Non è l’introduzione di elementi di precarietà nella carriera dei docenti il punto critico del progetto di riforma dello stato giuridico. Piuttosto, la proposta non incide sul vero problema: come dare spazio ai ricercatori e ai professori più bravi. Non indica infatti regole o incentivi per indurre i dipartimenti e le facoltà a produrre buona ricerca e buona didattica. Così si rischia di perpetuare l’attuale situazione di mediocrità. Con i fondi forse scarsi, ma sicuramente mal spesi.

Il progetto di riforma dello stato giuridico dei docenti universitari ha suscitato aspre critiche da parte del Cun, della Conferenza dei rettori, dei sindacati universitari e di diversi gruppi di docenti (ad esempio, l’appello comparso su La Repubblica del 20 gennaio).

Ci sono molti buoni motivi per dissentire dalla riforma, ma le critiche avanzate finora sono sbagliate.

Il “precariato” nell’università

Il punto più criticato è l’introduzione di elementi di precarietà nella carriera dei docenti universitari:
(1) Viene abolito il ruolo dei ricercatori, sostituito da contratti quinquennali di insegnamento e ricerca, rinnovabili una sola volta,.
(2) I concorsi per la seconda e prima fascia dei professori danno un’idoneità. Le università chiamano con contratti triennali, rinnovabili una sola volta. Alla fine del primo o del secondo contratto, superata una verifica scientifica e didattica, gli idonei diventano professori di ruolo.
Già ora, dopo tre anni dalla vittoria di un concorso, i professori vengono sottoposti a un esame di conferma, con una commissione nazionale. Chi si indigna per la “precarizzazione” introdotta con i contratti ammette, e approva implicitamente, il fatto che l’attuale verifica sia ridotta a pura formalità.
Sul primo punto, non tutti sanno che l’età media dei ricercatori è 50,6 anni, e il 25 per cento ha superato i 56. Per una massa di accademici in età avanzata, delusi dalla mancata promozione e scarsamente impegnati nella ricerca, il ruolo del ricercatore si è dunque trasformato in una posizione a vita di semi-docenza (senza obbligo di insegnamento).
Con la riforma, uno studioso di 27-29 anni che ha appena conseguito un dottorato, avrà un contratto quinquennale. Se lavora bene potrà partecipare a un concorso per l’idoneità da associato già durante il primo quinquennio. In ogni caso, ha a disposizione dieci anni per vincerne uno.
E chi ha vinto un concorso di prima o di seconda fascia, perché dovrebbe soffrire del fatto di non essere subito di ruolo? Non dovrà fare altro che procedere nella ricerca che già stava sviluppando.Se incontrasse una fase di particolare difficoltà, aspetterà altri tre anni. Dov’è lo scandalo?
Non c’è niente di male nell’idea che dall’università si possa anche uscire. Che una carriera possa essere interrotta per insufficiente capacità, è normale in tutte le università dei paesi avanzati.

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Come scegliere i migliori

Ma la riforma riuscirà a realizzare quello che sembra il suo obiettivo di fondo? Ovvero stimolare la ricerca e la didattica nell’università rendendo più severo il controllo sulla carriera dei docenti? A noi sembra di no.
La legge sfiora appena il problema centrale. L’esplosione della dimensione delle università a partire dagli anni Settanta, è avvenuta in assenza di un sistema di regole e incentivi, che costringessero, o almeno incoraggiassero, le facoltà a dare spazio ai migliori.
Il costume accademico della vecchia università di élite, basato sull’idea che le differenze tra studiosi sono di punto di vista, mai di valore (idea che viene sempre opposta a ogni proposta di valutazione del lavoro di ricerca) insieme a sciagurate misure di democratizzazione arrivate sull’onda del ’68, hanno portato al sopravvento della parte mediocre del corpo docente.

Tutta la legislazione e l’azione concreta di governo dell’ultimo trentennio hanno favorito questo processo con misure spesso equivalenti a immissioni in ruolo ope legis.
La nuova legge lascia intatto il problema:
Non stabilisce infatti incentivi per le facoltà e i dipartimenti a produrre buona ricerca e acquisire buoni docenti.
Attualmente, il finanziamento ordinario viene distribuito quasi esclusivamente su base storica. Solo una frazione della quota di riequilibrio viene assegnata sulla base della ricerca e della didattica. Almeno in teoria, perché in pratica, ciò non accade per mancanza di dati. (1)

Le procedure di assegnazione dei fondi di ricerca del Miur sono un po’ migliorate. Manca completamente, però, un meccanismo per l’assegnazione diretta di fondi ai dipartimenti, come accade ad esempio nel Regno Unito, per incoraggiare la concentrazione di studiosi di valore nella medesima sede.
D’altra parte, acquisire studiosi e docenti bravi non è facile.
Tutto è uguale: stipendi, ore di lezione, accesso ai servizi. Anche senza toccare gli stipendi, si potrebbe distribuire la didattica in modo inversamente proporzionale alla produzione scientifica, l’insegnamento nel dottorato potrebbe essere sostitutivo di quello ordinario e i congedi per ricerca potrebbero seguire lo stesso criterio. Ma se nulla del genere avviene, i migliori se ne vanno all’estero, oppure tendono a scegliere le sedi più comode.

La questione dei concorsi

Tutti pensano che la situazione attuale dei concorsi sia la peggiore a memoria d’uomo, con commissioni ibride locali-nazionali e con il turpe commercio legato alla seconda idoneità.
La legge ripropone concorsi nazionali, ma non va fino in fondo.
In primo luogo, i “ricercatori-contrattisti” vanno pagati decentemente. E i concorsi vanno riformati in modo da lasciare ai dipartimenti ampia autonomia. La soluzione sensata è quindi una commissione nazionale che stabilisca solo un requisito minimo di qualità e attesti le idoneità senza limiti di numero, lasciando i dipartimenti liberi di fare la loro politica mediante la scelta dalla lista degli idonei. La punizione per chi sceglie professori mediocri è affidata ai meccanismi di incentivo descritti sopra.
L’assenza di un’idea-guida per indurre i dipartimenti a una buona politica di assunzioni produce una regola concorsuale che giustappone confusamente diversi criteri.
L’abolizione del tempo parziale si presta invece a due interpretazioni. Una benevola, secondo la quale i professori ora a tempo parziale saranno costretti a una scelta: o dentro, a stipendio pieno, ma con l’obbligo di svolgere 350 ore complessive di attività didattica e organizzativa, 120 delle quali di lezione, oppure fuori.
L’altra interpretazione è più malevola. Si tratterebbe solo di un regalo ai professori a tempo definito, i quali prenderanno lo stipendio pieno e faranno più o meno quello che facevano prima. Chiunque abbia esperienza della serietà con cui vengono effettuati controlli sulle attività dei docenti, propenderà per la seconda.

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Pochi fondi. E sperperati

Il ministro dovrebbe pensare solo ad aumentare i fondi per l’università e la ricerca: tra i sostenitori di questa tesi vi sono i rettori. Eppure negli ultimi anni hanno assistito impassibili alla promozione in massa dei docenti, in virtù dell’abolizione dei concorsi nazionali. I fondi mancano anche perché quelli disponibili vengono sperperati.
Del resto, l’idea che l’università italiana sia sottofinanziata ha certamente elementi di verità, ma è anche un luogo comune. Secondo lo studio di Roberto Perotti, in Italia la spesa per il personale docente delle università è superiore a quella del Regno Unito.
Senza regole o incentivi efficaci per indurre dipartimenti e facoltà a produrre buona ricerca e buona didattica, qualunque riforma sarà facilmente aggirata: le facoltà sono piene di docenti che hanno fatto dei concorsi e della politica accademica un vero e proprio mestiere.

 

(1) Si veda Perotti, R. “The Italian University System: Rules vs. Incentives”, 2002, European University Institute, pp. 24 e 31

 

 

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