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L’Iraq di Berlusconi

Diverse forze politiche e molti commentatori hanno in questi giorni suggerito che Berlusconi, nel suo incontro con Bush, debba imporre a quest’ultimo una serie di condizioni, minacciando il ritiro delle nostre truppe dall’Iraq. Ma qual è il potere contrattuale del nostro primo ministro? Magdi Allam, Renato Mannheimer, Nicola Piepoli , Alex Stille e Salvatore Vassallo rispondono ad alcune nostre domande aiutandoci ad abbozzare una risposta a tale quesito fondamentale. Berlusconi potrebbe avere un interesse elettorale immediato a minacciare il ritiro delle truppe, ma quest’annuncio non modificherebbe più di un tanto la politica americana.  Pertanto è probabile che questo viaggio si risolva in un nulla di fatto.  Speriamo di essere smentiti perchè la situazione in Iraq diventa di giorno in giorno più intricata e non sembrano esserci le condizioni per una missione di pace.

L’Iraq di Berlusconi

Lavoce.info non si è occupata della vicenda irachena dati i suoi eminenti risvolti geopolitici e militari prima ancora che economici. Ma alla vigilia dell’incontro di Silvio Berlusconi con George W. Bush, tappa chiave nel nostro coinvolgimento nella guerra in Iraq, abbiamo voluto interpellare alcuni testimoni privilegiati e cercare di stabilire, a partire dalle loro risposte, quale sia il vero potere contrattuale del nostro premier al cospetto del presidente degli Stati Uniti.

Dalle loro risposte (che riproduciamo qui sotto) ci sembra di poter concludere che questo potere sia in realtà molto limitato. I sondaggisti Mannheimer e Piepoli sono concordi sul fatto che l’annuncio di un ritiro unilaterale delle truppe da parte italiana non danneggerebbe Berlusconi nelle prossime elezioni; chi ha già deciso di non votarlo, vi vedrebbe una resa, ma l’elettorato di centro-destra, in buona parte alieno al nostro intervento in Iraq, vi potrebbe viceversa vedere buone ragioni per confermare il proprio voto. Anche i partner di Governo, suggerisce il politologo Vassallo, ne sarebbero sollevati visto che la scelta iper-filoamericana del governo Berlusconi appartiene al premier soltanto. Dunque, sarebbe nell’interesse elettorale immediato di Berlusconi portare avanti una politica di ritiro delle truppe.

Tuttavia, i sondaggisti sono anche concordi sul fatto che un vero successo Berlusconi l’otterrebbe solo se questa minaccia convincesse il presidente Bush ad annunciare a sua volta un ritiro delle proprie truppe, oppure ottenesse almeno una modifica rilevante nell’atteggiamento statunitense in Iraq. Per esempio, il siluramento del principale responsabile (o percepito come tale da gran parte dell’opinione pubblica occidentale) di questa politica, il segretario della Difesa, Donald Rumsfeld. Ma Alex Stille, giornalista attento osservatore di politica statunitense, suggerisce che questo è impossibile.

Nonostante l’evidente perdita di consenso dell’amministrazione Bush sull’Iraq, licenziare Rumsfeld o cambiare politica in modo radicale, non aiuterebbe il presidente, ma verrebbe percepita sul piano interno come un’ammissione aperta che la politica estera dell’amministrazione è stata sbagliata fin dal principio. Un punto che Bush non può assolutamente concedere al proprio avversario elettorale di novembre, John Kerry. Per questo, anche un’eventuale minaccia di ritiro unilaterale da parte di Berlusconi, per quanto dannosa per il presidente americano, non  riuscirebbe a spingerlo a cambiare politica.

Ma questo significa che il potere di contrattazione del premier italiano è in realtà molto limitato. Inoltre, se la minaccia di Berlusconi non è tale da indurre una modifica nell’atteggiamento americano, c’è da chiedersi se al premier italiano converrebbe portarla avanti. I benefici elettorali immediati dell’annuncio potrebbero essere soverchiati nel più lungo periodo dal raffreddamento nei rapporti con la superpotenza americana.

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È dunque possibile che il viaggio del premier negli Usa si risolva in un nulla di fatto. Il problema, come ci ricorda Magdi Allam, è che nel frattempo la situazione in Iraq si sta ingarbugliando ulteriormente. La strategia terroristica è riuscita ormai a darsi una dimensione popolare sia sul piano insurrezionale sia su quello di guerra civile. Sarà difficile uscirne fuori.

 

La risposta di Renato Mannheimer e Nicola Piepoli

Quali sarebbero gli effetti sul voto alle europee dell’annuncio da parte di Berlusconi di un ritiro unilaterale delle nostre truppe dall’Iraq?

Renato Mannheimer: Mi sembra un’ipotesi del tutto irrealistica e quindi non è stata sin qui presa in considerazione nei sondaggi, almeno per quanto mi risulta. Comunque a mio giudizio non avrebbe effetti su coloro che hanno già deciso di votare per l’opposizione che riconoscerebbero in questa scelta solo una resa di Berlusconi. Tra gli elettori di Berlusconi c’è una quota considerevole di contrari alla presenza dei soldati italiani in Iraq. E, dato che Berlusconi ha bisogno di mobilitare i propri elettori, questo annuncio potrebbe servire a portare un maggior numero di suoi potenziali elettori alle urne. In sostanza vedo più benefici che costi in questa scelta. Che si tradurrebbe in un vero e proprio trionfo elettorale se poi Berlusconi riuscisse a spingere anche Bush a ritirare le sue truppe. Ma qui siamo ancora più lontani dalla realtà.

Nicola Piepoli: Una scelta di questo tipo non solo non avrebbe contraccolpi in negativo, ma addirittura Berlusconi ne potrebbe trarre un premio sul piano elettorale. Soprattutto se, in virtù di questa sua scelta, riuscisse a convincere anche Bush a ritirarsi.

La risposta di Salvatore Vassallo

Quali sarebbero gli effetti sulla tenuta della coalizione di Governo di un annuncio o di una minaccia da parte di Berlusconi di un ritiro unilaterale delle nostre truppe dall’Iraq?

Salvatore Vassallo: Nell’eventualità decidesse di ritirare il contingente italiano e prendere così, repentinamente, anche se con i dovuti accorgimenti diplomatici, le distanze dall’amministrazione Bush, Berlusconi non troverebbe di certo resistenze all’interno della coalizione di Governo. I contraccolpi interni potrebbero essere solo positivi, dato che l’intervento in Iraq rispondeva al filoamericanismo assoluto di Berlusconi (e solo suo) e alla deliberata intenzione di rompere il tradizionale “europeismo” della politica estera italiana, su cui sia Fini sia anche Bossi (sia pure con motivazioni del tutto diverse), sia ovviamente Follini si sarebbero altrimenti adagiati senza indugio. Sia Fini sia Bossi (assai meno i post-democristiani) si sono poi adeguati alla svolta filoamericana di Berlusconi e l’hanno fatta propria, ma se quest’ultimo dovesse tornare sui suoi passi, tanto più in una fase difficile come quella attuale, tutti suoi alleati non potrebbero che esserne sollevati. Al massimo potrebbe emergere qualche malumore se la nuova svolta fosse messa in mostra come una decisione solitaria del primo ministro. Ma in questo caso con tutta probabilità anche Fini, il più suscettibile sotto questo profilo, preferirebbe forse far finta di essere stato consultato e di aver avuto un ruolo nella scelta.

La risposta di Alex Stille

Quali sono stati i costi politici per Bush sul piano interno dell’annunciato ritiro della Spagna dall’Iraq? Quali sarebbero i contraccolpi elettorali di un eventuale licenziamento di Rumsfeld?

Alex Stille: La decisione della Spagna, a questo punto, è solo l’ultimo di una lunga serie di eventi che, goccia dopo goccia, sta erodendo la credibilità di questa missione. Certamente la decisione di Zapatero non aiuta Bush. Ma è solo una goccia rispetto alla valanga di rivelazioni attorno gli abusi nelle carceri americane in Iraq. Bush cercherà in tutti i modi di evitare le dimissioni di Rumsfeld perché è contrario all’atteggiamento che caratterizza questa amministrazione: tenere duro, non cedere terreno, non ammettere errori e non mostrare alcun segno di debolezza. Dato questo atteggiamento, le dimissioni di Rumsfeld sarebbero un colpo durissimo per Bush. Sarebbe come ammettere che la politica su cui questa amministrazione si è ingaggiata e ha rischiato tutto è stata viziata da errori gravissimi.

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La risposta di Magdi Allam

Posto che dietro agli attentati e agli scontri in Iraq ci sono una molteplicità di fattori, quale di queste definizioni le sembra maggiormente in grado di riassumere ciò che sta accadendo in questo paese:
1. Siamo di fronte ad una serie di (presumibilmente coordinati) atti terroristici;
2. E’ in atto un’insurrezione popolare contro gli “invasori”;
3. Si tratta di una guerra civile per il controllo del paese tra diverse etnie e formazioni religiose.

Magdi Allam L’attentato suicida kamikaze che il 17 maggio 2004 ha posto fine alla vita del capo del Consiglio provvisorio iracheno, Ezzedine Salim, è emblematico dell’intrecciarsi della matrice terroristica con l’intento insurrezionale e la tacita resa dei conti tra le fazioni interne che lascia trasparire il rischio di una più estesa guerra civile. Salim era anzitutto uno sciita e in secondo luogo un leader del partito integralista islamico Al Daawa al Islamiya (Appello islamico). Ebbene è stato intenzionalmente liquidato nel contesto di una chiara strategia terroristica che, con le autobomba contro le sedi dell’Onu, della Croce Rossa, delle ambasciate straniere, delle moschee e delle caserme della polizia, mira a sabotare qualsiasi prospettiva di stabilizzazione, pacificazione e democratizzazione dell’Iraq. Colpendolo è stato punito il simbolo della collaborazione con gli Stati Uniti, additata a potenza neocoloniale oppressiva da forze di varie estrazione che, facendo leva sul risentimento popolare per il degrado della situazione interna, sono riuscite a attribuire una dimensione ampia a uno spirito insurrezionale. Infine, la rivendicazione dell’attentato, firmata dal Movimento per la resistenza araba, una sigla sunnita probabilmente legata a Al Qaeda o alla sedicente resistenza irachena, indicano che si è trattato di un nuovo attacco della minoranza confessionale sunnita che teme il predominio politico della maggioranza sciita dopo il ritiro delle forze straniere dall’Iraq. Alla radice della violenza in Iraq c’è quindi una inequivocabile strategia del terrore che è stata argomentata in due documenti strategici di Al Qaeda e della resistenza irachena nel dicembre 2003. Questa strategia è riuscita a far proseliti e a darsi una dimensione popolare sia sul piano insurrezionale sia su quello di guerra civile, parallelamente all’accentuarsi del fallimento della strategia americana di gestione del dopo Saddam.

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  1. Giuliano Regazzoni

    Il Governo Bush sta svolgendo un “ruolo primario” nella cosiddetta “vicenda irachena”. Ogni importante decisione, soprattutto di politica estera ma non solo, adottata da ogni Governo USA è sempre stata promossa e giustificata dal concetto di difesa strategica degli “interessi nazionali”, degli USA. (…) Anche il Governo Berlusconi, o nell’ipotesi più sotterranea, il Presidente del Consiglio Berlusconi ritengo adottino ogni importante decisione, soprattutto di politica estera ma non solo, sulla base del concetto di difesa strategica degli “interessi nazionali”, dell’Italia, con al vertice la sicurezza e l’economia. (…)
    L’inchiesta di lavoce.info riguarda il “vero potere contrattuale del nostro premier al cospetto del presidente degli Stati Uniti”.
    Avrebbe forse dovuto considerare prima l’identificazione degli interessi nazionali dell’Italia (l’interesse economico, o quale altro?) perseguiti dal Governo Berlusconi o, comunque, andrebbe completata con questi. I “risvolti geopolitici e militari” e, aggiungerei, etici ne sono le conseguenze.
    Cordiali saluti

    • La redazione

      Molti commentatori hanno in questi giorni discusso cosa il nostro Presidente del Consiglio avrebbe dovuto “chiedere a Bush”. Noi ci siamo posti un quesito a monte, vale a dire quale era il potere contrattuale di Berlusconi. La risposta che ci siamo dati è che ne avesse molto meno di quanto comunemente ritenuto. A riprova di tutto ciò il fatto che il suo viaggio sia passato pressochè inosservato negli Stati Uniti: nè il Washington Post, nè il NY Times hanno dedicato una sola riga all’avvenimento.
      Cordiali saluti

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