Un sistema di incentivi finanziari è senz’altro necessario, ma non può essere sufficiente per contrastare le logiche autoreferenziali del sistema universitario italiano. La catena del potere e della responsabilità non può più far capo solo ai docenti, ma deve rappresentare l’intera società che intorno all’ateneo si muove. In Italia molti temono una nomina puramente politica dei vertici universitari, ma dalle esperienze straniere si possono ricavare esempi molto interessanti ed efficaci, che potrebbero servirci di ispirazione.

Poco più di un decennio fa, l’Italia ha compiuto la scelta strategica di avviare una progressiva acquisizione di autonomia da parte degli atenei pubblici. I motivi della scelta restano tuttora validi: promuovere l’efficienza e la qualità del sistema universitario, permettendo una gestione più flessibile e vicina ai problemi da risolvere e stimolando la competizione tra gli atenei.

Tuttavia l’autonomia universitaria è oggi in discussione su vari fronti. Sul piano del reclutamento dei docenti, ad esempio, il Governo ha appena approvato un disegno di legge che prevede il ritorno ai concorsi centralizzati nazionali. Progetti ministeriali di riaccentrare il controllo della spesa sono affiorati brevemente per poi scomparire, almeno per il momento, sotto l’onda delle proteste. Autorevoli opinionisti sono andati all’attacco dell’intero sistema universitario italiano, denunciandone i malfunzionamenti e il cattivo utilizzo delle risorse e sostenendone la totale irriformabilità.

Valutazione e incentivi: necessari, ma non sufficienti

Molti ritengono che la fonte di tutti i problemi sia l’insufficiente attività di valutazione con conseguente distribuzione di incentivi/disincentivi finanziari da parte dello Stato (si veda ad esempio Roberto Perotti). Ma, come sostenuto recentemente anche da Giliberto Capano, valutazione e incentivazione, pur necessarie, non possono bastare a contrastare le logiche autoreferenziali che oggi distorcono le politiche autonome degli atenei.

I motivi sono vari: la difficoltà di valutare in modo ragionevolmente oggettivo e condiviso la qualità di didattica e ricerca; la lentezza dell’evoluzione qualitativa di un ateneo, legata soprattutto al ricambio dei docenti, che rende debole la relazione di causa-effetto tra le decisioni di oggi e l’esito della valutazione di domani; la sostanziale impraticabilità politica di applicare disincentivi finanziari così forti da dissuadere il perseguimento di interessi impropri negli attuali meccanismi decisionali interni agli atenei.

Una riforma della governance

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Nel quadro dell’autonomia, i problemi dell’università italiana possono invece essere affrontati efficacemente solo riformando profondamente la governance di ateneo, in modo da creare una “catena” di potere e responsabilità che non faccia più capo ai soli docenti, come avviene adesso, ma rappresenti invece al meglio gli interessi dell’intera società che l’ateneo deve servire.
Al vertice della catena va messo un consiglio d’amministrazione i cui membri devono essere in maggioranza di nomina esterna all’ateneo. Avrà il potere di definire le politiche generali e approvare il bilancio dell’ateneo.
Sempre il cda sceglierà il rettore, massimo vertice esecutivo, e quest’ultimo nominerà i presidi di facoltà, i direttori di dipartimento, eccetera. Il senato accademico verrebbe ancora eletto in prevalenza dai docenti come oggi, ma disporrebbe di potere decisionale finale solo in un ambito puramente didattico-scientifico.
A questa conclusione sono progressivamente arrivati già altri paesi europei che hanno intrapreso come noi la strada dell’autonomia. Ad esempio, una riforma della governance di ateneo di questo tipo è stata approvata in Svezia nel 1993, in Olanda nel 1997, in Austria nel 2001 e in Danimarca nel 2003.

Chi sceglie il vertice?

Ma a chi affidare la nomina dei membri del cda? Una proposta naturale è la nomina politica (ministeriale o regionale), in quanto solo la politica generale può rappresentare gli interessi dell’intera società.
Avviene oggi in altri paesi (ad esempio Svezia e Olanda) senza particolari problemi. Ma in Italia molti temono che una nomina puramente politica possa indurre una eccessiva politicizzazione dei vertici accademici, che invece dovrebbero essere scelti esclusivamente per la loro qualità tecnica, accademica o manageriale.
Esistono tuttavia all’estero alcuni esempi alternativi di governance universitaria che potrebbero servire da ispirazione per l’Italia.

Tre possibili modelli

Il primo modello è preso da alcune università inglesi (ad esempio, l’Imperial College di Londra).
Si definisce innanzitutto un organo collegiale ampio (la “Court”), con rappresentanti dei poteri politici nazionali e locali, nonché dei docenti, degli studenti e del personale non docente dell’ateneo, più rappresentanti di tutte le istituzioni scientifiche del paese, le accademie, le società e gli ordini professionali, il mondo industriale, altre università vicine, scuole superiori, e così via. Tale organo rappresentativo di tutti gli “stakeholders” dell’ateneo elegge poi al suo interno, tra coloro che non sono dipendenti dell’ateneo, alcuni membri del cda (il “Council”). Che viene poi completato da rappresentanti dei docenti e da altri membri esterni cooptati.
Il secondo è il modello austriaco, adottato nel 2001. Metà dei componenti del cda (l'”Universitätsrat”) sono nominati dal ministro e l’altra metà dal senato accademico, cioè dai docenti. I membri così nominati, poi, di comune accordo devono nominare un ultimo membro, per “sparigliare” la composizione. Va aggiunto che in questo modello tutti i membri del cda, inclusi quelli nominati dal senato accademico, sono “esterni”, ossia non possono essere docenti né altri dipendenti dell’ateneo.
Il terzo è un modello ripreso dalla University of California, il più prestigioso sistema statunitense di università pubbliche. In questo caso, la maggioranza del cda (il “Board of Regents”) è nominata dall’autorità politica (il governatore della California, con ratifica parlamentare), ma su indicazione di una commissione ad hoc composta da rappresentanti delle autorità politiche, dei membri già in carica del cda, dei docenti, degli studenti e delle associazioni di laureati dell’ateneo. Questo meccanismo funziona bene soprattutto se ogni commissione ha il mandato di selezionare un solo membro del cda: in questo modo ogni persona scelta è effettivamente rappresentativa di tutte o quasi le parti interessate e non il risultato di una spartizione consensuale di posti. Così, i criteri di qualità e di valore tecnico prevalgono su quelli di appartenenza politica o corporativa. In California, le nomine sono scaglionate nel tempo e il cda si rinnova in modo graduale, un solo membro alla volta. Inoltre, i suoi membri non percepiscono alcun compenso, e hanno mandati lunghi (dodici anni), per garantire l’indipendenza da pressioni esterne e per meglio seguire la lenta evoluzione dell’ateneo.

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