Una rassegna stampa registra le reazioni in Germania seguite alla violazione del Patto. Guardando avanti, cosa si può fare?
Riproponiamo per i lettori de la voce.info anche gli interventi di Vito Tanzi, Roberto Perotti, Guido Ascari, Olivier Blanchard e Francesco Giavazzi, Daniel Gros, Fabrizio Coricelli e Valerio Ercolani sugli effetti sulle politiche anticicliche e sulle possibili riforme del Patto di stabilità e crescita.
a cura di Tiziana Prina Il fatto
27 Novembre 2003
Secondo il compromesso raggiunto la Germania dovrebbe dunque abbassare il deficit 2004 dello 0,6%, depurato della congiuntura, e dello 0,5% nel 2005.
Le reazioni in Germania: i politici. Il compromesso sul deficit fra Germania ed UE ha creato ulteriore tensione fra governo rosso-verde e opposizione (Cdu-Csu e liberali); lo si è visto al Bundestag nella seduta di presentazione dell’equivalente tedesco della nostra finanziaria. Ciò fra l’altro renderà ancora più complesse le trattative in corso al comitato di mediazione, dove si stanno discutendo le riforme del mercato del lavoro e i cui risultati sono attesi a breve. Il cancelliere Schroeder ha difeso il compromesso, sostenendo che chi vi si oppone, tralascia l’opportunità di una maggior crescita nel prossimo anno. Il nome completo del patto è Patto di Stabilità e Crescita; per cui vi sono fasi in cui bisogna tenere in maggior considerazione il secondo obbiettivo. Schroeder ha poi definito l’accordo come un compromesso ragionevole fra ulteriore consolidamento e sostegno ai segnali di crescita. Se la Germania avesse accettato i risparmi imposti, ne sarebbe stata gravemente danneggiata l’economia e soprattutto la congiuntura interna. Per rafforzare gli impulsi di crescita in Germania è infatti necessario anticipare al 2004 la riforma fiscale prevista per il 2005 e ciò non sarebbe stato compatibile con i risparmi voluti dalla commissione UE. Sempre secondo il cancelliere la Germania avrebbe potuto adempiere alle richieste della Commissione, se avesse rinunciato ad anticipare lo sgravio fiscale. Schroeder ha difeso la violazione alle regole del patto davanti al Bundestag e ha definito il medesimo aperto a interpretazioni. Per il ministro delle finanze Eichel il Patto non è morto e va mantenuto così com’è, solo va applicato in modo sensato. Eichel ha suggerito di fare pressioni di consolidamento sugli stati nelle fasi di forte crescita, riprendendo un pensiero del suo collega e oppositore olandese Zalm.
Soddisfatti del compromesso si sono dichiarati anche i verdi e il sindacato DGB, mentre l’Unione (CDU-CSU) teme che la violazione del patto abbia effetti negativi sull’euro. E per bocca del capogruppo Merz sostiene che i ministri finanziari hanno violato nello spirito e nella lettera il patto. Non si tratterebbe, com’è stato presentato, di un compromesso, ma di una brutale decisione a maggioranza dalle conseguenze imprevedibili. Non è escluso che ben presto altri paesi chiederanno un trattamento speciale come la Germania e la Francia. Anche se nel breve periodo le conseguenze non saranno rilevanti, nel medio aumenteranno i deficit e a lungo termine vi saranno pesanti ripercussioni sul livello degli interessi ed anche sulla stabilità della moneta. Dello stesso parere la Csu: Stoiber vede nel comportamento del ministro Eichel la fine del patto e un segnale completamente sbagliato per i paesi candidati all’ingresso nella UE.
Le reazioni in Germania: economisti e commentatori
A sostegno della posizione di Eichel sono intervenuti alcuni esperti. Ad es. Selm di HWWA (Hamburgisches Welt-Wirtschafts-Archiv) vede nell’attuale sviluppo la possibilità che dal vecchio patto ne sorga uno nuovo. Questo Patto di stabilità II dovrebbe essere più completo del precedente, che prevede eccezioni solo in caso di recessioni reali. Al momento dell’attuazione del patto non si era calcolato la possibilità che ci fossero tre anni di stagnazione, sebbene le conseguenze per i bilanci pubblici siano simili a quelli di una forte recessione. Inoltre le nuove linee guida dovrebbero obbligare gli stati a consolidare di più nei periodi di boom che in tempi di crisi congiunturale. L’obiettivo dovrebbe essere quello di avere bilanci in pareggio nell’arco di un intero ciclo congiunturale.
Tuttavia la maggior parte degli economisti sono più critici: essi concordano sul fatto che il compromesso raggiunto a Bruxelles segna lo smantellamento del patto, e uno dei 5 saggi, Wolfgang Franz, mette in guardia da una perdita di fiducia e da un forte aumento degli interessi a lungo termine come conseguenza della decisione presa. Per l’esperto monetario Neumann il patto è praticamente morto, se lo si mette fuori gioco nel momento del bisogno. Anch’egli tuttavia sostiene che il patto non era stato concepito per una stagnazione continua, in quanto si orientava al ciclo congiunturale noto fino a quel momento. Tuttavia la stagnazione non si affronta con deficit persistenti, bensì con cambiamenti strutturali tempestivi, cosa che né Germania né Francia hanno fatto.
Per molti commentatori non si tratta solo di valutare in che misura soffrirà la futura stabilità dell’euro, se viene data dispensa per una politica di bilancio deficitaria: in discussione è il modo brutale in cui il governo francese e tedesco si sono imposti sulla Commissione europea e sui piccoli stati membri. Non esistono dunque regole uguali per tutti, e ciò che viene concesso alla Germania, il Portogallo se lo può ancora per un pezzo sognare. Nessuno dovrebbe sottovalutare le devastanti conseguenze di un simile fatto; sia che si tratti della futura Costituzione europea che di politica estera o di difesa comune molte belle idee provenienti da Berlino o da Parigi saranno da ora in poi guardate con sospetto, in quanto possibili portatrici di interessi occulti. Per questo trionfo effimero di Schroeder e di Eichel su Bruxelles pagherà la Germania, quando il governo rosso-verde sarà solo storia. Conseguenze visibili saranno in tempi non troppo lontani più elevati deficit di bilancio non solo in Germania e in Francia, bensì anche nell’eurozona. Senza la Germania a difesa della cultura della stabilità, i ministri finanziari dei paesi che si sforzano ancora seriamente per il pareggio di bilancio, si troveranno ancora più in difficoltà nell’affrontare le forti lobby politiche che esercitano pressioni sulle finanziarie. La rottura del patto diminuisce le opportunità di una crescita più elevata e quindi di più posti di lavoro e maggior benessere per tutti i cittadini. Ma i politici sanno bene che l’importo di queste perdite a medio termine non è quantificabile, mentre gli effetti congiunturali ottenibili con il denaro distribuito nel breve periodo può aiutare a vincere in un’elezione o nell’altra, ad esempio nel 2005 nel Nordreno Vestfalia. Per consolidare il suo potere il cancelliere ha gettato al vento anche il monito dei più strenui controllori del patto, e dunque non indugerà a fare pressioni politiche sulla Banca centrale europea, se questa per i deficit crescenti si dovesse vedere costretta ad aumentare gli interessi.
Il presidente del Consiglio degli esperti per la valutazione dello sviluppo economico, Wolfgang Wiegard, nel presentare il 12 novembre il rapporto annuale sull’economia, ha sollecitato il governo a rispettare il patto; un nuovo superamento del deficit nel prossimo anno, senza che vengano applicate sanzioni, rischia di smantellare il patto stesso, che è invece necessario anche per il consolidamento interno. Per il presidente della Bundesbank Welteke, fra i compiti principali di un’assennata politica pubblica vi è quella di avere i conti in ordine e a questo servono le norme del patto di stabilità.
Anche per Hundt, presidente di BDA (Confederazione federale delle associazioni tedesche dei datori di lavoro) la decisione dei ministri finanziari rappresenta lo smantellamento del patto di stabilità; particolarmente fastidioso risulta il fatto che proprio chi ha voluto il patto contribuisca ora alla sua fine.
Per la maggior parte degli analisti la decisone dei ministri finanziari non avrà gravose conseguenze sul corso dell’euro; ieri non vi è stata quasi variazione. Anche per il DIW (istituto di ricerca economica) il compromesso non dovrebbe portare ad un ulteriore aumento dell’euro; il patto di stabilità non lo influenzerebbe quasi. I mercati avrebbero già recepito il conflitto e la soluzione adottata non è poi una grande sorpresa, ha dichiarato Horn, capo di DIW-congiuntura. Il conflitto era inevitabile ed è buona cosa che si sia arrivati al compromesso. Finché gli stati europei possono bloccare l’inflazione, si avrà un euro forte. Il legame fra gli adempimenti dei criteri di stabilità dell’euro e la forza della moneta comune è minimo. Se si arrivasse ad una situazione come quella Argentina, allora sarebbe diverso, tuttavia sia la Germania che l’Europa ne sono ben lontane. Decisiva per la forza dell’euro è la crescita dei prezzi; tuttavia l’inflazione non è prevista nel patto di stabilità e Horn, che si è sempre dichiarato molto critico nei confronti del patto, vede confermata la sua opinione in merito alla necessità di riformarlo, prendendo in considerazione le influenze congiunturali.
Anche Rolf Elgeti di Commerzbank Securities ritiene che il mercato ha già da tempo recepito un ammorbidimento del patto; tuttavia ciò ha causato danni strutturali per quanto riguarda la stabilità della moneta sul lungo periodo. Per il momento sul mercato azionario le conseguenze saranno positive: un euro forte è certamente il rischio più temuto dal mercato azionario stesso; un euro forte assottiglia i profitti delle imprese europee esportatrici e il mercato tedesco e belga dovrebbero essere quelli che traggono maggiori benefici dall’attuale situazione, in quanto è massima la loro dipendenza dall’export. Le imprese che hanno debiti o costi in dollari e le cui attività di bilancio o i fatturati sono nell’eurozona saranno invece quelle più penalizzate dall’ euro debole
Comunque la Germania deve risparmiare di più, questo è il monito che l’economista Wurzel dell’Ocse ha lanciato alla presentazione della nuova previsione di crescita; egli invita a non finanziare l’anticipo della riforma fiscale attraverso i debiti: la riforma dovrebbe avera una quasi totale copertura, in modo particolare attraverso il taglio delle sovvenzioni. Secondo l’Ocse la Germania non raggiungerà neppure nel 2005 l’obiettivo posto dal patto di stabilità; nel 2003 il deficit sarà di 4,1, per l’anno successivo del 3,7% e nel 2005 di 3,5%.
La rassegna stampa si basa su articoli apparsi in: Financial Times Deutschland, Handelsblatt, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Sueddeutsche Zeitung, Tagesspiegel-online, Die Welt
Vito Tanzi Il Patto di Stabilità e crescita fu firmato in un periodo che aveva visto i conti pubblici sotto forte pressione in molti paesi e per molti anni. In alcuni casi, le politiche di bilancio erano insostenibili. Per esempio, la proporzione del debito pubblico collettivo dei dodici paesi dell’Unione europea sul Pil era aumentata ogni anno, passando dal 31 per cento nel 1977 al 75 per cento nel 1997. Miglioramenti e crisi Nel periodo tra il 1997 e il 2000-2001 c’è stato un miglioramento nei conti pubblici. Il debito pubblico si è ridotto dal 75 per cento a circa il 70 per cento, con una riduzione anche degli indebitamenti netti. La verità è che una buona parte dell’aumento dell’indebitamento netto non si deve al ciclo, ma a decisioni politiche. E il Patto era stato creato proprio per porre limiti a queste decisioni. Quale lezione per i nuovi paesi UE Dieci nuovi paesi stanno per entrare nell’Unione europea. Questi paesi hanno conti pubblici a dir poco fragili. Se alla Francia e alla Germania viene concesso di ignorare gli accordi, questi nuovi paesi impareranno una lezione che non sarà necessariamente quella buona. E c’è il pericolo che molti paesi ritornino alla politica finanziaria allegra degli anni passati. Per queste ragioni le sanzioni stabilite negli accordi di Maastricht devono essere applicate.
25 novembre 2003
Nello stesso periodo il debito della Germania era aumentato del 34 per cento del Pil, quello della Francia del 39 per cento del Pil e quello dell’Italia del 64 per cento del Pil.
L’andamento delle finanze pubbliche indicava chiaramente che non si poteva lasciare a questi paesi la libertà di continuare a seguire le politiche del passato.
Dopo il 2001 c’è stato un rallentamento nelle economie dei paesi europei, ma non una vera recessione. Questo rallentamento è stato accompagnato in alcuni paesi da un forte peggioramento dei conti pubblici.
In Francia e in Germania l’indebitamento netto ha superato nel 2002 e supererà nel 2003 di parecchio il limite del tre per cento imposto dal Patto. Alcuni osservatori e i rappresentanti di questi governi hanno giustificato il peggioramento come la reazione necessaria di una politica anticiclica per sostenere l’economia.
La Germania e la Francia rischiano di violare il Patto anche nel 2004 e l’Ecofin sembra abbia deciso di non mettere in moto il processo che porterebbe all’applicazione delle sanzioni stabilite nel Patto.
Il Patto fu firmato dai governi dei paesi che decisero di farne parte, inclusi la Francia e la Germania. Una volta firmati, gli accordi internazionale vincolano i paesi e non solo i governi che li hanno sottoscritti.
Allo stesso tempo non sarebbe realista o prudente chiedere alla Francia e alla Germania di ridurre l’indebitamento netto al di sotto del tre per cento del Pil entro il 2004. Sarebbe tuttavia una prova di serietà e di coraggio non rimandare al futuro, ma prendere ora la decisione sulle penalità da applicare a quei paesi se, diciamo, entro il 2005 non riportano il loro indebitamento netto al di sotto del tre per cento del Pil.
Roberto Perotti Da lungo tempo Francia e Germania hanno un disavanzo pubblico maggiore del 3 per cento del Pil, in violazione della principale regola del Trattato di Maastricht e del Patto di stabilità e crescita. In questi giorni riceveranno l’autorizzazione di fatto a continuare. Il Patto dunque è moribondo; molti politici ed economisti se ne rallegreranno, ma per i motivi sbagliati. Il Patto è accusato di due misfatti. Ha costretto i paesi dell’Unione monetaria europea a condurre una politica fiscale destablizzante, cioè a ridurre spesa e disavanzo pubblici esattamente quando le loro economie avevano bisogno del contrario per combattere la recessione. Accuse infondate Sono accuse fondate? No. Un’analisi dei dati Ocse (1) dimostra che negli anni Ottanta i governi dei paesi poi diventati Ume conducevano una politica fiscale destabilizzante: aumentavano i disavanzi quando l’economia andava bene e li diminuivano quando andava male. Ma negli anni Novanta, cioè proprio in coincidenza con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht e poi del Patto, la politica fiscale dei paesi Ume è diventata stabilizzante. Il Patto non ha quindi impedito un miglioramento delle proprietà cicliche delle politiche fiscali decise dai governi Ume. Tre proposte problematiche Certo, il Patto può essere modificato senza abbandonarlo intieramente. Ci sono tre proposte sul tappeto, tutte con una loro logica, ma a mio avviso tutte problematiche. Regole troppo complesse Allora il Patto va bene com’è? No. Il problema, tuttavia, non è nella regola del 3 per cento, un limite certo arbitrario, ma che ha svolto dignitosamente il suo dovere. Il problema è la complessità e l’ambiguità (voluta) delle altre regole e il ruolo improprio che ciò conferisce alla Commissione. Per esempio, il Patto prevede che in circostanze normali un paese abbia una posizione di bilancio “vicino al pareggio o in surplus”, ma nessuno sa bene come questa sia definita, né cosa siano le circostanze normali. Oppure, un paese può superare il limite del 3 percento in gravi circostanze “indipendenti dalla sua volontà”, tra le quali una caduta del Pil di più del 2 per cento, ma può tentare di argomentare il proprio caso anche in occasione di una caduta inferiore, purché superiore allo 0,75 per cento. Queste ambiguità generano inevitabilmente una trattativa infinita e creano spazio per un ruolo improprio della Commissione. Il Patto, con tutti i limiti tipici di ogni regola, ha funzionato. Invece di ucciderlo, rendiamolo più semplice ed eliminiamo ogni ambiguità sulla sua interpretazione. (1) Jordi Galí and Roberto Perotti: “Fiscal Policy and Monetary Integration in Europe”, in Economic Policy http://www.eeassoc.org/. Una versione precedente a quella pubblicata può essera scaricata gratuitamente da http://www.igier.uni-bocconi.it/perotti (2) Roberto Perotti: “Estimating the Effects of Fiscal Policy in OECD Countries”, http://www.ecb.int/pub/wp/ecbwp168.pdf
10 Novembre 2003
Ha costretto i paesi Ume a tagliare gli investimenti pubblici, contribuendo così a peggiorare le prospettive di crescita.
Sulla seconda accusa, è vero che gli investimenti pubblici in Europa sono più bassi che in passato. Tuttavia, questa tendenza era già iniziata negli anni Ottanta, ben prima del Patto. Inoltre, nello stesso periodo gli investimenti pubblici sono caduti in eguale misura anche negli altri paesi Ocse, a eccezione ovviamente del Giappone.
Si può obiettare che tutto ciò non dimostra che il Patto sia utile. Al massimo dimostra che fa meno male di quanto molti si aspettassero, ma questo non è un motivo per tenerlo in vita. Supponiamo allora che i vincoli del Patto siano eliminati: è così ovvio che espandere i bilanci pubblici sia la ricetta giusta per stimolare l’economia?
Il problema è empirico, e sarebbe disonesto pretendere di avere una risposta univoca e certa a questa domanda.
Ma vi sono indicazioni per alcuni paesi Ocse (2) che, mentre negli anni Sessanta e Settanta la politica fiscale aveva un effetto espansivo sull’economia, dagli anni Ottanta in poi la politica fiscale ha perso la capacità di stimolo. Anzi, un aumento della spesa può avere effetti negativi molto forti proprio sugli investimenti privati (un risultato, peraltro, che non avrebbe sorpreso Keynes).
A fronte di questi vantaggi molto incerti, un abbandono del Patto avrebbe costi elevati. L’ Unione europea mostrerebbe al mondo e a sé stessa che al primo minimo intoppo non riesce a tenere in piedi le istituzioni che si è data. Il messaggio ai paesi piccoli della Parola del UE, che in questi anni hanno rispettosamente eseguito i dettami del Patto, sarebbe: qui contano solo i grandi. Infine, il costo potrebbe essere anche economico: i mercati finanziari potrebbero temere, a torto o a ragione, i riflessi sulla politica monetaria della Bce, e i tassi di interesse potrebbero alzarsi.
La “Regola aurea”: esentare dal limite del 3 per cento gli investimenti pubblici. Questa proposta è basata sulla premessa che gli investimenti pubblici “si paghino da sé”, con la maggiore crescita che generano. Questa premessa non è dimostrata: è difficile trovare evidenza empirica convincente che gli investimenti pubblici abbiano effetti positivi; e niente garantisce che, solo perché una spesa è classificata come investimento pubblico, abbia un ritorno sociale positivo. Inoltre, l’esperienza di chi ha applicato la Regola aurea (alcuni paesi sudamericani), è che vi sono enormi incentivi per riclassificare come investimento produttivo ogni tipo di spesa.
Rilassare la regola del 3 per cento per i paesi con basso debito, compresi i debiti derivanti da obblighi di spesa futura, quali spesa pensionistica, per sanità etc. Ma il debito pensionistico dipende dalla crescita futura, dagli andamenti demografici, dalle riforme future, e così via. Ogni paese ha incentivo a sostenere che la crescita futura sarà alta, che il trend demografico sarà favorevole, che farà la riforma pensionistica nel 2008. Anche qui, si apre la porta a un contenzioso infinito.
Rilassare la regola del 3 per cento per i paesi virtuosi che fanno riforme strutturali favorevoli alla crescita. Per esempio, la Commissione ha sostenuto a più riprese che non solo il livello del disavanzo pubblico, ma anche la sua “qualità” dovrebbe essere rilevante per passare l’esame della Commissione (una posizione recepita poi dall’Ecofin e dal Consiglio europeo). Paesi che privilegiano spese “produttive” o che perseguono “riforme strutturali” dovrebbero poter condurre politiche fiscali più espansive di altri.
Nulla da eccepire in via di principio, se non che nessuno sa con certezza quali politiche siano “buone” e quali “cattive”. Per restare su temi vicini a noi, il ponte sullo Stretto è formalmente una infrastruttura pubblica: favorirà la crescita o sarà un ennesimo colossale spreco di risorse? Un aumento di risorse per l’università favorirebbe l’accumulazione di capitale umano o è soltanto un premio a una lobby, quella dei professori universitari, petulante ma improduttiva? La riforma pensionistica tedesca stimolerà la crescita più o meno della non-riforma italiana?
Ognuno di noi ha la propria opinione, ma fa una certa paura pensare che un gruppo di burocrati della Commissione faccia finta (o, peggio ancora, sia convinto) di sapere la risposta a queste domande. E pretenda di influenzare decisioni che invece dovrebbero essere lasciate al dibattito politico dei singoli paesi.
Guido Ascari
4 Settembre 2003
Sparare sul Patto di stabilità e crescita (Psc) è diventato uno sport comune fra gli economisti (e non solo) ( vedi
Fra regole e discrezionalità
Il dibattito fra regole e discrezionalità che ha caratterizzato la gestione della politica monetaria negli ultimi decenni parte dallo stesso problema. Una politica monetaria discrezionale consente di operare in modo anticiclico, per stabilizzare il livello del prodotto di fronte a shock nell’economia. Ma dà incentivi alle autorità per far crescere l’inflazione (tendenza inflazionistica) e generare temporanei boom per esigenze politiche o elettorali.
D’altro canto, una regola ferrea che indichi il tasso d’inflazione da mantenere, elimina il problema della tendenza inflazionistica, perché vincola la banca centrale al raggiungimento dell’obiettivo d’inflazione, ma non consente l’uso anticiclico della politica monetaria. È un problema comune a molte attività umane: riuscire a impegnarsi credibilmente su un obiettivo di lungo periodo, mantenendo una certa flessibilità nel breve.
Lo stesso problema si pone per la politica fiscale. Qui la discrezionalità si presta ancor di più a un utilizzo improprio che camuffa da politiche stabilizzatrici anticicliche manovre di tipo opportunistico. Come l’esperienza italiana dimostra, il risultato è un crescente livello di indebitamento a scapito delle generazioni future (che oggi non votano).
Il Psc nasce esattamente da queste preoccupazioni e dalla volontà di imporre credibilmente un comportamento virtuoso alla politica fiscale. Le regole sul deficit e sul rapporto debito/Gdp a cui ogni Paese deve attenersi sono la soluzione adottata dal Psc.
Le banche centrali indipendenti
L’imposizione di regole rigide non è una soluzione al problema, non è la soluzione suggerita dalla letteratura economica e seguita nel caso della politica monetaria. In tutti i Paesi sviluppati la soluzione è stata quella di delegare la politica monetaria a un’autorità indipendente: le banche centrali, rese indipendenti. (1)
La delega consente di proteggere l’autorità dalle pressioni politiche contingenti e pone la gestione della politica monetaria nelle mani di tecnici competenti.
L’autorità monetaria può così impegnarsi in modo credibile su un obiettivo di medio-lungo termine (per esempio, basso tasso d’inflazione), mentre si garantisce un uso ottimale della flessibilità nel breve periodo in funzione stabilizzatrice. La delega ha funzionato benissimo: oggi l’inflazione sembra sconfitta e, casomai, sfide di segno opposto attendono la politica monetaria.
Logica vorrebbe che all’analogo problema per la politica fiscale si applicasse la stessa soluzione: delegarla a un’autorità indipendente, un ministero delle Finanze indipendente. Questo garantirebbe il rispetto dei vincoli di solvibilità (deficit e debito/Gdp) nel medio-lungo periodo, ma anche la possibilità di usare in modo ottimale gli strumenti della politica fiscale in modo anticiclico, senza perdita di credibilità (garantita dal prestigio e dalla reputazione dell’istituzione indipendente).
Mai sentito parlare di democrazia?
La proposta è volutamente provocatoria: “No taxation without representation” è il motto che ci accompagna dai tempi della Rivoluzione Americana. E dunque, la prima reazione è di netto rifiuto, in nome delle istituzioni democratiche. Ma ci sono alcune considerazioni da fare.
Se quaranta anni fa, qualcuno avesse suggerito di delegare la gestione della politica monetaria avrebbe suscitato la stessa reazione negativa. Alle banche centrali si è delegato un enorme potere: quello di fissare il tasso d’interesse, con un immediato impatto sulla vita di tutti noi e sulle nostre tasche. Nessuno però si scandalizza più, semplicemente perché è chiaro che è la cosa giusta da fare. Nell’assetto istituzionale di una democrazia, ci sono molti poteri alcuni dei quali (per esempio, la magistratura) non sono democraticamente eletti. Il problema si inquadra in quello più ampio del limite da porre ai tecnici di fronte alla politica.
Inoltre, le banche centrali sono indipendenti nella scelta degli strumenti, ma non nella definizione dei fini. L’obiettivo da perseguire è dato dai politici: nel Regno Unito, il Cancelliere dello Scacchiere comunica alla Banca d’Inghilterra il livello obiettivo del tasso d’inflazione nel medio periodo. Per la Bce questo è fissato nello statuto che la istituisce, e così via. È più che auspicabile che la scelta degli strumenti sia in mano a tecnici competenti piuttosto che ai politici, come è auspicabile che gli obiettivi siano fissati da poteri democraticamente eletti.
In un mondo ideale, il parlamento potrebbe fissare gli obiettivi di politica fiscale che attengono alla sfera politica: la distribuzione del reddito, il livello e la composizione della spesa pubblica nel medio periodo.
All’autorità fiscale indipendente potrebbe poi chiedere di calcolare la struttura delle tasse dirette e indirette e dei contributi, in modo da attuare quegli obiettivi in modo ottimale, ossia minimizzando le distorsioni imposte dalle tasse sull’economia, e stabilizzando il reddito.
L’assetto istituzionale dovrebbe essere garantito da un apposito sistema di meccanismi di controllo e di equilibrio. Oggi le banche centrali hanno obbligo di agire in modo trasparente e di render conto del proprio operato di fronte al parlamento. Hanno obiettivi e strumenti chiaramente definiti.
Molti aspetti tecnici non possono essere qui affrontati.. Ma più ci penso, e più mi sembra che, almeno parzialmente, si possa delegare la politica fiscale.
Per saperne di più
Calmfors, L., 2003, Fiscal policy to stabilise the economy in the EMU: which lessons can be learnt from monetary policy?, dattiloscritto, Università di Stoccolma.
Wyplosz, C., 2002, Fiscal policy: rules or institutions?, dattiloscritto.
Per il più ampio problema del limite da porre ai tecnici di fronte alla politica, si veda
Blinder, A.S., 1997, Is government too political?, Foreign Affairs 76, pp. 115-126.
(1) L’ultimo Paese sviluppato che mancava all’appello e che ha solo recentemente imboccato in modo deciso questa strada è stato il Regno Unito. Per l’Italia si va indietro di parecchio, con il famoso divorzio tra Bankitalia e Tesoro datato 1981.
26 Novembre 2002 Dopo mesi di discussioni, la questione della riforma del Patto di Stabilità è venuta al dunque. Quest’anno il deficit tedesco si avvicinerà al 4 per cento del PIL e il cancelliere Schroeder ha annunciato che per rispettare il Patto aumenterà le imposte dell’1 per cento del PIL. In un’economia che da tempo ha smesso di crescere questo sarebbe un vero “kiss of death“. L’economia tedesca rappresenta oltre il 30 per cento dell’area euro: per rispettare il Patto, Schroeder rischia di trascinare tutta l’Europa in una recessione profonda. Non vi è alcun dubbio che se oggi si potesse riscrivere il Patto, esso sarebbe molto diverso da quello che fu approvato ad Amsterdam nel 1997. Delle molte ragioni per le quali è opportuno imporre vincoli di bilancio ai paesi che adottano una moneta comune, il Patto ne affronta una sola: la tentazione dei governi di espandere il deficit nel momento in cui tassi di interesse e cambio non rispondono più alle politiche di un singolo paese. Quindi la punizione per politiche fiscali lassiste è per lo meno attenuata. Ma vi sono altre ragioni, altrettanto e forse più importanti, che il Patto non affronta. Il Patto: un incentivo ad alzare le imposte e un ostacolo alla riforma delle pensioni Alla radice dei problemi di finanza pubblica in Europa vi è un eccesso di spesa corrente: pensioni, sanità, costo dei dipendenti pubblici. Abbiamo sistemi previdenziali pubblici troppo ampi e generosi in confronto alla capacità delle nostre economie di produrre gettito fiscale senza imporre aliquote che distruggano gli incentivi a lavorare e a investire. In assenza di limiti alla spesa corrente-limiti che il Patto non impone–i vincoli sui saldi di bilancio rischiano di tradursi solo in aliquote ancor più elevate (come sta per accadere in Germania) e in tagli della spesa per investimenti pubblici. Vi sono riforme importanti, in primis quella delle pensioni, che abbasserebbero la spesa corrente entro 5-10 anni, ma che nel frattempo costano. Per incentivare il passaggio a forme previdenziali integrative è infatti necessario ridurre i contributi obbligatori al sistema previdenziale pubblico. Ma nel frattempo bisogna continuare a pagare le pensioni agli attuali pensionati. Quindi, per almeno un po’ di tempo, le entrate delle casse previdenziali (i contributi) diminuiscono, mentre le uscite (le prestazioni pensionistiche) rimangono invariate. Non fare le riforme pensionistiche semplicemente perché non se ne può pagare il costo nel breve periodo non è certo una scelta saggia. E’ ciò che da tempo sostiene il Fondo monetario internazionale, più preoccupato della tendenza di medio periodo della finanza pubblica che del deficit di un anno. Ma un nuovo Patto richiederebbe tempi lunghi perchè sarebbe probabilmente necessario modificare i tratti europei. E l’esperienza di Nizza insegna quanto quella procedura sia incerta. Non c’è tempo per attendere. Le drammatiche decisioni del governo di Berlino e i loro rischi per l’Europa incombono oggi, non tra due anni. La domanda è: che cosa si può fare oggi ? Le nuove proposte della Commissione Mercoledì la Commissione europea annuncerà la propria proposta di modifica delle regole del Patto. Pare che la Commissione proporrà di renderlo meno asimmetrico. Oggi infatti il Patto guarda solo al deficit, indipendentemente dal livello del debito, con il risultato che il Portogallo, che ha un deficit elevato ma poco debito, subisce le sanzioni, mentre l’Italia, con un deficit inferiore alla soglia massima ma un debito tre volte più grande di quello portoghese, non subisce alcun richiamo. Sembra inoltre che la Commissione consentirà ai paesi con un rapporto debito-pil inferiore alla soglia massima del 60 per cento di finanziare, anche in deficit, riforme strutturali. Sono proposte senz’altro giuste, ma che metteranno nei guai l’Italia: e poiché per essere approvate si richiede l’unanimità dell’Ecofin, è improbabile che faranno molta strada. Ma soprattutto sono proposte che non aiutano a risolvere il problema tedesco, poiché la Germania ha sia un deficit elevato che un debito già oltre la soglia massima, e in aumento. In Germania bisogna cambiare la composizione della domanda pubblica, non ridurne il livello. Come evitare che il Patto trascini la Germania e l’Europa intera in una recessione (con i rischi di deflazione a questa associati: si veda
Olivier Blanchard e Francesco Giavazzi
Non sappiamo se questa idea si farà strada (per chi volesse saperne di più rimandiamo a Blanchard-Giavazzi 2002) anche se è una delle poche modifiche del Patto prese in considerazione dalla bozza di Giscard, pubblicata il 21 ottobre. Se la Commissione non lo farà lo farà l’Ecofin, non solo perché trattare gli investimenti alla stregua della spesa corrente è sbagliato, ma soprattutto perché è il solo modo per evitare un’ulteriore contrazione dell’economia tedesca.
© 2002 Olivier Blanchard e Francesco Giavazzi. E’ vietata la riproduzione integrale di questo scritto, in qualsiasi forma, senza il consenso degli autori
Per saperne di più
Altre proposte di revisione del patto sono state avanzate da altri economisti, tra cui Charles Wyplosz (Università di Ginevra) e Riccardo Fiorito.
La Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo (27 novembre 2002): Strengthening the co-ordination of budgetary policies
Daniel Gros Già in passato i Verdi si sono mostrati più aperti a cambiamenti strutturali, come ad esempio nelle pensioni, anche perchè i loro elettori non sono percettori di pensioni pubbliche. Oggi i Verdi possono sostenere o non ostacolare altre riforme importanti per il futuro dell’Europa, come quella della politica agricola comune (PAC) di cui non condividono l’impianto: una buona notizia, soprattutto in vista dell’allargamento a Est dell’Unione Europea, processo che rende la riforma della PAC indispensabile. Le elezioni premiano anche la scelta eterodossa di Schroeder di schierarsi apertamente contro la guerra in Iraq. Questo successo personale di Schroeder può aprire scenari nuovi non solo in politica estera, ma anche rispetto alla posizione della Germania nei confronti del Patto di stabilità e crescita. Nel 2002 la Germania non ha rispettato il Patto, nel senso che non ha rispettato l’impegno preso nell’ambito del suo programma di convergenza. E’ anche molto probabile che alla fine dell’anno il deficit del 2002 sarà superiore al 3 % del Parola del PIL. Sebbene molti abbiano ipotizzato che, a urne chiuse, sarebbe caduto ogni freno inibitorio per il governo tedesco a richiedere modifiche del Patto, non credo che la Germania proporrà cambiamenti che aggirino il tetto del 3%. Il nuovo governo si impegnerà a rientrare sotto questo tetto nel 2003. L’unico fattore di incertezza riguarda la personalità del Cancelliere. In queste elezioni ha visto premiata la sua eterodossia nello scegliere una posizione apertamente contraria alla guerra. Un domani potrebbe essere tentato a rompere con l’ortodossia finanziaria che si schiera nettamente a favore del Patto. A questo punto si apre la possibilità, soprattutto se la fase di stagnazione dovesse perdurare, che il Cancelliere possa, un domani, essere tentato a rompere con l’ortodossia finanziaria che si schiera nettamente a favore del Patto. È da sperare che non accada. Neppure in direzione dell’introduzione della “golden rule” (la regola aurea per cui solo la spesa per investimenti può essere finanziata con il debito pubblico). Infatti, le spese per investimenti (in genere costanti intorno al 3 % del PIL) non sono quasi mai la causa dei deficit ‘eccessivi’. Semmai è da auspicare un rafforzamento del Patto nel senso di legare più strettamente vincoli sul deficit a livello del
4 Settembre 2002
Più verde, meno rosso. Il mutamento nei toni di colore della maggioranza che governa la Germania ha un significato metaforico: maggiore disponibilità alle riforme, minore forza nel contrastarle. Anche se, a ben guardare, in campagna elettorale pochi impegni sono stati assunti per cambiare la struttura del sistema socio-economico tedesco. I risultati delle elezioni in Germania attribuiscono un ruolo molto importante nel nuovo governo ai Grunen. Questo piccolo spostamento del baricentro all’interno della coalizione può creare più spazio alle riforme in campo economico, perché i Verdi, come del resto i Liberali, hanno un elettorato relativamente più giovane e istruito dei socialdemocratici e dei cristiano-democratici e, al contrario di questi due grandi partiti, non hanno interessi da difendere.
Fin qui i fattori di discontinuità rispetto al passato. Cio’ che possiamo facilmente aspettarci e’ invece che la Germania continui a fare da traino nel processo di allargamento a Est dell’Unione. Tutta la classe politica tedesca è consapevole del fatto che l’allargamento è nell’interesse del paese e anche se molti preferirebbero pagare meno tasse alle istituzioni europee, alla fine tutti accetteranno di sobbarcarsi una buona fetta dei costi fiscali dell’allargamento perché la Germania rimane il Paese più grande e ricco dell’Unione.
L’attenzione dei Verdi verso le riforme economiche di cui l’Unione Europea ha urgente bisogno per attrezzarsi all’allargamento (politica agricola, immigrazione, ecc.) dovrebbe essere di ulteriore sostegno a questo ruolo di traino. L’unico fattore che può, a questo punto, bloccare l’allargamento è un nuovo al referendum sul Trattato di Nizza in Irlanda.
Qualcosa su cui la classe dirigente tedesca può fare ben poco.
Fabrizio Coricelli e Valerio Ercolani Il dibattito offre comunque l’opportunità di discutere gli eventuali limiti del
2 Settembre 2002
Non è certo un caso che il Patto di stabilità venga attaccato durante il periodo elettorale in Germania. Accusare Bruxelles per coprire i problemi politici interni è diventata una consuetudine dei governi della UE.
Due punti principali
Il primo riguarda l’esigenza di distinguere la componente ciclica da quella strutturale del deficit ed eventualmente indicare un tetto (oggi del 3%) soltanto per la parte strutturale.
Il secondo concerne la cosiddetta “golden rule”, ovvero l’idea secondo la quale gli investimenti pubblici dovrebbero essere scorporati dal computo del deficit. Questi punti hanno implicazioni sia economiche che politiche.
Gli aspetti puramente economici
Una volta stabilito che la filosofia generale del Patto di stabilità sia giusta, cosa si può dire delle regole specifiche che esso impone? Alla Germania è stato chiesto un aggiustamento fiscale nel periodo di rallentamento dell’economia. Come mostra la Tabella 1, che riporta le stime della Commissione Europea, per la Germania e per molti altri paesi europei il peggioramento del deficit è dovuto ad una crescita nettamente inferiore a quella prevista nei programmi di stabilità.
In realtà, la politica discrezionale tedesca è stata restrittiva poichè il peggioramento effettivo del deficit è stato inferiore a quello spiegato dalla minore crescita del PIL, ovvero dalla componente ciclica. Da qui vengono le critiche che sostengono che la componente ciclica andrebbe scorporata dal tetto sul deficit.
Va ricordato che la logica del Patto di stabilità prevedeva tali problemi, ma assumeva che partendo da deficit vicino a zero, le fasi recessive non avrebbero comportato problemi nel soddisfare il tetto del 3%. Ma è stato sufficiente un rallentamento dell’economia e non una recessione per portare il deficit tedesco vicino alla soglia del 3%. Il tetto del 3% ex post ha dei limiti fondamentali. Oggi vediamo i suoi problemi in una fase di rallentamento, ma lo stesso accadrebbe anche in fase di crescita. Quando le economie sono in espansione, infatti, non vi è alcuna garanzia che vengano generati dei surplus di bilancio.
Il problema è che le regole di politica fiscale dovrebbero essere applicate ai programmi di spesa nominali e gli obiettivi di deficit dovrebbero valere soltanto ex ante.
Questo è quanto accade già in molti paesi, ad esempio nel Regno Unito. Per costruzione, la regola di spesa sarebbe anti-ciclica e coerente con gli obiettivi di inflazione della BCE. Ogni paese dovrebbe dichiarare nel proprio programma di stabilità l’ammontare di spesa coerente con la crescita di medio periodo dell’economia (la cosiddetta crescita potenziale già calcolata per determinare il deficit ciclico) e con l’inflazione attesa dalla BCE. Se l’economia dovesse crescere al di sotto della crescita potenziale la spesa pubblica crescerebbe ex post, in relazione al PIL, dando origine ad un deficit. L’opposto si verificherebbe in caso di espansione. Le entrate dovrebbero muoversi proporzionalmente al PIL e modifiche di aliquote o sgravi fiscali dovrebbero essere compensati da riduzioni della spesa. La regola sarebbe omogenea per ogni paese, ma terrebbe conto della diversa dinamica del PIL potenziale. Inoltre, i diversi livelli iniziali del rapporto debito- PIL dovrebbero essere incorporati nella regola. La verifica della realizzazione dei piani sarebbe semplice e senza possibilità di diverse interpretazioni. L’organo di controllo verificherebbe che il paese abbia speso l’ammontare di Euro programmato.
Gli aspetti politici: il nuovo ruolo di Bruxelles e l’esempio inglese
L’adozione di tale regola modificherebbe il ruolo di Bruxelles. L’organo di verifica dovrebbe essere costituito da auditors indipendenti. I paesi della UE dovrebbero approvare l’auditor scelto da ogni paese. La Commissione Europea verificherebbe soltanto la coerenza dei piani di spesa e le relazioni degli auditors. Scostamenti significativi dai piani programmati dovrebbero far scattare automaticamente le penalizzazioni. In sostanza, la regola renderebbe responsabili i paesi della loro politica fiscale e il ruolo di Bruxelles sarebbe del tutto marginale. Oggi, invece, esiste un ampio margine di discrezionalità nel Consiglio dei Ministri.
Il secondo punto sollevato è quello della “golden rule”. Anche in questo caso sarebbe sufficiente guardare all’esempio inglese. In Inghilterra la “golden rule” è stata uno strumento importante per il recupero delle infrastrutture che nel periodo thatcheriano erano cadute a livelli da paese del Terzo Mondo. La “golden rule”, però, non va vista come una scusa per allentare il vincolo totale sulla spesa, ma deve essere coerente con un deficit complessivo compatibile con gli obiettivi di medio periodo di stabilità e crescita. Ad esempio, per un paese come l’Italia che dovrebbe ridurre il rapporto fra debito e PIL, il bilancio pubblico totale dovrebbe essere tendenzialmente in avanzo. La “golden rule” garantirebbe che l’aggiustamento di medio periodo venga effettuato attraverso una riduzione delle spese correnti. L’applicazione della “golden rule” nel Regno Unito negli ultimi anni è avvenuta mantenendo un bilancio pubblico totale vicino al pareggio.
L’allargamento della UE
Infine, il problema dell’allargamento della UE, questione totalmente assente nel dibattito sulle modifiche del Patto di Stabilità. Le attuali regole non sembrano compatibili con l’ingresso dei paesi candidati, previsto all’inizio del 2004. Per molte nazioni dell’Europa centro-orientale rispettare il vincolo del 3% è praticamente impossibile, a meno di dannosi aggiustamenti dell’ultimo momento. Tali paesi hanno registrato deficit pubblici dell’ordine del 4-5% del PIL in un periodo di crescita (vedi Tabella 2). L’ingresso nella UE comporterebbe spese stimate dalla Banca Mondiale attorno al 2% all’anno per il prossimo decennio. Il livello degli investimenti pubblici è in molti casi triplo di quello dei paesi della UE e ciò si giustifica con le esigenze di ammodernamento delle infrastrutture. E’ dunque probabile che i nuovi aderenti alla UE si troveranno al momento del loro ingresso con deficit strutturali nettamente superiori al 3%. In caso di recessione tali deficit potrebbero raggiungere livelli impensabili.
In conclusione, la posizione di chi suggerisce di mantenere lo status quo è solo apparentemente di buon senso. Non modificare le regole, accettando eventualmente di interpretarle in maniera più flessibile, un po’ all’italiana, è una ricetta per destabilizzare l’Unione Europea.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Lascia un commento