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Cani da guardia per decreto

Anche la Consob ha qualche responsabilità nella vicenda Parmalat. Più in generale, interpreta in forma troppo notarile l’attività di vigilanza sulle società quotate e sui revisori. Al di là dei limiti imposti finora dalle norme, restano decisamente insufficienti i controlli che precedono la quotazione delle imprese, addirittura inferiori a quelli svolti nelle transazioni tra privati. Perché possa trasformarsi in un temibile ufficio ispettivo non basta una legge, serve piuttosto un radicale cambio di mentalità.La proposta di istituire una SuperConsob contiene almeno un rischio: che si creda veramente di trasformare una pesante e lenta burocrazia come la Consob in un temibile ufficio ispettivo.
Ha ragione il ministero dell’Economia: in un paese normale l’allarme devono darlo le autorità di vigilanza. E poiché nello scandalo Parmalat le irregolarità sono di una società quotata (sorvegliata dalla Consob), non possiamo che rilevare come chi dovesse vigilare sulla Borsa e su chi sollecita il risparmio privato, non lo abbia fatto in modo sufficiente.

È evidente che una valutazione complessiva sull’attività della Consob su un arco trentennale richiederebbe ben più che un paio di paginette. Sarebbe una valutazione inevitabilmente complessa, con luci e ombre.
Qui mi limito a sottolineare come la Consob, che magari ha operato bene sullo sviluppo del mercato di Borsa, ha spesso scelto un profilo troppo basso nell’attività di vigilanza, una di quelle cui è delegata.
È la funzione più importante? Non so, ma non è marginale.

Il controllo delegato a Consob riguarda diversi soggetti, in particolare le “emittenti” (le società quotate), i revisori, gli intermediari finanziari. Esistono due tipi di controlli, quelli ex-ante (al momento dell’ingresso sul mercato, in particolare la quotazione delle società) e quelli ex-post, tramite ispezioni sui soggetti che operano.
Su entrambi abbiamo problemi, in parte dovuti al funzionamento della Borsa, in parte alla normativa esistente, ma in parte anche a Consob. Facciamo alcuni esempi.

Controlli ex-ante: la quotazione di società

Quando un’impresa viene venduta a un investitore privato, chi compra paga gli avvocati per effettuare un’accurata ricognizione di tutti i documenti della società venditrice, e segnalare ogni possibile problema (si chiama “due diligence”, la dovuta diligenza nell’accertare la situazione dell’impresa che si vuole acquistare).

Quando un’impresa viene venduta sul mercato azionario, invece, né la Borsa italiana (che fissa i requisiti per la quotazione) né la Consob fanno nulla di tutto questo. È l’impresa che si quota a pagare consulenti e avvocati per imbellettarsi, e convincere le autorità che tutto è a posto. (1)

Gli avvocati presentano alla Consob il prospetto, che sarà pubblicato per gli investitori, e l’elenco dei documenti sui quali il prospetto si basa. Nell’impresa c’è qualcosa che non va? Basta dire che il prospetto è compilato su un certo elenco di documenti, ed escludere da tale elenco le carte che potrebbero rivelare “grane”. Gli avvocati sono a posto: se una cosa non dichiarano di saperla, dimostrare che non si siano comportati correttamente è arduo.

Sarebbe interessante sapere quante volte la Consob si è spinta oltre commenti solo formali sul prospetto (è troppo lungo, o troppo corto; questo passaggio è poco chiaro; e cose del genere). E quali cambiamenti siano stati apportati (purtroppo le versioni preliminari del prospetto non sono pubbliche, e ci si deve accontentare di “voci”, non tutte rassicuranti).
Il fatto stesso che il prezzo di quotazione venga determinato senza che il prospetto dichiari quali ipotesi si facciano sui futuri flussi di cassa è indicativo.

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Cosa succede nel resto del mondo? Anche altrove le autorità di controllo si affidano molto alla Borsa locale, ma in un contesto un po’ diverso. Mi pare che in Italia un maggiore controllo di Consob sarebbe forse auspicabile, quanto meno per i seguenti motivi:

– la Borsa italiana ha come prima esigenza far crescere il numero di società quotate: quali incentivi ha a effettuare una severa selezione delle imprese?

– mentre altri mercati che devono analizzare molte richieste di quotazione all’anno, possono avere team di analisti specializzati per settore, la Borsa italiana non li ha, e quindi la sua valutazione sulle società quotande è fatalmente più difficoltosa;

– in mercati più sviluppati, il collocamento avviene tramite investitori istituzionali, che svolgono un ruolo di controllo e una attività di due diligence che in Italia non sono effettuate da nessuno;

– le possibilità di controllo (ex-post) in Italia sono state da sempre più limitate (al di là delle critiche alla Consob, i confini imposti dalla normativa sono purtroppo risaputi.Vedremo cosa salterà fuori dalla riforma). Quindi una maggiore attenzione ex-ante sarebbe necessaria.

È forse il caso di ricordare che la sentenza della Cassazione civile n. 3132 del 3 marzo 2001 sancisce come la Consob sia responsabile della affidabilità delle informazioni diffuse sul mercato.
Per la verità, non sono sicuro che insistere sulla responsabilità civile della Consob rappresenti “la soluzione”, ma una maggiore attenzione sarebbe di gran lunga preferibile. Se non si vogliono dilatare i tempi della quotazione, forse sarebbe sufficiente verificare dopo la quotazione che le informazioni fornite all’atto dell’Ipo siano veritiere e complete.

Controlli ex-post: Parmalat e dintorni

Il presidente della Consob, Lamberto Cardia, si è lamentato, sostenendo che se la Consob avesse avuto la centrale dei rischi (banca dati in possesso della Banca d’Italia) avrebbe potuto intervenire sulla Parmalat.
Come ha messo in luce Giovanni Ferri su lavoce.info, questo nel caso Parmalat non è vero. Sia perché il grosso dei debiti Parmalat erano sull’estero, e quindi non sono in questa banca dati, sia perché la Consob, se avesse veramente voluto far qualcosa, doveva semplicemente chiedere quei dati alla Banca d’Italia. E la Banca (se anche avesse voluto) non avrebbe potuto negarli.
Ma la cosa curiosa è che la Consob non ha mai chiesto alla Banca d’Italia questi dati, né per Parmalat, né per altri casi. Perché? Forse sarebbero serviti a poco, ma resta piuttosto forte la sensazione che la Consob, come “vigilante”, abbia preferito un ruolo notarile. D’altronde, se il motto della Sec (l’equivalente americano) è “the investor’s advocate”, da noi è tuttora diffusa la dottrina secondo cui la Consob debba essere super partes (e non, invece, proteggere soprattutto gli investitori).

Nell’affaire Parmalat si mescolano le responsabilità di tanti, da questa parte come dall’altra dell’oceano, all’interno dell’impresa e fuori. Vi sono stati falsi (di cui forse solo a posteriori ci si poteva accorgere), ma è vero che una serie di osservatori da tempo sapevano che Parmalat non era in buona salute e che da sempre non dava informazioni chiare ed esaurienti.
Come denunciò Marco Vitale sul Corriere della Sera, è dal 1989 che alcuni investitori si lamentano della scarsa chiarezza delle comunicazioni societarie della Parmalat. Nel 1994, un articolo di Malagutti su “Il Mondo” denunciava il gioco delle tre carte della società: le obbligazioni Parmalat erano oggetto di scambi poco chiari, alla fine dei quali i quattrini sembravano moltiplicarsi come i pani e i pesci di evangelica memoria.
I bilanci Parmalat erano così “puliti” da non giustificare proprio alcuna reazione? Il presidente Cardia ha puntualmente elencato al Parlamento ciò che la Consob ha fatto. Sono interventi effettuati quando proprio non se ne poteva fare a meno, e quando ormai era tardi. Forse intervenire prima non avrebbe risolto il problema, ma almeno ora si potrebbe dire che qualcuno stava provando a suonare un campanello d’allarme.
Non è poi escluso che se la Consob avesse condotto ispezioni presso i revisori, qualcosa sarebbe saltato fuori per tempo. Ma purtroppo la vigilanza sui revisori è occasionale, e avviene solo su segnalazione di presunte irregolarità. Ovvero, si rischia di intervenire quando i buoi sono scappati. A quanto pare, infatti, la Consob ha un piano di vigilanza sistematico solo per gli intermediari, non per revisori e società quotate. E infatti esiste un ispettorato per gli intermediari (ventotto persone su un totale di quattrocento dipendenti), non per gli altri soggetti.

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Ma allora serve rafforzare la Consob? Certo, le servono più poteri e più risorse, non negli uffici amministrativi, ma in quelli operativi. Soprattutto serve cambiare mentalità. Magari, se a tempo debito, i dirigenti Consob avessero alzato la voce con quelli della Parmalat …

Per saperne di più

Per una valutazione dei primi venti anni di attività della Consob, si rinvia a G. Nardozzi e G. Vaciago (a cura di) “La riforma della Consob nella prospettiva del mercato mobiliare europeo”, Il Mulino, 1994.

F. Vella, Gli assetti organizzativi del sistema dei controlli tra mercati globali e ordinamenti nazionali, in “Banca, impresa, società”, 2001, p. 351.

G. Visentini e A. Bernardo (2001) La responsabilità della Consob per negligenza nell’esercizio dell’attività di vigilanza, Documento del Ceradi, Luiss, Roma, scaricabile da http://www.archivioceradi.luiss.it/documenti/archivioceradi/impresa/banca/Consob_Bernardo.pdf

 

(1) Si ripresenta qui lo stesso problema di conflitto di interessi evidenziato da Luigi Guiso per i revisori dei conti: chi controlla le carte non è il controllore, ma qualcuno scelto e pagato dal controllato…

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Sommario 12 Febbraio 2004

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  1. Anonimo

    Assumiamo la buona fede, e che esistano dei banchieri e degli avvocati onesti. Allora la differenza tra una vendita tra “privati” ed una al “pubblico” risiede essenzialmente nelle garanzie. Nel caso di vendita a dei soggetti ben identificati la due diligence, svolta dal compratore, serve a limitare le garanzie (in inglese representations and warranties) che il venditore concede al compratore. Nel caso di offerta al pubblico non c’e’ nessun limite alle garanzie, la società e’ responsabile per il 100% delle informazioni contenute nel prospetto di quotazione. Cio’ significa che, se dopo la quotazione, ad esempio il patrimonio netto non era quello dichiarato il risparmiatore ha diritto di rivalersi nei confronti della società. Simmetricamente nel caso di informazioni non incluse nel prospetto, la società emittente risponde di fronte a tutti i suoi nuovi azionisti. Nel caso di omissioni anche le banche collocatrici possono trovarsi coinvolte se si dimostra che avrebbero, con normale due diligence, potuto accorgersi del problema. E’ anche per questo che in un processo di quotazione gli studi legali sono almeno due, uno che consiglia la società e l’altro che supporta le banche. Queste ultime si trovano nella classica posizione dell’intermediario venditore sottoposto a tutti gli incentivi tipici di chi per vendere desidera presentare bene la sua “merce” ma presta attenzione a non deludere e/o perdere la propria clientela, se vende prodotti cattivi o gioca sporco. In realtà se la società, gli avvocati ed i banchieri dichiarano di non sapere una cosa che sanno o falsificano i dati, sono disonesti e basta, e lo sarebbero con qualunque meccanismo regolamentare. E’ una pia illusione che i meccanismi (anche se disegnati dagli economisti) siano in
    grado di implementare l’onesta’. Vale la pena sottolineare che vi e’ un’intera sezione del prospetto informativo dedicata ai c.d. “risk factors” dove la società rappresenta i rischi del proprio business. Una rapida scorsa a questa sezione di alcuni prospetti recenti, vi indurrà a pensare che piu’ che un problema di “imbelletamento” siamo davanti ad un problema di semiotica. Il prospetto NON e’ un documento alla portata del risparmiatore medio, o meglio se lo leggesse ed fosse sano di mente non comprerebbe le azioni della maggior parte delle sfociata quotate. Questo si’, dovrebbe essere cambiato; obblighiamo allora chi si quota a produrre una versione dell’informativa accessibile a tutti i cittadini ed “insegnamo” a chi compra che leggerla e’ importante, ma questa e’ un’altra storia …

    Giovanni Canetta

    • La redazione

      Carissimo dr. Canetta
      e’ verissimo che non c’e’ meccanismo di incentivo che sia sufficiente. Il rischio che qualcuno decida di comportarsi in modo meno che onesto c’e’ e ci sara’ sempre.
      Pero’ osservo che viviamo in un paese ove i controlli ex post (l’enforcement della norma) sono deboli, dentro e fuori i mercati azionari. E mi riferisco all’enforcement sia da parte del sistema giudiziario, la cui lentezza e il cui formalismo sono leggendari, sia da parte del mercato, poiche’ i meccanismi di
      reputazione funzionano malissimo, per ragioni che sarebbe troppo complesso sviscerare in questa sede. Il fatto poi che la Consob sia tradizionalmente molto poco incisiva aggrava ulteriormente la situazione. E allora vorrei vedere dei controlli ex-ante piu’ stringenti, che invece mancano.
      La questione della leggibilita’ dei prospetti che solleva e’ molto importante, ma e’ anche una questione di contenuti. Anche perche’ vi sono alcune informazioni chiaramente verificabili a priori (il patrimonio netto), altre meno (le aspettative di sviluppo future, ad esempio). E allora sarebbe almeno altrettanto importante poter sapere su quali assunzioni si basa il prezzo che viene proposto al mercato. Credo sia evidente – in pratica – che il prezzo dipende in modo preponderante da quello che si ritiene siano disposti a pagare gli investitori.
      Ma qualcuno si prende la briga di dire agli investitori “stimiamo che il valore dell’impresa – e quindi delle azioni – sia proprio Y, quello che vi chiediamo di pagare perche’ crediamo che nel futuro i cash flow saranno questi…”? Se non si dichiarano queste cose, il timore che si stia cercando di far pagare Y sulla base di aspettative reddituali non plausibili e’ legittimo (e talvolta e’
      pure fondato).

      E’ troppo facile, a posteriori, giustificare una sopravalutazione di un’impresa sulla base di un andamento deludente dei mercati. Deludente rispetto a cosa? se si dichiarasse prima apertamente quali sono le ipotesi sulle quali si basa il
      prezzo richiesto, tutto sarebbe piu’ chiaro. Anche qui, e’ solo questione di trasparenza…
      Cordialissimi saluti

      Carlo Scarpa

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