Che cosa ha garantito finora il buon livello medio dell’insegnamento nella scuola italiana di primo grado? Non certo gli incentivi economici agli insegnanti. Piu’ influenza hanno avuto l’esame finale e soprattutto l’etica professionale di maestri e professori. Invece di rafforzare meccanismi di controllo reciproco allargando la responsabilita’ gestionale al team dei docenti, la riforma Moratti punta al rafforzamento del ruolo direttivo da parte di un singolo insegnante. Si accentua cosi’ la possibilità di comportamenti opportunistici. Anche il presidente del Consiglio italiano si è accorto che la scuola italiana attraversa una fase problematica. In una delle sue frequenti apparizioni televisive, questa volta in compagnia del ministro Letizia Moratti (Porta a porta, 10 marzo), ha dichiarato: “Sono padre di cinque figli, conosco i loro amici e so giudicare direttamente come va la scuola in Italia. I nostri studenti sono negli ultimi posti per come vengono insegnate parecchie materie” (riportato dal Sole-24Ore dell’11 marzo 2004). Ciò corrisponde solo parzialmente al vero. Un buon livello primario Dalle indagini internazionali sui livelli di apprendimento, in modo del tutto sommario, si può trarre l’impressione che i problemi della scuola italiana tendano a manifestarsi non tanto a livello primario, quanto piuttosto a livello secondario. E che la performance del sistema scolastico sia nel complesso relativamente omogenea, specialmente se confrontata con paesi (quali Stati Uniti) con sistemi scolastici che presentano una maggior variabilità nella qualità della formazione offerta. (1) Il risultato più interessante è che la miglior performance è associata all’esistenza di meccanismi di verifica comparativa tra scuole: primo fra tutti, la previsione di un esame finale, gestito centralmente e i cui risultati siano resi pubblici. Una questione di incentivi Questo insieme di misure può essere razionalizzato qualora si pensi al processo formativo nei termini di quelli che gli economisti classificano come problemi di “agenzia”. Se vogliamo applicare questo schema di analisi al caso della scuola italiana, concentrandoci in particolare sulla scuola elementare, viene da domandarsi che cosa possa avere assicurato fino a oggi un insieme di incentivi corretti, tali da permettere una performance formativa nella media. Sicuramente non si è trattato di incentivi di tipo economico, visto il basso livello medio delle retribuzioni combinato con l’appiattimento salariale e l’impossibilità da parte dei dirigenti di premiare i comportamenti virtuosi. Se costruissimo una graduatoria sulla base dei livelli retributivi, avremmo una media in area Ocse di 30.047 dollari, mentre per un insegnante elementare italiano con quindici anni di carriera la retribuzione media lorda sarebbe di 28.483 dollari (3), al quart’ultimo posto tra i paesi europei, davanti soltanto a svedesi, finlandesi, greci e islandesi. Analogamente, se guardiamo alla possibilità di crescita retributiva, il rapporto tra retribuzione al massimo della carriera e all’ingresso è pari a 1,65 nella media dei paesi, mentre in Italia si registra uno scarso 1,45. Esclusi gli incentivi economici, quali altri meccanismi di incentivazione possono allora aver operato? L’esistenza di un esame obbligatorio al termine del ciclo elementare, e ancor di più alla fine della scuola media, può aver assicurato un livello di didattica minimale che permettesse agli alunni di superare quelle stesse prove. Questo effetto sarebbe tanto più potente se gli esiti scolastici potessero essere comparabili tra scuole, e a essi venisse data pubblicità (al di là della pubblicazione negli albi scolastici dei risultati di fine anno). Un secondo meccanismo, a mio parere più potente, è stato assicurato (e continua a esserlo) dall’etica professionale, ovverosia dall’esigenza di mantenere una reputazione professionale adeguata nei confronti dei propri colleghi. Perché la riforma? La riforma varata dall’attuale ministro della Pubblica istruzione sembra andare nella direzione opposta. (1) L’indagine Pisa (Programmme for International Student Assessment) dell’Ocse del 2000 e l’indagine Pirls (Progress in Reading Literacy Survey) condotta dall’International Association for the Evaluation of Educational Achievement (Iea) nel 2001. (2) Si veda per esempio il lavoro di Ludger Woessman “Schooling resources, educational institutions and student performance: the international evidence” pubblicato in Oxford Bulletin of Economics and Statistics 65(2), 2003, 117-70. (3) Oecd 2003, Education at a glance, tab.D5.1 – dati riferiti al 2001, misurati in dollari a parità dei poteri d’acquisto.
È ovvio che la misurazione dei livelli di apprendimento è soggetta a una serie di cautele, perché dipende innanzitutto dal livello e dalla variabilità dei background familiari degli studenti partecipanti. Tuttavia, alcune ricerche di tipo comparativo (2) hanno cercato di mettere in luce quali siano le caratteristiche dei sistemi scolastici che a parità di background familiare tendono a favorire un miglior livello di apprendimento degli studenti.
Queste analisi sembrano suggerire che non sono tanto le risorse disponibili a determinare il differenziale di risultato, quanto la possibilità che il processo di apprendimento sia verificabile dall’esterno, attraverso un insieme di soluzioni istituzionali finalizzate a questo scopo: gestione centralizzata dei processi di verifica, ma autonomia locale nella gestione del personale; coinvolgimento dei genitori nei processi di valutazione; concorrenza significativa da parte del settore privato.
I genitori (che agiscono come committenti) delegano all’istituzione scolastica (che agisce come agente) il compito di formare i loro figli, senza poter essere in grado di sorvegliare direttamente il processo formativo. In questo tipo di situazioni, l’agente delegato può avere l’interesse a perseguire comportamenti di tipo opportunistico (per esempio il non esercizio del massimo impegno possibile) se l’insieme degli incentivi offerti non lo orientano in questa direzione.
L’applicazione dello schema al processo scolastico è resa più complessa dal fatto che la delega formativa è rivolta a una organizzazione, che ripresenta al suo interno lo stesso tipo di problematica: il dirigente scolastico, che rappresenta l’interfaccia a cui si rivolgono i genitori, fronteggia un analogo problema di monitoraggio degli esiti formativi nei confronti degli stessi insegnanti.
L’introduzione di un secondo insegnante nei regimi scolastici di tempo pieno nella scuola elementare ha rappresentato un deterrente dei comportamenti di tipo opportunistico (o persino di tipo vessatorio nei confronti degli alunni). Mentre un unico insegnante gode della più totale autonomia e incontrollabilità da parte dei suoi colleghi (per non parlare dei genitori), un team di insegnanti può innescare al proprio interno comportamenti di tipo virtuoso.
Dal punto di vista dei genitori, l’esistenza di un gruppo di insegnanti può rappresentare una forma implicita di assicurazione contro il rischio di incontrare insegnanti scadenti. Supponiamo per esempio vera la legge suggerita da Carlo M. Cipolla sull’esistenza di un fattore sigma, secondo cui in ogni contesto umano è presente una frazione più o meno costante di stupidi, diciamo per esempio il 10 per cento. Il calcolo probabilistico ci assicura che la probabilità che i nostri figli incontrino simultaneamente due insegnanti stupidi è pari a una su cento casi, e tale probabilità scende man mano che il team sia costituito da un numero crescente di insegnanti (pari a una su mille con tre insegnanti, e così via).
Invece di rafforzare meccanismi di controllo reciproco allargando la responsabilità gestionale al team degli insegnanti (siano essi i due titolari nel tempo pieno nella scuola elementare, o il collegio docenti nella sua interezza per la scuola media), la riforma punta al rafforzamento del ruolo direttivo da parte di un singolo insegnante (il cosiddetto insegnante di riferimento).
E questo è particolarmente incisivo nella scuola primaria, dove anche senza una riduzione dell’orario formale (come il ministro Moratti ha ripetutamente sottolineato), si prefigura un accentramento della responsabilità didattica sulla figura di un unico insegnante, cui si affiancano in posizione secondaria i docenti incaricati degli insegnamenti specialistici (lingua straniera, in primis).
Per il momento, non c’è chiarezza sui processi selettivi che porteranno alla individuazione degli insegnanti di riferimento, è perciò impossibile formulare previsioni sulle conseguenze di lungo periodo nei livelli di apprendimento.
È tuttavia evidente che questa redistribuzione delle responsabilità accentua la possibilità di comportamenti opportunistici perché indebolisce i meccanismi di controllo e verifica, sia da parte dei colleghi che da parte dei genitori, che oltretutto vengono esposti a un rischio maggiore di incorrere nel fattore sigma.
Sfuggono a chi scrive le ragioni reali che hanno spinto verso questa riorganizzazione, dagli aspetti dubbi sul piano pedagogico (vedi l’articolo di Elisabetta Nigris in questo numero), e che indebolisce gli incentivi alle performance didattiche di tipo virtuoso.
Se si tratta banalmente di ragioni di cassa (ridurre il numero degli insegnanti per ridurre la spesa e/o alzare il livello delle retribuzioni degli insegnanti che sopravvivono alla riorganizzazione), era forse meglio adottare meccanismi più trasparenti, piuttosto che andare a toccare una istituzione che, almeno a livello primario, produce delle performance formative del tutto soddisfacenti.
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