più alti di quelli dei dipendenti, tant’è che prima della riforma Dini i più ricorrevano ad assicurazioni pensionistiche private.

d) 600mila sono i soggetti dei “nuovi lavori”, in prevalenza giovani, fra i quali vi sono quote consistenti di figure deboli, utilizzate dalle imprese per i vantaggi fiscali e per l’aleatorietà dell’impiego. I precari si annidano quasi tutti all’interno di questa figura.

I precari per davvero

È l’unico quadro ragionevole che si può tracciare del fenomeno co.co.co. Questi soggetti esistevano già in passato, ma il boom è cominciato dopo la loro definizione fiscale, e soprattutto dopo che la riforma Dini li ha resi un “residuo” della previdenza poiché non hanno altra copertura pubblica. Per avviare un dibattito davvero concreto sarebbe necessario saperne di più, ma per questo bisogna attendere che l’Inps renda disponibili le informazioni sui versamenti contributivi dopo il 1999 e il ministero delle Finanze quelle sulle dichiarazioni dei redditi dopo il 1998.
Fino ad allora, è bene ricordare che fra i collaboratori coordinati e continuativi le figure suscettibili di effettiva precarietà d’impiego, non sono più di un quarto del totale.
Siamo lontani dai tre quarti del totale di cui parlò il
presidente dell’Inps (Corriere della sera, 20 novembre 1999). Ciò non sminuisce l’evidente rilievo sociale del problema, ma ne abbatte la portata economica per le imprese. Inoltre, parecchi contratti co.co.co. già oggi hanno la sostanza di quello a progetto: le imprese potrebbero stendere due righe per dire qual è il progetto, tanto più che la determinatezza della durata non vieta la reiterazione di progetti simili.
Giustamente, Ichino solleva la questione dell’articolo 5: esclude dalla riforma il co.co.co che opera per una pubblica amministrazione. È impensabile che il comune o la provincia paghino un collaboratore senza aver fissato in un contratto il compito, la durata e il compenso. Altrettanto impensabile è che nel pubblico impiego, esauriti i contratti vigenti, non si possa più commissionare lavoro a progetto.

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Anche questo ci fa temere che l’introduzione del lavoro a progetto, tutto sommato positiva, sia soltanto una parziale razionalizzazione delle collaborazioni coordinate e continuative. Speriamo che dai decreti attuativi non vengano fuori rischi effettivi, non tanto di gonfiamento del lavoro subordinato, ma di lievitazione del lavoro nero.

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sommario 23 settembre 2003

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Modigliani

  1. Monica

    Analisi molto interessante. Da ex co.co.co dell’editoria, ricordo però che esistono, oltre ai parasubordinati Inps, anche i parasubordinati Inpgi. E tantissimi evasori… A proposito, l’associazione in partecipazione è in qualche modo censita?

    • La redazione

      Certo, ci sono anche i parasubordinati non Inps (quindi Inpgi ma anche altri professionisti tenuti al versamento presso le rispettive Casse o Enti previdenziali): riteniamo che le dimensioni quantitative in gioco non mutino il quadro macro tracciato nel nostro commento. Le associazioni in partecipazione, invece, non sono state considerate perché a tutt’oggi non è disponibile nessuna fonte specifica al riguardo
      (almeno in teoria l’Inail potrebbe produrre qualche informazione specifica…). Dal prossimo anno, anche le associazioni in partecipazione dovrebbero essere tenute a un versamento previdenziale in una nuova gestione separata Inps… Chissà che fra qualche anno sappiamo qualcosa di più…
      Cordiali saluti

  2. Carla Nipoti

    Sono d’accordo con Aris Accornero, in Italia le Leggi ci sono, ma non vengono applicate per il semplice fatto che molti imprenditori assumono i lavoratori in nero.
    A questi imprenditori non interessa l’incolumità del lavoratore, ma solo trarre il maggior profitto, con il minor costo e senza imposte.
    A mio avviso si dovrebbe aumentare il numero dei controlli, coordinando i vari settori addetti a questi.
    E’ una mia opinione, ma noto che quando succede un infortunio mortale, anche con personale in regola, il datore di lavoro viene indagato, ma non ho mai visto nessuno finire in prigione per la mancata osservanza delle Leggi.
    Cordiali saluti.
    Carla Nipoti

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