Mentre le 35 ore sembrano destinate alla poubelle , tre economisti francesi, Olivier Blanchard, Jean Pisani-Ferry e Charles Wyplosz, discutono di ore lavorate e produttività. Secondo Blanchard, non c’è ragione di essere troppo pessimisti guardando alla performance economica dell’Europa in rapporto agli Stati Uniti. Gli europei hanno preferito destinarne una parte all’aumento del tempo libero e non a quello del reddito. Per Wyplosz, invece, l’Europa è malata di conservatorismo sociale che le impedisce di sfruttare il proprio capitale umano. Pisani-Ferry contesta la tesi secondo cui la diminuzione del tempo dedicato al lavoro sia sempre una libera scelta dei cittadini europei.

Il tempo libero, una preferenza europea *

Il modello europeo, che ha ben funzionato nel Dopoguerra, sarebbe ormai obsoleto, almeno secondo alcune analisi. La tesi è che per una buona parte del Dopoguerra, la crescita europea sia stata “di recupero”, fondata principalmente sull’imitazione piuttosto che sull’innovazione.
Oggi che la crescita europea deve fondarsi sempre di più sull’innovazione, che le imprese non possono più isolarsi dalla concorrenza straniera, il modello europeo non funzionerebbe più e per questo l’avvenire sarebbe oscuro.

Scelte diverse

La mia valutazione è più ottimista. Le cose non vanno così male. Negli ultimi trenta anni, la crescita della produttività è stata più elevata in Europa che negli Stati Uniti e oggi i livelli di produttività sono simili. §La principale differenza sta nel fatto che l’Europa ha utilizzato una parte della crescita di produttività per aumentare il tempo libero piuttosto che potenziare il reddito, mentre gli Stati Uniti hanno fatto il contrario.
D’accordo, le cose sono lontano dall’essere perfette. La disoccupazione è elevata in molti paesi e l’Europa soffre di regolazioni eccessive e inefficaci, ma c’è molta azione che non è percepita.
In Europa è in corso un vasto e profondo movimento di riforma: è trascinato da riforme del mercato finanziario e del mercato dei beni, che spingono a loro volta verso una riforma del mercato del lavoro. Riforma, quest’ultima, che ci sarà, anche se non in tempi brevi e non senza tensioni politiche. E le tensioni occupano le prime pagine dei giornali e continueranno a farlo, ma sono un sintomo di cambiamento e non un riflesso d’immobilità.

Qualche fatto

Gli euroscettici citano spesso due fatti: Il prodotto interno lordo per abitante nell’Unione europea misurato in parte dal potere d’acquisto, cresce al 70 per cento del Pil per abitante negli Stati Uniti.
Questi fatti sono esatti e suggeriscono l’idea di un Europa ferma a un livello di vita sensibilmente inferiore a quello degli Stati Uniti e incapace di raggiungerlo. Quest’interpretazione è, tuttavia, sbagliata.
L’evoluzione comparata del Pil per abitante mostra che lo scarto tra l’Unione europea a 15 e gli Stati Uniti è rimasta pressappoco costante; lo scarto tra la Francia e gli Stati Uniti è leggermente aumentato.

La produttività del lavoro, misurata dal Pil in ore di lavoro, è aumentata molto più in fretta in Europa che negli Stati Uniti. La produttività europea è passata dal 65 per cento del livello americano nel 1970, al 90 per cento circa d’oggi. La produttività della Francia eccede quella degli Stati Uniti.
Le cifre mostrano tra l’altro che se il numero relativo d’ore di lavoro fosse rimasto lo stesso dall’una e dall’altra sponda dell’Atlantico, l’Unione europea avrebbe oggi circa lo stesso reddito per abitante degli Stati Uniti. La stabilità dello scarto deriva dalla diminuzione del numero di ore lavorate nell’Unione.

Negli Stati Uniti, tra il 1970 e il 2000, il Pil per ora è aumentato del 38 per cento. Le ore di lavoro pro capite sono anch’esse aumentate, del 26 per cento, cosicché il Pil per abitante è aumentato del 64 per cento. In Francia nello stesso periodo, il Pil per ora è aumentato dell’83 per cento, ma le ore di lavoro per abitante sono scese del 23 per cento, cosicché il Pil per abitante è aumentato del 60 per cento solamente. Sotto questo aspetto, la performance della Francia (e in generale dell’Unione europea) non è così terribile: un tasso di crescita della produttività ben più elevato che negli Stati Uniti, con l’allocazione di una parte di questo rialzo alla crescita del reddito e di un’altra alla crescita del tempo libero.
È questa una maniera troppo polemica di presentare i fatti? La produttività del lavoro è misurata correttamente? La diminuzione del numero di ore lavorate può essere veramente interpretata come una crescita del tempo libero? E cosa è rimasto del periodo recente, quando gli Stati Uniti sembravano avere accelerato rispetto all’Europa? Per rispondere a queste domande occorre un esame più preciso dei fatti.

La produttività

Le cifre della produttività appena presentate pongono almeno due problemi d’interpretazione.
In molti paesi europei, il tasso di disoccupazione è elevato, più elevato che negli Stati Uniti.
Una disoccupazione alta tocca in misura più che proporzionale i lavoratori poco qualificati. Inoltre, in un buon numero di paesi europei, il rapporto tra il salario minimo e il salario medio è più elevato che negli Stati Uniti, il che comporta, di nuovo, un’esclusione potenziale dall’impiego dei lavoratori poco qualificati. Poiché escludono dall’impiego i lavoratori a bassa produttività, i due fattori tendono a far crescere la misura della produttività del lavoro.
Ma nel comparare la produttività del lavoro tra i paesi, possiamo tentare di tenere conto di questo effetto.
Un modo per farlo, per esempio nel confronto tra Stati Uniti e Francia, è supporre che i salari riflettano la produttività, utilizzare le informazioni date per la distribuzione dei salari americani, completare la distribuzione dei salari francesi tra il salario minimo francese e il salario minimo americano (meno elevato), e infine calcolare l’aggiustamento alla produttività che ne risulta.

Lo studio McKinsey del 1997, uscito nel 2002, ha fatto un calcolo di questo genere comparando la produttività tra la Francia, la Germania e gli Stati Uniti. Il risultato è un aggiustamento del 6 per cento in meno della produttività del lavoro in Francia, che rende pressappoco identica la produttività di lavoro tra i due paesi.

La preferenza per il tempo libero

Si osserva, in Europa, una coincidenza tra diminuzione significativa delle ore lavorate e aumento della produttività. Si deve vedere in questo dato una preferenza degli agenti per il tempo libero rispetto al reddito? Oppure dobbiamo leggerlo come il risultato di distorsioni crescenti, per esempio l’elevata pressione fiscale sul reddito, l’aumento del salario minimo, o i programmi di prepensionamento?
Da un punto di vista contabile, la diminuzione del numero di ore lavorate per persona deriva dall’abbassamento del numero di ore lavorate per lavoratore piuttosto che dall’aumento della disoccupazione o dal calo del tasso di partecipazione.
Applicata per esempio alla Francia tra il 1970 e il 2000, questa formula indica che le ore lavorate per lavoratore sono scese del 23 per cento: da 1.962 ore per anno nel 1970 a 1.550 ore per anno nel 2000. Il tasso di disoccupazione è aumentato di sette punti, dal 2 per cento nel 1970 al 9 per cento nel 2000. Il tasso di partecipazione infine è aumentato del 7 per cento, da 0,42 nel 1970 a 0,45 nel 2000., E la Francia sembra rappresentativa di altri paesi in questa scomposizione.

La diminuzione del numero di ore lavorate per lavoratore è dovuta per lo più al calo del numero di ore lavorate dai lavoratori a tempo pieno, non alla crescita dei lavoratori a tempo parziale. In Francia, per esempio, i salariati a tempo pieno nel 1970 lavoravano in media 45,9 ore, nel 2000 ne lavoravano 39,5.
Dal 1999 la dimunizione è stata più pronunciata per le cosiddette “leggi sulle 35 ore” votate nel 1998 e nel 2000. Le ultime cifre disponibili indicano nel 2001 una settimana lavorativa media di 38,3 ore, con una diminuzione del 18 per cento dal 1970.

I fatti sembrano quindi suggerire che una buona parte della diminuzione del numero delle ore lavorate derivi da una diminuzione del numero di ore lavorate per lavoratore a tempo pieno.
Per sapere in quale misura la diminuzione del numero d’ore di lavoro sia da attribuire a una preferenza per il tempo libero o ai cambiamenti di tassazione, bisogna formulare delle ipotesi sulle preferenze degli individui e l’importanza implicita dell’effetto di sostituzione e dell’effetto di reddito.
Utilizzando come funzione di utilità un logaritmo del consumo e del tempo libero, Prescott (2003) ha sostenuto che i cali del numero di ore lavorate in Europa possono essere attribuiti all’innalzamento delle tasse. Tuttavia, le sue ipotesi su utilità e grande elasticità dell’offerta del lavoro si possono rifiutare.

Leggi anche:  Carriere nella pubblica amministrazione: tanta anzianità, poco merito*

Più importante ancora, la comparazione tra i paesi europei suggerisce una debole relazione tra diminuzione delle ore lavorate e aumento dell’imposizione fiscale.
L’Irlanda ne è un buon esempio. In quel paese il numero medio di ore lavorate per lavoratore è sceso da 2.140 nel 1970 a 1.670 nel 2000, cioè del 25 per cento. Le ore lavorate per lavoratore a tempo pieno sono diminuite secondo la media europea. Non si può certo dire che questa diminuzione si inserisce nel contesto di un mercato del lavoro immobile: l’Irlanda ha conosciuto, in questo periodo, una crescita esplosiva, un’immigrazione importante, un rialzo dei tassi di partecipazione mentre la disoccupazione è calata. Inoltre, il rialzo della imposizione fiscale media è stato debole: circa 3 per cento in più, contro l’8 per cento degli Stati Uniti.


*Questo intervento riprende un saggio per il Journal of Economic Perspectives

Contrappunto europeo *

Jean Pisani-Ferry

La ragione del ritardo europeo, afferma in sostanza Blanchard, è che noi preferiamo il tempo libero al reddito.
I suoi dati non sono contestabili: se tutti gli europei d’età attiva avessero la stessa produttività di quelli che tra loro sono impiegati e se lavorassero tanto quanto gli americani, il nostro reddito pro capite sarebbe appena al disopra del livello americano invece d’essere inferiore di un terzo (in Francia, sarebbe più elevato).
La discussione ci conduce, da una parte, all’interpretazione di questi numeri, dall’altra all’analisi delle tendenze recenti.

Una scelta cosciente?

Torniamo indietro di un decennio o di un ventennio. Gli Stati Uniti faticavano a cogliere i guadagni di produttività. Gi economisti s’interrogavano arcigni sul “paradosso di Solow”, secondo cui i computer si vedono dappertutto, salvo che nelle statistiche. L’Europa coniugava la ricerca a oltranza di guadagni di produttività con l’esclusione dal mercato del lavoro di un buon numero di lavoratori, a cominciare da quelli meno qualificati. Le economie europee apparivano capaci di risultati invidiabili in termini di produttività, ma inadatte a creare posti di lavoro.

Le comparazioni del livello di produttività del lavoro sulle quali si poggia Blanchard, portano le tracce di questo passato recente. Rinviano all’immagine d’imprese efficaci nell’ambito di società malate di sotto-impiego.

Tuttavia, la cartina di tornasole di un’economia non è la produttività di quelli che hanno conservato un impiego, ma la produttività dell’insieme di fattori di produzione in una situazione dove tutti quelli che sono esclusi dall’impiego fossero reintegrati.

Olivier Blanchard, che è accurato, opera una doppia correzione. Ottiene che la produttività del lavoro, così corretta, è in Francia al livello di quella degli Stati Uniti, invece di essere superiore del 5 per cento.Mentre la produttività globale dei fattori è inferiore del 10 per cento. Non tiene conto della durata del lavoro, che invece ha influenza, nella misura in cui orari più corti si accompagnano in generale a una produzione oraria più elevata. Una valutazione recente di Gilberte Cette calcola questo effetto al 5 per cento. In totale, dunque, la produttività del lavoro sarebbe in Francia del 5 per cento inferiore al livello americano, e la produttività globale dei fattori dell’ordine del 15 per cento inferiore al livello americano, ciò corrisponde alla metà dello scarto di reddito pro capite. Tutto ciò è notevole e va sottolineato.

Quanto allo scarto di reddito che si spiega effettivamente con il tasso d’attività e la durata del lavoro, possiamo veramente attribuirlo a una scelta sociale positiva o meglio, nel gergo degli economisti, a una preferenza per il tempo libero?
L’affermazione è poco contestabile per i lavoratori a tempo pieno dei paesi dove il livello di sottoimpiego è basso. Lo è di più laddove forme di divisione del lavoro sono state adottate come risposta alla disoccupazione. Lo scarto di reddito si ritrova dove incontriamo le diverse forme di sottoimpiego, come il contratto a tempo parziale o il prepensionamento. Ovviamente, gli individui che si trovano in situazioni d’inattività finiscono per rivendicare l’emarginazione che subiscono.

Si creano nuove norme sociali, che danno alle patologie l’apparenza di cose normali. Non è da qui che si deduce che i cittadini o i salariati hanno fatto coscientemente una scelta a favore del tempo libero piuttosto che del reddito. Spesso la scelta non dipende da loro.
È molto difficile calcolare la parte dello scarto di reddito che corrisponde effettivamente a preferenze sociali differenti. Blanchard parte dall’ipotesi che l’abbassamento del 18 per cento della durata del tempo di lavoro dei salariati a tempo pieno, registrata in trenta anni in Francia, derivi dalla preferenza per il tempo libero. Ma alla luce delle polemiche sulle 35 ore, questo fatto è controverso. Questa evoluzione darebbe conto di un abbassamento di reddito pro capite del 12 per cento circa: la preferenza al tempo libero spiegherebbe un po’ più di un terzo dello scarto tra Francia e Stati Uniti.

Tutti questi calcoli fastidiosi ci portano in definitiva a una conclusione: è inesatto affermare: “la principale differenza tra l’Europa e gli Stati Uniti è che gli abitanti del Vecchio Continente utilizzano una parte della crescita di produttività per aumentare il tempo libero piuttosto che il reddito”. Il nostro scarto di reddito riflette almeno un altro problema d’efficienza economica.

Rischio Europa

Charles Wyplosz sottolinea il rischio politico di una strategia che tenda a contenere gli ostacoli interni ricorrendo all’Europa. Da un punto di vista economico, egli sottolinea l’assenza d’argomenti convincenti a favore della coordinazione delle riforme strutturali. Da un punto di vista strategico, infine, è preoccupato del rischio che i paesi più refrattari alle riforme, la Francia e la Germania, si servano della coordinazione per frenare i loro colleghi e imporre lo status quo.
Ho molta simpatia per il suo argomento politico. Dall’apertura delle frontiere a quella dei mercati dei servizi alla concorrenza, passando per la riduzione dell’inflazione e la riduzione del deficit di bilancio, la Francia ha fatto compiere all’integrazione europea il ruolo che i paesi malgovernati affidano al Fmi o alla Banca Mondiale.
L’argomento economico di Charles Wyplosz è un po’ meno convincente. Le interdipendenze nell’ambito dell’Unione monetaria forniscono un motivo per coordinare le riforme strutturali. La portata del suo terzo argomento è debole. Dalla Carta sociale in avanti, il fantasma di una coalizione di pesi morti è regolarmente riproposto, in particolare in Gran Bretagna. Fa eco a quello di chi spera di bloccare le riforme agendo a livello europeo. I timori di alcuni, che sono le speranze di altri, tardano talvolta a materializzarsi.

L’inquietudine Wyplosz è tuttavia legittima. Le difficoltà economiche attuali delle nostre economie sono di tale natura da rimettere in discussione l’adesione al progetto comunitario. L’economia europea va male, e i cittadini non sanno più se l’Unione può essere una parte del problema o la soluzione.
Davanti a questi fatti gli europei esitano. Hanno problemi a scegliere tra i modelli che si offrono: fissare obiettivi comuni e mettere al loro servizio strumenti più potenti di sovranità collettiva, o al contrario concepire l’Unione come un ordine concorrenziale nell’ambito del quale gli sforzi degli Stati più virtuosi e intraprendenti verrebbero ricompensati. O meglio: pretendono di cercare ispirazione nel primo modello, ma si dirigono pian piano verso il secondo.

La tensione tra obiettivi legittimamente ambiziosi e realizzazioni più che modeste è troppo grande perché si possa sopportarla a lungo. In altre parole, o gli obiettivi saranno rivisti depotenziandoli – per ammettere che la crescita, l’impiego e la coesione sociale sono fondamentalmente degli obiettivi nazionali. Oppure l’Unione dovrà darsi mezzi nuovi al servizio degli obiettivi comuni.
Mezzi che non dovranno consistere in nuovi trasferimenti di sovranità, non giustificati da criteri economici, ma dovranno consistere nella definizione di un metodo più efficace e più incisivo per condurre le azioni congiunte. Il bilancio comunitario dovrà essere una parte essenziale di tali metodi.

Leggi anche:  La tutela del lavoro ai tempi dell’intelligenza artificiale

Quanto ai francesi, è urgente che facciano una scelta tra gli obiettivi che assegnano all’Europa e quelli che pongono a loro stessi. Comprensibilmente per la nostra cultura centralizzatrice, la confusione permanente tra responsabilità nazionali e comunitarie finisce per costare molto al dibattito democratico. La cultura centralizzatrice non favorisce nemmeno la mobilitazione attorno alle priorità del paese. Essere europeo, non vuol dire attendere tutto dall’Europa.

* Questo contributo è ripreso da En Temps Réel

 

 

 

 

I ritardi dell’Europa *

Charles Wyplosz

Ancora più inquietante è che l’Europa – tranne eccezioni come la Svezia – tarda a ricavare profitto dalle nuove tecnologie dell’informazione che hanno dato un’accelerazione alla crescita americana. Rapidamente, senza dubbio, questo ritardo iniziale sarà colmato, poiché l’Europa non ha mai veramente indietreggiato nel campo tecnologico, ma l’allarme esiste. Non mancano né persone molto qualificate né imprese di punta, ma la diffusione d’una tecnologia che rimette in discussione le abitudini, ha bisogno di una flessibilità che sembra aver fatto difetto.

L’Europa è oggi caratterizzata dallo spreco della più preziosa delle risorse, il capitale umano, e dall’anchilosi quando l’adattamento è necessario.
All’origine c’è un conservatorismo sociale che riesce a bloccare le evoluzioni naturali. Non è da molto tempo che il mondo ha accelerato le sue mutazioni, ma l’Europa non si attrezza per seguire quel movimento. La parola d’ordine è “acquisito”, come in “diritti sociali acquisiti” o in “diritti comunitari acquisiti”: un termine che ne ricorda un altro, il”privilegio” nell’Ancien Régime. Un modo di dire che indica l’impossibilità rimettere in discussione quanto si è già negoziato una volta. Tutte le riforme sono viste come una rinuncia e non come un’opportunità. Ma la salvezza attraverso l’Europa può rivelarsi illusoria.

L’Europa a due velocità

I paesi europei non sono tutti nella stessa posizione. Si possono identificare due paesi che decadono vistosamente, come Francia e Germania e altri che crescono, come l’Irlanda, la Spagna, il Portogallo, la Gran Bretagna, la Finlandia e l’Austria. E poi altri ancora la cui sorte è incerta, recentemente più favorevole a Danimarca e Svezia, meno favorevole per l’Italia.

Che cosa fanno i paesi che avanzano e cosa quelli che indietreggiano? La differenza cruciale è tra chi ha la capacità di fare le riforme e chi fa fatica a adattarle al suo sistema.
Contrariamente a opinioni diffuse, le riforme che garantiscono maggiore elasticità nell’affrontare il cambiamento mondiale non sono necessariamente sinonimo di regressione sociale.
I paesi del Nord Europa, ad esempio, sono quelli che offrono il più alto livello di protezione sociale, grazie alla spesa pubblica più elevata. Ma ciò non impedisce alle loro economie d’essere dinamiche, e continuano a progredire nella classifiche mondiali in termini di prestazioni e d’innovazioni; anche se incontrano un periodo nero, come è accaduto alla Svezia.
Il loro “segreto” non è banale: quando si presenta un problema, le parti sociali negoziano riforme per risolverlo. È un passaggio lento, ma condiviso con l’opinione pubblica, e dunque sfocia nelle necessarie riforme.

Il contrasto tra grandi e piccoli paesi è notevole. I piccoli paesi sembrano più agili con la loro flessibilità, ma esistono importanti eccezioni a questa regola. Sono due i grandi paesi che si sono trasformati radicalmente negli ultimi venti anni: la Spagna con l’uscita dal “Franchismo” e la Gran Bretagna sotto la frusta di Margaret Thatcher. Tra i piccoli paesi, invece, la Grecia è ancora in fase di recupero, ma dovrà presto metter mano alle riforme, mentre nei numerosi paesi “in transizione”, il cambiamento sembra incerto sulla via da prendere. Soprattutto, però, l’Europa soffre nei suoi tre grandi paesi: Germania, Francia e Italia.
La disinvoltura apparente dei piccoli paesi a negoziare le riforme, si può spiegare in parte con la loro grande omogeneità. È più facile accettare i sacrifici quando i benefici ricadono direttamente su persone vicine. D’altro canto, sono naturalmente più aperti agli scambi internazionali, e quindi sentono più direttamente e più fortemente l’obbligo della competitività.

Ma ci sono anche altri aspetti, di natura più politica. Nei piccoli paesi, gli accordi europei sono presi sul serio, tanto dai governi quanto dalle opinioni pubbliche, che non hanno nessuna speranza di influire sulle decisioni. L’Europa è percepita come una potenza, a volte utile, a volte dolorosa, con la quale bisogna assolutamente venire a patti. Al contrario, i grandi paesi, possono spesso ottenere compromessi a loro favorevoli: il contrasto tra il trattamento riservato all’Irlanda, rispetto alla Germania e alla Francia sul rispetto del Patto di Stabilità e crescita, è rilevante.
A questo punto sorge una domanda: a cosa potrebbe somigliare un’Europa ideale che sapesse mettere da parte le sue molteplici eccezioni nazionali, reali o immaginarie?

Due divisioni

Esistono due modi per affrontare questa domanda, secondo l’idea che ci si è fatta dei governi.
Il primo approccio parte dalla visione che i governi servono all’interesse collettivo. Questo ci consente di sviluppare alcuni principi razionali:

– Il principio di sussidiarietà, un buon punto di partenza nella misura in cui lo Stato-nazione resta, nel migliore e nel peggiore dei casi, la base della legittimità democratica. Questo principio stabilisce che, senza argomenti solidi, tutte le funzioni devono restare decentralizzate, cioè mantenute come competenza nazionale.
– Il principio d’efficacia, che giustifica la centralizzazione per una migliore organizzazione collettiva.
– Il principio d’eterogeneità, che porta a riconoscere i particolarismi nazionali, se sono importanti, e giustifica il mantenimento delle competenze nazionali, anche se il risultato è inefficiente.

Il secondo approccio, al contrario, parte dal principio che i governi non sono sempre alla ricerca dell’interesse collettivo, ma operano in un groviglio d’interessi particolari. Immancabilmente, le riforme che servono all’interesse collettivo si scontrano con gli interessi particolari. Per raggiungere tale scopo, ogni governo deve perciò costruire coalizioni di elettori e di sostenitori finanziari, e dunque difendere i loro interessi particolari, anche se questi non coincidono con quelli collettivi.
Di fronte a questi blocchi che ostacolano la crescita economica, l’idea è di far sentire il peso dell’Europa sui governi recalcitranti.
Entrambe queste visioni, apparentemente inconciliabili, hanno un elemento di verità. Il pragmatismo consiste, quindi, nel domandarsi in quale misura i governi, di fronte agli ostacoli politici nazionali, debbano cercare la salvezza in una Europa più fortre. Questo è il senso degli sforzi federalisti.

Ma la salvezza attraverso l’Europa può rivelarsi illusoria. I paesi che riescono meglio a adattare le loro economie sono ricompensati da risultati migliori. Quando servono l’interesse generale, le riforme pagano, e si vede. Inevitabilmente, dunque, i governi europei sono in competizione gli uni con gli altri. E la competizione può anche giocare un ruolo di pungolo. Offre argomenti ai governi alle prese con gli interessi particolari: i migliori risultati dei paesi concorrenti possono essere utilizzati per mobilitare l’opinione pubblica al servizio dell’interesse generale.
Al contrario, la centralizzazione rischia di condurre allo scontro governi controllati dagli interessi particolari, con la conseguenza di ridurre gli inviti a un’azione riformatrice
La sola soluzione razionale, dunque, è di procedere caso per caso.

* Questo contributo è ripreso da En Temps Réel

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Dalle gabbie salariali all'aumento dei consumi