La valutazione del sistema scolastico è un tema caro all’attuale ministero dell’Istruzione. Eppure la legge di riforma mette in secondo piano il controllo esterno dei risultati raggiunti da studenti e scuole. Affida infatti agli insegnanti la verifica delle competenze, lasciando all’Invalsi solo quella sulle conoscenze. Il rischio è una sostanziale autoreferenzialità di docenti e istituti scolastici. Rilevare e misurare in modo oggettivo le competenze è complesso, ma è l’unica strada per affermare una cultura della valutazione seria e scientificamente fondata.

Una valutazione confusa

La valutazione del sistema scolastico è stato uno dei temi su cui il ministero dell’Istruzione ha cercato di caratterizzare il proprio intervento fin dal suo insediamento.
Non a caso, uno dei primi atti “politici” del ministro Letizia Moratti è stato quello di imporre le dimissioni dell’allora presidente dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione, motivando la decisione con la sua mancanza di “sintonia” con le linee politiche che il ministero intendeva seguire.
Sono passati tre anni ed è possibile esprimere un primo giudizio su queste scelte politiche e sui loro effetti.

Due livelli di valutazione

Nella legge 53/03 di riforma della scuola sono vari i riferimenti alla valutazione, sia del sistema scolastico, sia degli studenti.
Innanzitutto la legge prevede l’istituzione di un Servizio nazionale del sistema scolastico (articolo 1). A tutt’oggi, non è stato fornito alcun chiarimento sulle caratteristiche e i compiti di questo “servizio”, mentre il Governo ha approvato in via preliminare un decreto che ridefinisce i compiti dell’attuale Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione (Invalsi).

La legge di riforma gli attribuisce il compito di effettuare “verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze e le abilità degli studenti e sulla qualità complessiva dell’offerta formativa delle istituzioni scolastiche e formative” (articolo 3). Secondo lo stesso articolo competono all’Istituto anche predisposizione e gestione di parte delle prove per l’esame di Stato conclusivo dei cicli di istruzione.
La “valutazione, periodica e annuale, degli apprendimenti e del comportamento degli studenti del sistema educativo di istruzione e di formazione, e la certificazione delle competenze acquisite” sono affidate invece ai docenti, che sono anche responsabili della promozione o meno degli studenti alla fine di ciascun anno scolastico.
La riforma sembra identificare due livelli di valutazione degli studenti e del sistema: la valutazione interna, affidata agli insegnanti, e la valutazione esterna, affidata all’Invalsi.
Così, però, si introduce una distinzione che è destinata a creare notevoli ambiguità nel prossimo futuro. La valutazione esterna è limitata alla verifica di “conoscenze” e “abilità”, mentre agli insegnanti è demandata la verifica dell’acquisizione o meno da parte degli studenti delle “competenze”. Il rischio è di confinare in secondo piano la valutazione esterna, con un segnale inequivocabile di sfiducia nei suoi confronti.
Negli ultimi anni, la discussione internazionale sugli esiti formativi si è focalizzata sempre più sulle competenze che la scuola dovrebbe contribuire a costruire, anche nella prospettiva di un apprendimento che continua nel corso di tutta la vita (lifelong learning).
Se alla valutazione esterna è preclusa la possibilità di verificare queste competenze, a che scopo investirvi risorse (umane e finanziarie)? E come evitare una sostanziale autoreferenzialità degli insegnanti e delle scuole nel campo della verifica delle competenze? Rilevare e misurare le competenze è impresa complessa, come dimostrano le difficoltà che si manifestano nelle indagini internazionali (come ad esempio nel progetto Pisa dell’Ocse). Ma rinunciare a farlo e a investire in ricerca in questa direzione, non sembra una buona soluzione.

L’impressione è che si ritorni (alcuni pedagogisti che hanno ispirato il progetto di riforma lo hanno autorevolmente sostenuto) all’idea che soltanto “nel dialogo educativo” tra insegnante e alunno, possano effettivamente essere rilevati gli apprendimenti fondamentali. Non a caso sta ritornando in auge il termine “fanciullo“: anche queste scelte linguistiche sono sintomi del tipo di cultura che sta dietro l’attuale riforma della scuola.

I progetti pilota

Se a queste osservazioni, si aggiungono alcune riflessioni sui cosiddetti “progetti pilota” realizzati negli ultimi tre anni, il quadro si complica.
I “progetti pilota” si sono caratterizzati per la somministrazione di prove di comprensione della lettura, di matematica e di scienze a studenti di vari livelli scolastici.
Da un punto di vista metodologico hanno sollevato varie perplessità sia sulla validità delle prove sia sulla attendibilità dei risultati. (1)
Più in generale, non è per niente chiaro a che cosa servono queste rilevazioni, gli obiettivi che si prefiggono.
Non si tratta di rilevazioni di sistema perché si limitano a cogliere gli apprendimenti degli studenti in alcune materie, senza che questi dati siano interpretabili in relazione a variabili socioculturali e di contesto. Viene somministrato anche un questionario “di sistema” relativo al livello di sviluppo dei piani dell’offerta formativa, i cui risultati non vengono minimamente tenuti in considerazione nell’interpretazione del rendimento degli studenti (informazioni peraltro già raccolte dal ministero a scopo amministrativo, e dunque per le scuole è un inutile compito aggiuntivo).
Non si tratta di una valutazione dei livelli di apprendimento degli studenti in funzione di una certificazione esterna, perché non esistono standard comuni di riferimento. Per di più, le rilevazioni sono effettuate tra fine febbraio e fine marzo e non si sa se intendono riferirsi agli apprendimenti maturati nell’anno in corso o in quello precedente.
Non si tratta nemmeno di una valutazione delle scuole, che non può realizzarsi soltanto con la rilevazione di alcuni livelli di apprendimento degli studenti.

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Obiettivi poco chiari

Manca dunque chiarezza sugli obiettivi e su che cosa esattamente si voglia misurare, mentre non sono pochi i dubbi sulla validità degli strumenti utilizzati. Dal prossimo anno queste rilevazioni dovrebbero diventare obbligatorie e i risultati delle singole scuole dovrebbero essere resi pubblici per consentire alle famiglie di orientarsi nella scelta della scuola “migliore” per i propri figli.
I rischi che questo si risolva in una indebita “classificazione” delle scuole sono evidenti.
Insomma, da qualsiasi prospettiva si affronti il problema – valutazione degli studenti o valutazione del sistema scolastico –l’impostazione e le iniziative del ministero in fatto di valutazione appaiono ambigue, teoricamente confuse, potenzialmente rischiose. Tanto più in un paese come il nostro, in cui si fa fatica, per tradizione e per esperienza, ad affermare e diffondere una cultura della valutazione seria e scientificamente fondata.
Recentemente il ministro Moratti ha affermato che “ogni studente sarà valutato sulla base d’una metodologia nazionale fissata secondo i parametri dell’Ocse”. (2)
Ma le indagini Ocse misurano competenze, mentre la riforma attribuisce all’Istituto nazionale per la valutazione soltanto il compito di misurare conoscenze e abilità. Tra l’altro, in ambito ministeriale, il tipo di prove utilizzato dai progetti internazionali dell’Ocse è oggetto di critiche molto forti (spesso pretestuose). Ma tant’è. Non è la prima volta che il ministro cita le indagini internazionali commettendo errori. Delle due l’una: o ancora una volta il ministro è stato mal consigliato, oppure la mancanza di chiarezza (di competenza?) regna sovrana.

 

(1) Si veda in particolare l’articolo di Pietro Lucidano, pubblicato sul “Cadmo”, n. 2 del 2003.

(2) Forum pubblicato su “Repubblica” del 14 maggio.

 

I rischi scritti nel portfolio

La legge di riforma della scuola e il decreto di riordino dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione (Invalsi) introducono importanti novità nella valutazione degli studenti.

Torna il voto di condotta

Una prima osservazione riguarda la valutazione del “comportamento“: con la riforma si giustifica e si dà valore normativo alla reintroduzione del vecchio voto di condotta, con tutte le contraddizioni non sciolte che questo comporta
Per quanto riguarda l’esame di Stato, il decreto di riordino dell’Invalsi attribuisce a questo istituto il compito di elaborare e gestire la parte di prove comuni a tutti gli studenti. Ma spetta comunque al ministero la scelta delle prove, con un evidente commistione tra soggetto che valuta e responsabile politico, che non può che essere fonte di equivoci.

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Il portfolio

Lo stesso tipo di ambiguità si ritrova nelle “Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati delle attività educative”, di cui sono state finora rese note le versioni per la scuola dell’infanzia, per la scuola primaria e per la scuola secondaria di primo grado.
Oltre a una articolazione di quanto già specificato nel testo di riforma, in questi documenti si introduce l’uso del “portfolio delle competenze individuali”.
In che cosa consiste questo “nuovo” strumento di valutazione? Le Indicazioni precisano che il portfolio ha una duplice funzione, di valutazione e di orientamento. E di conseguenza si divide in due sezioni.
Le due dimensioni, secondo le Indicazioni, “si intrecciano in continuazione perché l’unica valutazione positiva per lo studente di qualsiasi età (sic) è quella che contribuisce a conoscere l’ampiezza e la profondità delle sue competenze e, attraverso questa conoscenza progressiva e sistematica, a fargli scoprire ed apprezzare sempre meglio le capacità potenziali personali, non pienamente mobilitate, ma indispensabili per avvalorare e decidere un proprio futuro progetto esistenziale. Anche per questa ragione la compilazione del Portfolio, oltre che il diretto coinvolgimento del fanciullo (sic), esige la reciproca collaborazione tra famiglia e scuola”.
È previsto che il portfolio contenga annotazioni di insegnanti, genitori e, se possibile, alunni. E che in esso vengano inseriti prove scolastiche ritenute significative, osservazioni di insegnanti e genitori sui metodi di apprendimento dello studente, commenti personali sui lavori effettuati, indicazioni sintetiche sullo studente, test attitudinali e di atteggiamento, questionari.
I criteri per la selezione dei materiali da inserire nel portfolio sono demandati alle singole istituzioni scolastiche, con l’obiettivo di costruire “un’occasione per migliorare e comparare le pratiche di insegnamento, per stimolare all’autovalutazione e alla conoscenza di sé in vista della costruzione di un personale progetto di vita e, infine, per corresponsabilizzare in maniera sempre più rilevante i genitori nei processi educativi”.
Il portfolio, così concepito (e chissà come costruito) accompagnerà lo studente lungo tutto il suo percorso scolastico.

Limiti e rischi

Sono evidenti i limiti e i rischi di questa impostazione.
Il primo limite è quello della mancanza di criteri univoci. Se il portfolio deve accompagnare gli studenti per tutto il loro percorso scolastico sono necessari criteri chiari e definiti, non è possibile demandare la certificazione delle competenze acquisite e le conseguenti scelte di indirizzo scolastico (e di vita) degli studenti a criteri di volta in volta individuati dalle singole scuole.
Il secondo è quello dell’ambiguità. Così come viene delineato, il portfolio è nello stesso tempo strumento di documentazione, di certificazione, di valutazione, di autovalutazione, di orientamento.
La partecipazione delle famiglie alla costruzione del portfolio, poi, da un lato è puramente demagogica, dall’altro sembra corrispondere all’esigenza di coinvolgerle in un’attività valutativa che dovrebbe essere esclusiva competenza e responsabilità della scuola.
Il sospetto che le si voglia rendere corresponsabili di scelte di orientamento precoce degli studenti è molto forte. Altrettanto forte è il dubbio che il portaolio finisca per essere uno strumento funzionale alla canalizzazione degli studenti, in funzione della divisione tra sistema di istruzione e sistema della formazione.
Anche il ruolo dell’insegnante tutor, che dovrebbe avere una funzione fondamentale nella costruzione di questo strumento, non è affatto chiaro. E tutte da impostare risultano le eventuali attività di formazione previste per gli insegnanti disponibili a esercitare questa funzione.

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