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Alcune risposte sul Patto

Lorenzo Bini Smaghi interviene nel dibattito sulle conseguenze della decisione Ecofin di non sanzionare Francia e Germania per aver superato per tre anni di fila i vincoli di deficit consentiti dal Patto di Stabilità e Crescita. Riproponiamo per i nostri lettori anche i contributi di Innocenzo Cipolletta, Riccardo Faini, Francesco Giavazzi, Daniel Gros e Tommaso Monacelli e la lettera di Vincenzo Visco .

Alcune risposte sul Patto di Lorenzo Bini Smaghi *

La decisione dell’Ecofin del 25 novembre ha innescato un nuovo dibattito sul Patto di Stabilità e crescita, anche su lavoce.info.
Al di là del loro merito, ci si deve chiedere se le proposte di modifica del Patto avrebbero aiutato a risolvere i problemi che l’Ecofin ha dovuto affrontare nel Novembre scorso.

Maggior peso al rapporto debito-Pil

La Commissione, nel suo documento dell’autunno 2002, e altri, come il Rapporto Sapir, hanno chiesto di dare maggior enfasi al rapporto debito-Pil nella valutazione delle politiche di bilancio, senza indicazioni più specifiche.
Si può tener conto del debito in due modi. Il primo è nella definizione del close-to-balance come obbiettivo di medio periodo contenuto nel Patto. Di fatto, questo già avviene, come dimostrano le opinioni del Consiglio sui Programmi di stabilità di alcuni paesi. In ogni caso, non era questo il problema sul tavolo dell’Ecofin del 25 novembre.

Un altro modo per tener conto del debito è di concedere più margini, oltre il 3 per cento del Pil, ai paesi con basso debito. La letteratura economica non consente di identificare in assoluto un livello di debito ottimale. Si dovrebbe valutare la sostenibilità del debito, calcolato in termini “forward looking”, incorporando cioè le passività future derivanti dall’invecchiamento della popolazione. Secondo i calcoli dell’Ocse, del Fmi e della Commissione europea, il debito pubblico della Germania e della Francia, aumentato di oltre venti punti percentuali del Pil negli ultimi dieci anni, è insostenibile. La dinamica è esponenziale, soprattutto per effetto dell’aggravamento della spesa sociale. Le riforme recenti, il cui impatto deve ancora essere valutato in termini quantitativi, attenuano solo in parte la dinamica futura della spesa.
Per questi due paesi, dunque, non sembrano dunque esserci motivi validi per allentare, se non temporaneamente come ha deciso l’Ecofin, il vincolo del 3 per cento posto dal Trattato.

La Golden Rule

Indipendentemente dal merito di questa proposta, l’esclusione della spesa pubblica per investimenti non avrebbe impedito che Francia e Germania registrassero un passivo di bilancio.
Nel 2003 il disavanzo corrente tedesco è stimato pari all’1,4 per cento del Pil, quello della Francia allo 0,6 per cento. Peraltro, la Golden Rule sarebbe controproducente per i paesi che hanno problemi di sostenibilità del debito, dato che consentirebbe un ulteriore aumento dell’indebitamento pubblico. Se gli investimenti pubblici sono effettivamente produttivi, meglio allora farli valutare e finanziare, almeno in parte, dal mercato.

L’aggiustamento per il ciclo economico

Anche se la regola del 3 per cento venisse applicata al saldo di bilancio corretto per il ciclo, invece di quello nominale, Francia e Germania avrebbero comunque superato la soglia prevista dal Trattato (3,9 e 3,5 per cento, rispettivamente, nel 2003). L’aumento del disavanzo non è dovuto solo al rallentamento ciclico. Tra il 2000 e il 2003, i disavanzi della Germania e della Francia corretti per il ciclo sono aumentati di 1,6 e di 1,5 punti percentuali, rispettivamente.Peraltro, la decisione dell’Ecofin di accordare ai due paesi un anno in più per ridurre i loro disavanzi, come proposto dalla Commissione, è stata motivata proprio dal rallentamento ciclico. Questo dimostra che il Trattato, oltre che il Patto, può essere interpretato in modo flessibile.

Se qualcosa non ha funzionato nel Patto è di non aver indotto il risanamento finanziario durante la fase favorevole del ciclo. I saldi corretti per il ciclo della Francia e della Germania sono peggiorati già dal 2000( di 0,4 e 0,1 punti del PIL), quando le economie dei due paesi crescevano a un ritmo superiore al potenziale Il rafforzamento della disciplina nella fase favorevole del ciclo è alla base della decisione dell’Eurogruppo dell’ottobre 2002 di chiedere una correzione di almeno 0,5 punti percentuali all’anno per i paesi che sono lontani dall’equilibrio.

Le riforme strutturali

Alcuni hanno sostenuto che il Patto non incentiva le riforme. L’esperienza di questi anni sembra mostrare il contrario. Sotto la pressione esercitata dall’Ecofin, sono state avviate importanti riforme in Francia e in Germania nel 2003, in particolare nel settore previdenziale. L’avvio del processo di riforma nei due paesi è stato uno dei fattori presi in considerazione dall’Ecofin nella sua decisione.

Tre scuole di pensiero

Al di là delle questioni legali e procedurali, sarebbe opportuno porre maggior attenzione sul merito delle politiche economiche svolte in Europa negli ultimi anni. Il dibattito su la voce.info ha mostrato che esistono (almeno) tre scuole di pensiero.
La prima sostiene che le politiche di bilancio condotte in Francia e in Germania sono adeguate, ma vengono dannosamente vincolate dal Patto e dal Trattato, che dovrebbero dunque essere modificati.
La seconda ritiene invece che le politiche dei due paesi non sono adeguate, anzi sono fuori linea in termini di sostenibilità di lungo periodo, ma la fase di rallentamento ciclico non consente una correzione drastica nel breve periodo. Il Patto e il Trattato non andrebbero dunque modificati, ma interpretati in modo pragmatico, senza allentare la pressione per il risanamento nel medio periodo.
La terza scuola, infine, ritiene che le politiche dei due paesi non sono adeguate e che il Patto (e il Trattato) debba essere modificato per accentuare la forza delle regole, per ridurne la discrezionalità e renderlo più vincolante.

Sulla sostanza, noto che le posizioni dell’Ecofin e della Commissione Europea coincidono, sulla linea della seconda scuola di pensiero. Se così è, il Patto continuerà a vivere e ad essere applicato, indipendentemente dalle dispute legali.

* Le opinioni espresse riflettono solo quelle dell’autore.

Otto domande per il dopo-Patto

Cari amici,

il dibattito che si è svolto a più riprese su lavoce.info sul Patto di stabilità si è concluso con una contrapposizione tra “realisti” e “benpensanti” che non mi sembra molto produttiva.

Se vogliamo contribuire ad un dibattito razionale sull’argomento, mi sembra che le domande teoriche e pratiche cui sarebbe utile dare una risposta, siano le seguenti:

1. Esiste una relazione tra livelli dei tassi di interesse di mercato e entità dei disavanzi di bilancio?

2. La possibilità che lo stock di debito dei paesi dell’Unione aumenti, anziché ridursi, ha un effetto sui tassi?

3. Se la convergenza fiscale dei Paesi dell’Unione si arresta, o si inverte di segno, quali conseguenze si determinano sulla politica monetaria seguita dalla Bce ? C’è il rischio che essa debba diventare più restrittiva di quanto sarebbe altrimenti?

4. Poiché in virtù della struttura dell’economia tedesca e dei rapporti di cambio decisi tra marco ed euro al momento dell’introduzione della moneta unica, la Germania è il paese più danneggiato dai livelli attuali dei tassi di interesse europei, non sarebbe stato più razionale e conveniente per quel paese richiedere più “sane” politiche di bilancio da parte di tutti i paesi dell’Unione? La scelta di far saltare il patto non rischia di diventare autolesionista?

5. Siamo sicuri che la via per una ripresa in Europa passi oggi per uno stimolo fiscale,quando a parità (o quasi) di disavanzi gli Stati Uniti crescono e l’Europa ristagna?

6. Il problema risiede nel Patto di stabilità o, come hanno sottolineato Daniel Gros  e Luigi Spaventa, nelle regole del Trattato? È credibile ipotizzare una modifica del Trattato? Sarebbe opportuno?

7. Se si adottasse una regola di golden rule (che la maggioranza dei lettori de lavoce.info ritiene preferibile), siamo certi che le spese per investimenti (infrastrutture) abbiano sempre maggior impatto espansivo e maggiore capacità di aumentare la crescita strutturale rispetto a spese correnti per educazione, ricerca, ecc.?

8. Nel caso di adozione della golden rule, l’entità di disavanzi di bilancio diventerebbe improvvisamente irrilevante, o si dovrebbe comunque fare i conti con limiti o tetti impliciti o espliciti (per esempio in relazione alla possibile crescita del debito pubblico)?

Con la golden rule non si correrebbe il rischio di azzerare i surplus primari e quindi di aumentare le spese correnti, come sottolineato recentemente da Riccardo Faini e Giampaolo Galli?

Si tratta, come è evidente di domande retoriche, che tuttavia possono contribuire a chiarire le difficoltà poste dalla contraddizione esistente tra la spinta dei governi e dei parlamenti ad avere più margini di manovra a breve termine, e la necessità di una sana gestione della finanza pubblica a medio termine in presenza di una moneta unica. È evidente che il Patto di stabilità non è una soluzione ideale, ma la situazione che si è creata dopo la decisione dell’Ecofin appare piuttosto pericolosa, soprattutto dopo il fallimento della Conferenza intergovernativa. Ed è difficile credere che una soluzione razionale possa non richiedere un maggior coordinamento tra le politiche e i paesi.

 

Il Patto e la crescita

Innocenzo Cipolletta
2 Dicembre 2003

Era ormai risaputo che il Patto di stabilità e di sviluppo fra i paesi dell’euro fosse destinato a cadere. Dispiace vedere quali sono state le modalità con cui esso è stato fatto esplodere, così come incerti restano gli esiti sulla futura capacità operativa dell’ Unione europea, dopo questa manovra quasi eversiva. Tuttavia sono pochi quelli che ritengono sia utile ripristinarlo così come era. Tanto più che nella sostanza è stato rispettato da ben pochi paesi, mentre la maggioranza ha fatto ricorso a stratagemmi e sotterfugi per rispettarlo formalmente e disattenderlo sostanzialmente.

Un rispetto solo formale

La sua definitiva uscita di scena rischia di disilludere quanti hanno creduto, in buona o in cattiva fede, che il Patto fosse il principale responsabile della scarsa crescita europea. Non accadrà naturalmente per coloro che scambieranno la prossima ripresa economica trainata dagli Usa, come il risultato dell’abbandono delle regole del Patto di stabilità nell’area dell’euro. Ma la crescita dell’Europa non potrà essere accelerata da una maggiore spesa pubblica, perché essa non ha reagito fin qui al pur importante aumento dei disavanzi pubblici.
Tra il 2001 e il 2003, Francia e Germania hanno accresciuto il loro disavanzo pubblico fino a superare il 4 per cento del Pil nel 2003, senza che ciò significasse una ripresa delle loro economie. L’Italia ha portato il disavanzo pubblico dal 2,6 per cento del Pil nel 2001 al 3,9 per cento nel 2002, fino al 4 per cento nel 2003, se si escludono le misure di carattere straordinario adottate, per un ammontare pari a quasi 40 miliardi di euro nei due anni (e vanno aggiunti oltre 13 miliardi di euro di misure straordinarie prospettate per il 2004).

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Questi provvedimenti straordinari sono serviti all’Italia per rispettare formalmente gli impegni del Patto di stabilità. Infatti, il disavanzo pubblico italiano è stato sempre inferiore al 3 per cento del Pil sia nel 2002 (2,3 per cento), sia nel 2003 (2,5 per cento), sia nelle previsioni per il 2004 (2,2 per cento).
Tuttavia, le misure straordinarie non hanno inciso sulla capacità di spesa interna né sul prelievo permanente, poiché si è trattato di cessioni patrimoniali, di cartolarizzazioni, di condoni vari, che hanno pescato più sul risparmio che sulla domanda di consumo delle famiglie o su quella di investimento delle imprese. In definitiva, il bilancio pubblico italiano ha giocato tra il 2001 e il 2003 una funzione espansiva, come giustamente reclamavano i nemici del Patto di stabilità, ma la crescita economica è stata pressoché nulla (0,3 per cento l’anno). Certo, nessuno può escludere che con incrementi del disavanzo pubblico ancora più massicci, non si sarebbe realizzata anche in Italia una maggiore crescita del Pil. In altre esperienze cicliche, però, era bastato molto meno per far crescere il nostro paese.

Perché l’Italia non cresce

Perché l’Italia non cresce? La debolezza della nostra economia deriva da un eccesso di specializzazione alle esportazioni in settori maturi e da una dinamica lenta della domanda. In queste condizioni, la ripresa italiana ha poco a che fare con la spesa pubblica, la cui crescita rischia di attivare piuttosto importazioni o di generare inflazione per le strozzature dell’offerta interna. Questa condizione di eccesso di dipendenza dalle esportazioni appare essere comune anche al Giappone e agli altri paesi dell’Europa continentale, che in questo momento stanno conoscendo una stagnazione produttiva.
Infatti, le aziende di questi paesi, per difendere le loro quote di mercato, sono costrette a delocalizzare molte produzioni e a inglobare nei propri prodotti molte parti costruite in paesi dai costi più competitivi: ciò che riduce l’effetto della crescita della domanda mondiale sulla produzione nazionale.
Queste tendenze sono irreversibili e sarebbe dannoso contrastarle con dazi e con limiti alle quote di importazione, perché si finirebbe solo per creare rendite e per abbassare la qualità e la competitività delle nostre produzioni. Testimoniano la crescita di molti mercati dei paesi in via di sviluppo che domani assorbiranno una maggiore quantità di beni e servizi.

Ai paesi europei, che devono sopravvivere finché si svilupperà questa nuova domanda mondiale, non resta che puntare un po’ di più sulla domanda interna, favorendo la riduzione delle barriere tra Stati e costruendo realmente il mercato interno. Poiché la domanda interna è soprattutto domanda di servizi moderni (che a loro volta utilizzano beni manufatti ad alta tecnologia), appare urgente la liberalizzazione di molte attività di servizio (trasporti, professioni, istruzione, ricerca, cura delle persone, ecc.) e la costruzione delle infrastrutture relative (ferrovie, strade, porti, aeroporti, centri di ricerca, metropolitane, e così via).
Se il superamento del Parola del Patto di stabilità servirà a liberare alcune risorse per queste infrastrutture e servizi, allora potrà contribuire alla crescita dell’economia. Se invece verrà utilizzato per un rigonfiamento della spesa pubblica o per una riduzione dell’imposizione senza altra qualificazione, temo che saremo molto delusi e rimpiangeremo il vecchio Patto di stabilità.

Tre domande nel dopo-Ecofin

Riccardo Faini
4 dicembre 2003

Sono tre le domande da porsi all’indomani della débacle dell’Ecofin.

Serve un Patto che disciplini le politiche fiscali dei paesi aderenti all’Unione monetaria?

La risposta è sì, senza ombra di dubbio. Soprattutto in un’area economicamente integrata, la politica fiscale di un paese ha numerose esternalità, molte delle quali di segno negativo, su tutta l’unione. Un’espansione fiscale o un incremento del debito in un paese aumenta i tassi a medio e lungo termine per tutta l’area. Anche i tassi a breve crescono se la banca centrale interpreta l’aumento di spesa o la riduzione di imposte come un allentamento non transitorio della disciplina fiscale. La possibilità poi che i paesi dell’area possano essere costretti a soccorrere un governo prossimo alla bancarotta rafforza ulteriormente l’esigenza di un patto che vincoli la politica fiscale dei vari paesi.

Il Patto va riformato?

La risposta è nuovamente positiva. Il Patto di stabilità ha molti difetti. Alcuni sono già stati corretti, ma i critici più accesi non sembrano essersene accorti. Altri avrebbero potuto essere già corretti se non fosse stato per la miopia dell’Ecofin che non ha neppure preso in considerazione le proposte, assai articolate, della Commissione e del rapporto Sapir. Non è vero innanzitutto che il Patto non tenga conto degli andamenti ciclici dell’economia: è da ben più di un anno che tutti gli obiettivi, così come tutte le richieste di aggiustamento da parte della Commissione, sono formulati in termini di saldi aggiustati per il ciclo.
L’unica eccezione è il tetto del 3 per cento, ma non è parte del Patto, bensì del Trattato, e quindi, come ricorda
Daniel Gros, molto più complesso da modificare. Anche così, è vero, rimangono molti difetti. È probabilmente vero che, così come è formulato, il Patto scoraggia le riforme o non dà peso sufficiente al criterio del debito. Ma non dimentichiamoci che proprio sul tavolo dell’Ecofin giacciono inevase le proposte della Commissione, bocciate dal massimalismo dei piccoli paesi (decisi a non concedere sconti a quelli grandi) e dalla miopia di paesi come l’Italia che temevano di essere penalizzati da nuovi criteri che ponevano l’accento sul debito e non solo sul disavanzo.

Cosa succederà se il Patto viene svuotato?

I ministri europei hanno assai poco tempo per riformare il Patto secondo le proposte della Commissione. Se non lo faranno, se prevarranno ripicche e veti incrociati, verrà a cadere un vincolo, la sanzione dei propri pari, alla disciplina fiscale nei singoli paesi. Rimarrebbe la sanzione di mercato, che tanta efficacia ebbe nell’indurre il nostro Governo ad attuare nel 1992 il primo vero programma di risanamento fiscale. E oggi? L’apprezzamento dell’euro all’indomani del disastro dell’Ecofin sembrerebbe indicare che anche la sanzione di mercato è più debole. Ma non è così. L’apprezzamento dell’euro è del tutto consistente con l’aspettativa da parte dei mercati di un rialzo del tassi di interesse indotto a sua volta da un allentamento della disciplina fiscale. Ed è questa la vera e più grave punizione dei mercati: l’aumento dei tassi di interesse. Lo è soprattutto per i paesi più indebitati che oggi si compiacciono di spreads ancora contenuti (ma cosa succederebbe il giorno in cui Standard and Poor’s retrocedesse il nostro paese?), ignari del fatto che a reagire a un allentamento della politica fiscale europea è il livello, ben più dei differenziali, dei tassi di interesse.
Il consenso per gli Stati Uniti è che un aumento del disavanzo di un punto di Pil aumenti i tassi di 60/70 punti base. Le stime per l’Europa si attestano su valori molto simili. Per l’Italia un aumento generalizzato a tutta l’Europa del disavanzo porterebbe quindi, anche a parità di differenziali, a un aumento della spesa per interessi pari perlomeno a 7 decimi di punto del Pil vanificando con un tratto di penna tutti i benefici in termini di bilancio della riforma pensionistica. Come reagirebbero i pensionati alla notizia che i tagli delle pensioni, sicuramente inevitabili, servono a finanziare un aumento della spesa per interessi indotta dal lassismo dell’Ecofin? E, soprattutto, non dovrebbe essere proprio il nostro Governo il primo a difendere, nei fatti e non solo a parole, il Patto di stabilità?

Oltre il Patto

Francesco Giavazzi
4 dicembre 2003

A tutti i benpensanti che sembrano aver solo certezze quando, su lavoce.info e sui giornali, criticano con toni sprezzanti la decisione dei ministri finanziari dell’Unione europea, che ha di fatto cancellato il Patto di Stabilità, vorrei chiedere di prendere in considerazione due fatti.

Le ragioni della Francia

Nella riunione notturna della scorsa settimana al ministro dell’Economia francese, Francis Mer, fu proposto di salvare la lettera del Patto trasferendo fuori bilancio spese per un ammontare pari a mezzo punto del Pil: l’ufficio statistico del Lussemburgo avrebbe chiuso un occhio, come d’altronde fa sempre più spesso. Mer rifiutò la proposta con tre argomenti: la Francia ritiene che una politica fiscale prociclica sia sbagliata; la riforma previdenziale che Parigi ha varato durante l’estate vale, di qui a dieci anni, alcuni punti di Pil ed è quindi più significativa, per la sostenibilità della finanza pubblica, di una correzionale marginale al deficit dell’anno in corso; la Francia infine non ritiene che ricorrere a qualche trucco contabile (come essa stessa ha più volte fatto in passato) sia un modo per accrescere la credibilità delle istituzioni europee.
Immagino che qualora Mer avesse accettato l’offerta notturna, i benpensanti avrebbero brontolato, ma alla fine avrebbero scritto che l’importante era salvare il Patto.

Martedì sera, conclusa la riunione dell’Ecofin, è stato chiesto a Standard&Poor’s, l’agenzia internazionale di rating: ora che cosa deciderete in merito all’eventuale downgrading dei titoli pubblici italiani? “Ciò che è accaduto all’Ecofin per noi è pressoché irrilevante.Seguiremo attentamente l’iter della riforma previdenziale proposta dal Governo: se questa non andasse in porto dovremo rivedere il nostro giudizio sui titoli italiani”. È necessario andare oltre Oceano per ascoltare qualche giudizio saggio.

Come uscire dal guaio

Il guaio che la Commissione ha combinato rifiutandosi per mesi di rivedere regole che il suo stesso presidente in un momento di sincerità definì “stupide”, è molto serio.
Prima della decisione dell’Ecofin il Patto era migliorabile, perché le regole non erano mai state violate e quindi erano credibili. Ora, come ha scritto Daniel Gros su lavoce.info, nessuna regola è più credibile: quindi pensare di migliorare il Patto è tempo perso. Peccato, perché anch’io penso che l’Unione monetaria avrebbe bisogno di qualche regola fiscale, e c’erano molte idee intelligenti su come migliorare il Patto. Ora l’euro dovrà convivere con politiche fiscali sostanzialmente prive di altri vincoli che non siano quelli (deboli) che offrono il mercato e le agenzie di rating.

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Anziché inveire contro l’Ecofin, i benpensanti dovrebbero riflettere su come sia possibile rimediare al guaio combinato dalla Commissione.
Secondo me, ci sono due strade possibili. La Commissione potrebbe modificare la proposta che ha sottoposto alla Conferenza intergovernativa, che sostanzialmente si limita a chiedere un rafforzamento dei suoi poteri senza specificare di quali regole fiscali imporrebbe il rispetto (assumo che la Commissione concordi sulla necessità di migliorare il Patto).
Basterebbe introdurre nella nuova Costituzione europea una regola identica al Code of Fiscal Responsibility inglese, sottraendo le proposte della Commissione all’approvazione dell’Ecofin. Temo che essendo andata allo scontro, e avendo perduto, la Commissione non riuscirà ad accrescere i propri poteri, neppure se questo servisse per far rispettare regole intelligenti.

L’alternativa consiste nello spostare l’attenzione dalle regole alla trasparenza. Credo vi sarebbe unanime consenso su procedure che accrescano il potere di Bruxelles nell’imporre trasparenza ai bilanci pubblici, ad esempio facendo fare un salto di qualità alle “missioni” dei funzionari della DgecFin presso gli Stati membri, rendendole più simili a quelle del Fondo monetario, e dando un po’ più di mordente agli uffici statistici del Lussemburgo.

Il paradosso della scorsa settimana è che l’Italia, l’unico paese che davvero rappresenta un potenziale pericolo per l’Unione monetaria, per il livello del debito, ha superato l’esame. Ma il suo debito cresce e il bilancio rispetta i limiti del Patto solo grazie a manovre non ripetibili e che comunque aumentano la pressione fiscale.

Il Patto è morto, viva il Trattato

Daniel Gros
2 dicembre2003

Dopo la decisione dell’Ecofin del 25 novembre di “sospendere” la procedura per deficit eccessivo contro Francia e Germania, si è discusso molto della necessità di riformare il Patto di stabilità.
Molti commentatori, soprattutto anglosassoni, hanno da tempo sollevato dubbi sulla regola che impone agli stati membri di tendere al pareggio di bilancio nel corso del ciclo. Tuttavia, questa regola non ha avuto finora alcuna rilevanza. L’infelice decisione dell’Ecofin del 25 novembre ha riguardato esclusivamente l’applicazione dell’articolo 104 (8) e (9) del Trattato di Maastricht e nessuna riforma del Patto avrebbe potuto cambiare la situazione.

Il Patto e il Trattato

Sottolineare la differenza tra Patto di stabilità e Trattato non è ozioso, ha invece importanti implicazioni legali e politiche.
Se Francia e Germania vogliono evitare di trovarsi di nuovo in questa situazione (in futuro), dovranno escogitare una modifica del Trattato, che dovrà essere ratificata da tutti i parlamenti degli stati membri (probabilmente tutti e venticinque). Si potrebbe ritenere che l’introduzione di una tale modifica non sarebbe difficile dato che un processo di revisione del Trattato è già in atto. Ma la bozza di trattato costituzionale elaborata dalla Convenzione ha lasciato inalterate tutte le regole economiche del Trattato di Maastricht, e all’interno della Convenzione nessuno ha mai sostenuto che il divieto di deficit eccessivo previsto dal Trattato dovesse essere rivisto.
Se Francia e Germania (ed eventualmente altri alleati) decidessero di cambiare ora le regole economiche del Trattato, ciò complicherebbe talmente l’andamento della conferenza intergovernativa da rendere impossibile il raggiungimento di un accordo prima dell’allargamento. Inoltre, paesi come la Spagna esigerebbero certamente un alto prezzo per il loro assenso a qualsiasi tentativo di indebolire la procedura per deficit eccessivo.
Questo significa che la animata discussione sulla necessità di riformare il Patto che probabilmente avrà luogo nel prossimo mese, prescinderà del tutto dal vero problema.

La vera questione

Il punto chiave della decisione dell’Ecofin del 25 novembre è che essa ha ” sospeso per il momento la procedura per deficit eccessivo nei confronti della Germania”.
Che cosa si intende con “per il momento”? Tra circa sei mesi la Germania dovrà presentare il suo adeguamento semestrale al Programma di stabilità. Così, già all’inizio del 2004, ci ritroveremo daccapo nella stessa situazione perché a quel punto “Il Consiglio sarà pronto a prendere una decisione in accordo con l’articolo 104 (9), sulla base delle raccomandazioni della Commissione, se la Germania non dovesse procedere secondo gli impegni stabiliti in queste conclusioni (…)”.
Gli impegni presi dalla Germania sono così legalmente vincolanti e prevedono una riduzione del deficit corretto per il ciclo dello 0,6 per cento del Pil nel 2004 e di un ulteriore 0,5 per cento del Pil nel 2005.
Non è un impegno oneroso, ma finora la Germania non ha mantenuto nessuna promessa (per esempio, nel 2002 e 2003 ha più volte promesso che avrebbe evitato un deficit eccessivo). Nessun cambiamento per quanto rapido del Patto di stabilità muterà la situazione di inizio 2004. Se la Germania non manterrà neanche questo impegno, la Commissione dovrà ripresentare la proposta di sanzioni che non ha raggiunto la maggioranza qualificata nel novembre 2003.

Il problema centrale, che non è destinato a scomparire, è infatti questo: vogliamo mantenere il divieto di deficit eccessivo previsto dal Trattato?
Se la risposta è sì, ne consegue che un meccanismo come il Patto di stabilità è necessario per assicurarsi che il Trattato sia rispettato. Qualunque cosa si pensi delle sanzioni previste dal Patto di stabilità, è chiaro che la semplice pressione da parte degli altri paesi non funziona.
Se invece la risposta è no, il Patto di stabilità può essere stracciato. Ma in questo caso, è necessario essere onesti e stracciare anche tutte le relative regole del Trattato.

Non c’è euro senza Patto

Tommaso Monacelli
4 dicembre 2003

L’aspetto più preoccupante dei recenti venti di crisi sul Patto di Stabilità (successivi all’ultimo vertice Ecofin) è che al centro del dibattito non sembrano esservi proposte alternative di riforma del Patto, quanto piuttosto una tendenza a considerarlo oramai vicino al pensionamento. Non è superfluo ricordare che il Patto esiste per il semplice motivo che l’euro esiste.
Leggiamo dal
Bollettino di novembre della Bce <http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/bce/mb>: “Gli andamenti della finanza pubblica e il Patto di Stabilità e crescita si trovano ora in un momento critico in cui la credibilità dei fondamenti istituzionali dell’Uem deve essere salvaguardata. (…) Tale àncora non deve essere messa in discussione”. Vale a dire: senza un qualche sistema di coordinamento (sufficientemente chiaro e semplice) delle politiche fiscali è difficile pensare all’esistenza stessa della moneta unica.

Perché serve il coordinamento fiscale

Perché il coordinamento fiscale è una precondizione per la stabilità monetaria in una unione valutaria? Ci sono almeno due ordini di ragioni.
La prima ragione è che fra economie integrate sul piano degli scambi commerciali esistono interdipendenze. Ogni singolo paese può farsi prendere dalla tentazione di usare troppo la spesa pubblica per apprezzare a proprio favore le ragioni di scambio (il prezzo relativo delle importazioni di un paese rispetto al prezzo dei beni prodotti ed esportati), consumando così di più senza dover produrre proporzionalmente di più. Ma in una unione monetaria le ragioni di scambio non possono più aggiustarsi velocemente attraverso il cambio nominale, e perciò il peso di queste strategie si scarica eccessivamente sul tasso di inflazione.

La seconda ragione che giustifica un certo grado di coordinamento delle politiche fiscali è nel cosiddetto free riding sui tassi di interesse. In sostanza, se un paese anticipa che i costi della propria irresponsabilità fiscale in termini di più alti tassi di interesse saranno sostenuti congiuntamente da tutti i paesi dell’Unione, sarà tentato di spendere di più di quello che avrebbe fatto se avesse mantenuto la propria autorità monetaria indipendente. Ma questo comportamento, quando adottato da ciascuno dei paesi membri dell’Unione, si traduce in più alti tassi di interesse e maggiore inflazione, cioè in una sostanziale incapacità della comune Banca centrale di governare autonomamente la stabilità monetaria.

Bastano regole semplici

Esistono quindi ottime ragioni per ritenere il coordinamento fiscale un prerequisito fondamentale per l’esistenza e stabilità stessa della moneta unica. La buona notizia che viene dalla teoria economica è però la seguente. Per attuare concretamente tale coordinamento non bisogna pensare a sistemi complicati di regole, difficilmente comprensibili e poco credibili. Quello che conta per la stabilità monetaria e dei prezzi è un impegno esplicito (e soprattutto credibile) da parte di ciascun paese a gestire nel medio-lungo periodo la propria politica fiscale in modo da mantenere il livello di indebitamento pubblico entro certi limiti predefiniti. Molto chiaro, e neanche troppo difficile da mettere in pratica.

Stabilito questo, ne segue che il Patto ha il grande pregio della semplicità (e quindi della facilità di attuazione). Alla luce di quanto suggerito dalla teoria economica, pecca forse di un eccesso di severità. Stabilire semplicemente tetti massimi ai livelli del debito pubblico potrebbe essere un modo di salvaguardarne lo spirito di compatibilità con la stabilità dei prezzi, lasciando allo stesso tempo più flessibilità nella gestione ciclica del disavanzo primario.

Le preoccupazioni di Bce

Il Patto di Stabilità hic et nunc non è quindi l’unico modo di implementare concretamente il coordinamento fiscale. Ma le ragioni del dibattito post-Ecofin dovrebbero concentrarsi esclusivamente sulle ipotesi alternative di riforma e non mettere in discussione l’esistenza e la filosofia stessa del Patto. E le stesse proposte di riforma dovrebbero essere altrettanto chiare, semplici e credibili.

In qualità di responsabile della stabilità aggregata dei prezzi è quindi legittimo che la Banca centrale europea esprima preoccupazione per le prospettive incerte del Patto. Non è un caso che abbia infatti già fatto balenare la possibilità di una stretta sui tassi. Compito della Banca centrale dovrebbe essere quello di coadiuvare maggiormente la Commissione nel trasferire questo semplice ma fondamentale messaggio: il Patto di Stabilità è un architrave della stessa costruzione monetaria. Alterarne la credibilità significa assumersi la responsabilità di mettere in discussione il futuro stesso della moneta unica.

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Leggi anche:  Il Patto che non c'è*

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Buon Natale Cavaliere

  1. Luigi Cavallaro

    Se avesse ragione Vincenzo Visco a definire «retoriche» le sue otto domande, se cioè fosse vero che per ciascuna di esse si dà una e una sola risposta, non si potrebbe concludere diversamente da come egli suggerisce: data la relazione diretta fra livello dei tassi d’interesse di mercato ed entità dei disavanzi del bilancio pubblico, se la convergenza fiscale dei Paesi aderenti all’Unione si arresta e ciascuno di essi si dà alla finanza allegra, la politica monetaria della Bce diventerà più restrittiva; per di più, non è detto che allo stimolo fiscale faccia seguito la crescita, visto che a parità (o quasi) di deficit l’economia americana decolla e quella europea ristagna. Meglio sarebbe, perciò, lasciar stare riforme come l’introduzione della golden rule: intanto perché non sempre maggiori spese per investimenti inducono una crescita strutturale del Pil, in secondo luogo perché potrebbe diffondersi la perniciosa idea che non si debbano introdurre tetti espliciti o impliciti all’espansione del bilancio e giungersi così ad azzerare i surplus primari prima e ad aumentare le spese correnti poi.
    In realtà, non è certo che le domande di Visco siano soltanto retoriche. Innanzi tutto, la relazione fra livello dei tassi d’interesse e disavanzi di bilancio da lui postulata esiste (e dunque esiste la possibilità che l’aumento dello stock di debito dell’Unione si traduca in un aumento dei tassi d’interesse) se si pratica una politica fiscale espansiva in presenza di vincoli alla crescita dell’offerta di moneta. Rimossi quei vincoli, la relazione ovviamente cade.
    Allo stesso modo, l’arresto della convergenza fiscale fra i membri dell’Unione (cioè della convergenza al ribasso del deficit e dello stock di debito) può implicare una politica monetaria più restrittiva solo in presenza di una banca centrale (com’è disgraziatamente la Bce) che ha inscritto nel proprio statuto l’obbligo di perseguire la stabilità dei prezzi anche a costo di creare recessione e disoccupazione. Dotando la banca di altri obiettivi, il pericolo sarebbe scongiurato. Lo conferma proprio il caso statunitense, dove la ripresa è frutto di una politica fiscale drasticamente espansiva e di una politica monetaria più che accomodante, che testimonia di quanto la Fed abbia abbandonato le rigidità suggeritele dai monetaristi ortodossi.
    Quanto poi all’obiezione secondo cui le spese per investimenti non hanno lo stesso impatto espansivo di quelle correnti per educazione, ricerca e welfare, non si potrebbe essere più d’accordo. Ma ciò – contrariamente a quanto Visco lascia intendere – non significa che l’adozione di una golden rule sia inutile: significa soltanto che dovrebbe decidersi a livello europeo che cosa è «investimento pubblico», ricordandosi che per lo Stato non vale il vincolo del profitto e dunque la redditività di una sua iniziativa va misurata in termini reali e non monetari. Per dirla con un esempio, cos’altro è l’aumento della vita media della popolazione se non il rendimento reale dei massicci investimenti in salute che l’Europa fece nei trenta gloriosi keynesiani? Ed è così difficile capire che il miglior investimento che una società che invecchia può fare è quello di assicurare ai propri anziani un’esistenza diversa e migliore di quella che – taglia qua, taglia là – gli stiamo apprestando?
    Considerazioni del genere, ovviamente, sono possibili a condizione di aver chiaro un fatto tanto incontestato nella letteratura economica quanto ignorato a livello politico: e cioè che non esiste alcun livello di debito pubblico che non sia «sostenibile», purché sia dia un’adeguata crescita (che, ricordo, di solito è inversamente correlata al livello dei tassi d’interesse).
    Messa così la questione, hanno certo ragione quanti sostengono che il problema non è (solo) il Patto di stabilità ma, più in generale, l’architettura del Trattato di Maastricht. Ma si sbaglia a non considerare che la credibilità di una sua qualunque modifica non è esclusa in partenza, dipendendo in larga misura (se non completamente) dalla possibilità di inventare meccanismi istituzionali che tengano a bada l’inflazione senza per ciò stesso condannare la politica economica all’impotenza delle (e ai guasti provocati dalle) supply-side policies. Basterebbe una rapida occhiata all’Economia politica del lavoro di Ezio Tarantelli (1986) per convincersi che, al riguardo, non siamo all’anno zero.

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