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Un anno di Legge Biagi

La diversificazione dei modelli contrattuali non è riuscita a stimolare l’offerta di lavoro. Nella riforma gli strumenti di lotta all’esclusione sociale si sono confusi con quelli finalizzati a conciliare la domanda di flessibilità delle imprese con la tutela dei lavoratori. Meglio sarebbe allora lasciare alla contrattazione collettiva la facoltà di decidere in quali casi, a quali condizioni e entro quali limiti è lecito, per i singoli lavoratori e per i singoli datori di lavoro, contrattare individualmente condizioni di lavoro adatte alla situazione specifica.

La ex baby sitter dei miei figli, che ancora oggi si occupa di loro di tanto in tanto, mi ha chiesto di spiegarle cos’è il lavoro a chiamata. Gliel’ho spiegato, e lei, confermando la mia idea che l’intuizione giuridica non è prerogativa dei giuristi, mi ha detto: “ma allora io sono una lavoratrice a chiamata!”. Devo confessare che non ci avevo pensato, ma, in effetti, ci sono tutti gli elementi previsti dall’articolo 34 della nuova legge: ha meno di 25 anni, è disoccupata, e l’intesa è stata, finora, che io la chiamassi con un certo preavviso in caso di necessità. Dunque, in virtù della “legge barbara” che mercifica il lavoro, alla mia baby sitter spetterebbe l’indennità di disponibilità (il 20 per cento della retribuzione contrattuale) per i periodi di “attesa” della chiamata. Per fortuna, lei stessa si è subito affrettata a tranquillizzarmi, chiarendo che non sa che farsene del lavoro a chiamata.

Gli obiettivi della legge

I mali da attaccare erano noti: il tasso di occupazione più basso d’Europa, la seconda peggiore performance (dopo il Belgio) nell’occupazione dei lavoratori anziani, la più elevata incidenza europea del lavoro illegale, i più intensi squilibri territoriali del mercato del lavoro.
La “riforma Biagi” è partita dall’assunto che, per curare quei mali, fosse necessario massimizzare la flessibilità dell’offerta di lavoro, e lo ha fatto a partire dall’anello più debole della catena: non già la regolazione del rapporto di lavoro, bensì la diversificazione dei modelli o tipi contrattuali attraverso i quali è possibile procacciarsi lavoro (la cosiddetta “flessibilità tipologica” o “in entrata”). Operazione accompagnata, poi, dal completamento del processo di decentramento e razionalizzazione organizzativa dei servizi per l’impiego, già avviato dal Governo di centrosinistra.
Su questo secondo fronte, la riforma ha prodotto forse gli sforzi più apprezzabili, per comune riconoscimento bipartisan; benché debba constatarsi che sul piano operativo e dei risultati ottenuti siamo ancora quasi all’anno zero.

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I punti critici

Ma è la seconda parte della riforma – quella che moltiplica e rimodula i tipi contrattuali flessibili – che lascia più perplessi.
I dati che l’Istat ha appena fornito sembrano confermare un’impressione diffusa, che registra non tanto la temuta destrutturazione del nostrano diritto del lavoro, quanto la scarsa efficacia di istituti quali il lavoro a chiamata, il lavoro gemellato, il part time flessibile, lo stesso staff-leasing all’italiana (somministrazione cosiddetta “a tempo indeterminato”), che paiono inadatti non solo a destare in maniera significativa l’attenzione degli imprenditori, ma anche a stimolare l’offerta di lavoro.
La verità è che la riforma del 2003 ha utilizzato in maniera un po’ confusa strumenti con diversa finalità: andavano infatti meglio distinti gli strumenti di lotta all’esclusione sociale (lavoro a chiamata, contratto di inserimento, prestazioni occasionali di tipo accessorio), da quelli finalizzati a conciliare in maniera ottimale la domanda di flessibilità delle imprese con quella di tutela, ma a sua volta di flessibilità, dei lavoratori (part time, lavoro ripartito, contratto a termine, somministrazione, lavoro parasubordinato, collaborazioni occasionali).
Se ciò si fosse fatto, sarebbe parso chiaro, intanto, che i primi soffrono della concorrenza insuperabile del lavoro irregolare, la cui eliminazione è precondizione per la loro efficacia, oltre che per l’accertamento effettivo della condizione di debolezza occupazionale.
Quanto ai secondi, essi avrebbero richiesto una più attenta calibratura tra flessibilità nell’interesse dell’impresa, flessibilità nell’interesse del lavoratore e semplicità regolativa: se infatti il nuovo part time è troppo poco “women friendly” per poter contribuire a innalzare il tasso di occupazione femminile, il lavoro ripartito, il lavoro a progetto e occasionale, la nuova somministrazione di lavoro e lo stesso lavoro a termine, sono inficiati, a seconda dei casi, e spesso assieme, da eccesso o inefficienza regolativi.
I critici a oltranza della riforma Biagi, peraltro, hanno puntato solo sulle sue reali o presunte iniquità regolative, curandosi ben poco del difetto di fondo, individuabile in una sorta di eccedenza del messaggio politico-mediatico rispetto alla sostanza normativa.

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Verso uno “Statuto dei lavori”?

Il risultato, è che dopo il varo di un decreto legislativo composto di ben ottantasei lunghi articoli, e di un decreto correttivo di altri ventuno articoli, resta da scrivere lo “Statuto dei lavori” di cui si parla ormai da un decennio. Resta, per esempio, da allestire la rete di sicurezza sociale resa necessaria proprio dal proliferare di rapporti di lavoro instabili e discontinui, guardando, modernamente, al problema della “sotto-occupazione” più che a quello della “disoccupazione”.
Nel contempo, però, sarebbe necessario rimpiazzare, almeno in parte, molte delle flessibilità inutili introdotte nel 2003, con la flessibilità utile e praticabile, che dovrebbe rispondere a due caratteristiche: 1) dovrebbe riguardare direttamente le “modalità d’uso” del lavoro, anche nei rapporti di lavoro “standard” e non precari; 2) dovrebbe operare in funzione non antisindacale.
Ciò sarebbe possibile se si lasciasse alla contrattazione collettiva la facoltà di decidere in quali casi, a quali condizioni e in quali limiti sarebbe lecito, per i singoli lavoratori e per i singoli datori di lavoro, contrattare individualmente condizioni di lavoro adatte alla situazione specifica, anche se formalmente peggiorative rispetto a quelle stabilite dalle norme inderogabili del diritto del lavoro. Ciò costituirebbe, tra l’altro, anche un arricchimento funzionale della contrattazione collettiva e del sindacato, oggi particolarmente bisognosi di allargare e potenziare le basi della propria legittimazione sociale.

 

 

 

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Alitalia: bene così, ma non facciamoci illusioni

  1. Ciro Moretti

    Finalmente si leggi di un articolo che solleva delle critiche alla legge Biagi e riconosce che ormai da anni la flessibilità la si intende solo a discapito del dipendente senza prevedere alcuna tutela sostitutiva.
    Insomma finalmente un articolarista coraggioso!
    Un pregio ormai scomparso tra i giornalisti ed esperti che si occuopano del mercato del lavoro.

    Ciro Moretti

  2. Ciro Moretti

    Risulta inutile se non deleterio pensare che si debba permattere accordi peggiorativi dei diritti individuali. Ove possibili significherebbe solo che i lavoratori in quella azienda hanno poco potere contrattuale cioè sono già in difficoltà contrattule. Se si ritiene che alcuni diritti possano essere indeboliti può essere fatto solo a livello nazionale ove i sindacati hanno un effettivo potere contrattuale. Al sindacato interno può essere lasciato solo la possibilità di contrattare al rialzo.

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