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Università, mancano ancora incentivi e concorrenza

L’università italiana sta fallendo non perché manchino i fondi, ma perché chi vi opera non ha la responsabilità delle proprie azioni: non vi sono disincentivi per chi la usa per scopi clientelari, né incentivi per chi tenta di far ricerca ad alto livello. Nonostante alcune buone idee, la riforma proposta dal ministro Moratti non apporta su questo punto innovazioni di rilievo, come si vede dall’analisi delle principali novità. Fallirà, dunque. Ma non perché avrà cambiato troppo, come sostengono i suoi critici. Bensì per non aver osato abbastanza.

L’ università italiana sta fallendo non perché manchino i fondi, ma perché chi vi opera non ha la responsabilità delle proprie azioni: non vi sono disincentivi per chi la usa per scopi clientelari, né incentivi per chi tenta di far ricerca ad alto livello (un mio precedente articolo descrive un sistema universitario radicalmente diverso da quello attuale, basato su un sistema di incentivi e disincentivi anziché su regole continuamente disattese).
Il disegno di legge Moratti si ispira a criteri in gran parte condivisibili, ma su questo punto fondamentale non apporta innovazioni di rilievo. Di conseguenza, fallirà nel suo tentativo di riformare l’università italiana; ma non, come sostengono la maggior parte dei suoi critici, per aver cambiato troppo, bensì per non aver osato abbastanza.
In questo articolo passo in rassegna le principali novità del Ddl Moratti, le critiche principali, e i motivi per cui probabilmente non riuscirà a incidere sui problemi dell’università italiana. Un precedente articolo di Marco Lippi e Pietro Reichlin offre un’altra analisi, in parte coincidente con la mia, del Ddl Moratti. 

1. I nuovi contratti prevedono un periodo di valutazione di sei anni, dopo il quale o si è confermati in ruolo o….?

Critiche. Aumenta la "precarizzazione" e la "pauperizzazione" del lavoro in università; allunga i tempi della carriera universitaria. 

Valutazione. La concorrenza è una condizione necessaria per aumentare la produttività, all’ università come in tutti gli altri campi. In tutti i sistemi universitari che funzionano, la conferma in ruolo è attribuita solo dopo alcuni anni sulla base della produzione scientifica. Il Ddl Moratti si muove quindi nella giusta direzione.
Paventare la "precarizzazione" appare pretestuoso: secondo questa logica, ogni tentativo, in qualsiasi campo, di premiare la produttività e scoraggiare l’ incompetenza e l’ inattività può essere bollato come un aumento della "precarizzazione".
La "pauperizzazione" può essere un pericolo reale, ma il Ddl Moratti non c’entra, anzi esso prevede che "(…) il trattamento economico dei predetti contratti [sia] determinato da ciascuna università e tenuto conto dei criteri generali definiti con Ddl del ministro dell’Istruzione (…)". Anche se prevedibilmente i margini di manovra saranno limitati, le scelte fatte dalle università mostreranno quali sono realmente le loro priorità, se promuovere la carriera di giovani promettenti o continuare a premiare unicamente l’anzianità di servizio.
Quanto all’allungamento della carriera, niente impedisce all’establishment di promuovere velocemente un brillante ricercatore che se lo meriti. Se ciò avviene (e avverrà) raramente è solo per il diffuso uso baronale dei meccanismi di promozione.    
È vero però che il Ddl Moratti prevede un’assurdità che non ha riscontro in alcun altro sistema: due periodi di valutazione di sei anni, prima da associato e poi da ordinario.

Perché non funzionerà. Per svariati motivi.
1. Rimane assente un sistema di incentivi e disincentivi. Anche nel sistema del Ddl Moratti, così come nel sistema attuale, un gruppo di docenti che confermi in ruolo l’amico del collega non sopporta alcuna conseguenza negativa della propria azione.
2. Già oggi ricercatori e professori devono essere confermati dopo tre anni. Ma nei pochissimi casi di bocciatura, è stato sufficiente attendere una nuova commissione l’anno successivo o fare ricorso al Tar per venire poi confermati. Il Ddl Moratti di per sé non modificherà la cultura anti-competitiva che prevale nell’università attuale.
3. Ciò anche per un grave difetto del Ddl, peraltro forse inevitabile in un sistema statale e centralizzato come quello italiano. Se un assistant professor di Harvard non è confermato in ruolo, troverà sempre lavoro in un’altra università, più o meno buona a seconda di come il mercato valuta la sua produzione scientifica. Il Ddl Moratti sembra escludere questa possibilità; di conseguenza, anche nel nuovo regime nessuno verrà messo sulla strada, e anche se ciò avvenisse, si troverà sempre un Tar che lo salverà.

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2. La remunerazione consisterà di una parte fissa e di una parte variabile. 

Critiche. A parole, questa norma è generalmente ben accolta. La Conferenza dei rettori ha tuttavia indicato il pericolo che si introducano "(…) elementi di discrezionalità e di personalizzazione (…)". 

Valutazione. Se si vuole promuovere la buona ricerca e il buon insegnamento, la loro remunerazione pecuniaria sembra indispensabile. Anche in questo caso il Ddl Moratti si muove nella giusta direzione.

Perché non funzionerà. Per gli stessi motivi di cui sopra. Se si è nominato il figlio del collega, si cercherà anche di fargli avere un salario variabile elevato. I criteri utilizzabili sono tanti e indefiniti – ricerca, insegnamento, partecipazione a congressi, partecipazione a riunioni e comitati, eccetera; uno per giustificare un aumento di stipendio si troverà pure.
Ma non è un problema di discrezionalità e personalizzazione: queste sono inevitabili, e addirittura auspicabili, se si vuole premiare la ricerca, esattamente perché l’indicatore di produttività infallibile e oggettivo non esiste. Il problema sta nel far sì che chi esercita questa discrezionalità abbia l’incentivo a farlo nel modo più efficiente possibile. In un sistema che funzioni, se promuovo un candidato che la maggior parte della professione ritiene non sufficientemente qualificato, se vinco la scommessa la mia università migliorerà e aumenteranno prestigio, finanziamenti e qualità degli studenti, se perdo la scommessa succederà l’opposto. Un simile meccanismo continua a non essere presente nel Ddl Moratti.   

3. I concorsi per le posizioni di professore associato e ordinario diventano nazionali.

Critiche. Questo provvedimento ha riscosso molti consensi. La Crui stessa non si è opposta in linea di principio.

Valutazione. Il concorso nazionale è espressione di una mentalità che preferisce demandare a una "certificazione" centralizzata anziché al mercato l’accertamento delle capacità di un professionista. In questo senso, il concorso nazionale non è diverso da istituti medievali come l’Ordine dei giornalisti.
Perché non funzionerà
. Il meccanismo attuale di concorsi a livello di singole sedi si basa su di uno scambio di favori "inter-temporale". L’università X indice un concorso per far vincere il portaborse locale, il rappresentante dell’università Y accetta di fare il commissario in questo concorso e di votare per il portaborse locale, con la promessa implicita che l’università X, on un loro complice, restituirà il favore in futuro quando l’università Y vorrà promuovere il proprio portaborse.
Con il concorso nazionale, lo scambio diventa "intra-temporale": i favori verranno scambiati tutti nello stesso momento. Non vi è nessun motivo di ritenere a priori che un sistema sia meglio dell’altro. Anzi, la professione sembra essersi dimenticata che il concorso nazionale fu abolito pochi anni fa vittima di critiche feroci per la sua corruzione dilagante.
E basterà un ritardo (magari intenzionale) nel nominare la commissione, o che un solo individuo ricorra al Tar, per bloccare la professione per anni. Di questi fenomeni, che furono una costante degli ultimi concorsi nazionali (in alcuni casi, si arrivò a un intervallo di otto anni fra due concorsi!), sembra essersi persa ogni traccia nella memoria collettiva.

4. Si possono assegnare posizioni di insegnamento a persone qualificate ma senza idoneità, con contratti a termine della durata di tre o quattro anni, rinnovabili.

Critiche. Si apre la porta  a individui non testati e "certificati" dal sistema, riducendo la qualità della didattica e della ricerca.

Valutazione. Nei paesi anglosassoni posizioni di questo tipo vengono  tipicamente offerte a civil servants (come ex–ambasciatori o negoziatori di trattati internazionali), a ex-sindaci di grandi città, a imprenditori, politici e loro consulenti, e a qualunque altro individuo qualificato che si ritenga abbia la capacità di comunicare un’esperienza interessante agli studenti di certe discipline, e non abbia tempo o qualifiche accademiche per intraprendere una carriera universitaria a tempo pieno.
Le università hanno la facoltà, non l’ obbligo di avvalersi di questa opportunità. Perché privare a priori gli studenti della possibilità di ascoltare individui che, per esempio, hanno fatto un’esperienza ad alto livello in un’importante organizzazione internazionale? 
Ancora una volta, le critiche a questo provvedimento riflettono il mito della "certificazione collettiva": le singole università non sono in grado di valutare la consistenza scientifica o didattica di uno studioso, solo un sistema centralizzato può farlo. Senza dimenticare che una figura simile nell’ ordinamento attuale esiste già: i professori a contratto, circa 22mila attualmente.

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Perché non funzionerà. Per lo stesso motivo per cui non funziona il meccanismo attuale di reclutamento e di promozione: non vi sono nel sistema, pre- o post-Ddl Moratti, disincentivi ad offrire una posizione di questo tipo ad individui senza qualifiche ma ben connessi.   

5. Le università possono realizzare convenzioni con imprese e fondazioni, che prevedano anche l’istituzione temporanea di posti di professori di prima fascia della durata massima di tre anni, rinnovabili.

Critiche. Come nel caso precedente, il provvedimento apre l’università a individui non testati e "certificati" dal sistema; crea disuguaglianze fra università.

Valutazione. Anche in questo caso, è difficile capire perché si voglia rifiutare a priori un’opportunità in più che viene offerta alle singole università di attrarre risorse finanziare ed intellettuali.
È un mito pericoloso che tutte le università siano o debbano essere uguali. Alcuni accademici sono molto bravi a fare ricerca, altri ad insegnare, molti non sanno fare né l’uno né l’altro. Allo stesso modo, non tutti gli studenti sono uguali. Una allocazione delle risorse intellettuali efficiente significa riconoscere queste differenze, non di appiattirle.

Perché non funzionerà. È prevedibile che in molti casi le imprese convenzionanti tenteranno di "comprarsi" un posto di professore per il proprio candidato. Non è nemmeno facile pensare a dei meccanismi efficaci di prevenzione: esattamente perché non esistono indicatori oggettivi, qualsiasi regola è facilmente aggirabile. La soluzione, ancora una volta, non è aggiungere regole, ma un sistema di incentivi per cui l’università che accetti il candidato non qualificato imposto da un’azienda ne paghi le conseguenze in termini di reputazione, numero e qualità degli studenti, e alla fine di finanziamenti globali.

6. È abolita la distinzione fra tempo pieno e tempo parziale.

Critiche. L’insegnamento e la ricerca diverranno un aspetto sempre più marginale della carriera universitaria.

Valutazione. Già ora l’università è piena di professori a tempo pieno che delegano illegalmente i ricercatori a insegnare, non svolgono alcuna attività di ricerca scientifica degna di questo nome, o dirigono centri di ricerca che sono essenzialmente dei feudi personali. Il Ddl Moratti prevede un minimo di ore di insegnamento e di attività universitarie, e prende atto realisticamente che il resto non si può legiferare. Ancora una volta, solo gli incentivi corretti possono creare un ambiente favorevole alla ricerca e all’insegnamento. 
Sostenere, come scrive la Crui, che una volta assolti gli impegni contrattuali "ognuno si sentirà libero di svolgere all’esterno altre attività con effetti ovviamente deleteri per la ricerca universitaria" significa attribuire ipocritamente lo sfascio dell’università italiana attuale non alla mancanza di incentivi e di concorrenza, ma alla mancanza di tempo

Perché non funzionerà. Il problema di fondo però resta anche nel Ddl Moratti: così come nel regime attuale, non esistono incentivi alla ricerca e disincentivi alla inattività, che si sia a tempo parziale o a tempo pieno. In ogni caso, sembra che questa parte del Ddl Moratti verrà stralciata.

7. Nei concorsi per professore ordinario, una quota pari al 15 per cento dei posti viene riservata ai professori associati con una anzianità di almeno quindici anni.

Critiche. Non sono a conoscenza di critiche di questo provvedimento.

Valutazione. La assoluta mancanza di critiche (e perfino di commenti) è così sorprendente da far dubitare della buona fede dei critici del Ddl Moratti. A parole, tutti vogliono promuovere la qualità della ricerca; eppure, si accetta senza batter ciglio che per il 15 percento dei candidati l’anzianità di servizio costituisca un titolo preferenziale, ed anzi una condizione necessaria, per la promozione.

Perché funzionerà benissimo. Perché, nonostante la retorica imperante, l’anzianità di servizio è ancora il criterio di promozione più popolare nella cultura dell’establishment.

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22 commenti

  1. giacomodorigo

    I dati suggeriscono che a benefiiare dell’ unisversità gratuita (ma in realtà non è gratuita completamente) siano maggiormente le famiglie più ricche. E lei propone seguendo il modello inglese di introdurre una tassa di accesso graduata in base al redditto. Questo però viene già realizzato a livello di fiscalità generale, con la gradualità delle aliquote. Quindi quello che lei propone è più uno spostamento del livello di tassazione da centrale a ‘locale’. Questo potrebbe essere un sistema più efficiente, però non si può affermare che il sistema attuale sia iniquo, in quanto la gradualità è già nella fiscalità generale. Tuttavia le pongo una questione di ordine pratico. Quando frequentavo il liceo scientifico meno di dieci anni fa, la norma era che quando uno studente rischiava la seconda bocciatura si trasferiva all’ istituto privato e lì miracolosamente la sua valutazione e il suo rendimento aumentavano. Come facciamo ad essere sicuri che non accada una cosa del genere quando i finanziamenti dipendono dal numero di studenti paganti?

    • La redazione

      Grazie die commenti, molto pertinenti e che esprimono preoccupazioni condivisibili.Sono d’ accordo che il sistema fiscale e’ gia’ progressivo. Tuttavia molti meno abbienti non beneficiano del tutto dell’ universita’, e pagano le
      tasse. Per costoro la progressivita’ del sistema fiscale e’ una magra consolazione.
      Un sistema in cui i fondi affluiscono in base al prestigio, alla qualita’ della ricerca, e alle rette degli studenti si autoregola: se una universita’ e’ nota per “vendere” le lauree, attirera’ solo studenti di basso livello; i suoi laureati troveranno lavori marginali; e l’ universita’ non attirera’ certo i professori migliori, ne’ fondi rilevanti. Dopodiche’ ogni studente fara’ la sua scelta: un’ universita’ facile, ma che non mi insegna niente, o un’ universita’ piu’ difficile ma che mi da’
      un’ educazione migliore e, perche’ no, piu’ spendibile?
      Roberto Perotti

  2. Francesco Devicienti

    Complimenti. Bellissimo articolo, che condivido in buona parte. L’importanza dei corretti incentivi per un buon funzionamento del sistema e’, a mio avviso, giustamente sottolineata.
    Vorrei aggiugere una riflessione sulla utilita’ dei concorsi, nazionali o locali che siano, come modalita’ formale di reclutamento all’interno di un sistema universitario che abbia gia’ recepito la logica degli incentivi di cui tu parli. In tal caso, ritengo che essi siano sostanzialmente inutili, o al massimo molto inefficienti (senza contare la solita accusa di essere anche poco equi).
    Il curriculum di un candidato, le sue pubblicazioni ed eventuali lettere di referenza, o piu’ in generale la sua reputazione, costituiscono una quantita’ di informazioni che dovrebbe essere sufficiente a discriminare in maniera equa ed efficiente tra candidati concorrenti, se i corretti incentivi che tu sottolineavi sono gia’ in essere. Come avviene nei paesi anglosassoni, al limite si ricorre a semplici “interviews” (e/o seminari) per approfondire la valutazione dei vari candidati (in particolare le loro competenze specifiche), ma niente di simile ad un concorso come lo conosciamo noi. Perche’ non ce n’e’ bisogno, e si evita in questo modo di pagarne i costi – elevati, sia per la collettivita’ sia per i candidati. E, se il concorso (il temino da scrivere o la la lezioncina “estratti a sorte”) era originariamente pensato come meccanismo di protezione contro abusi baronali in un sistema in cui mancano gli incentivi di cui tu parli, non si capisce quale ruolo potrebbe continuare a svolgere nel nuovo regime competitivo.

    grazie e cordiali saluti
    Francesco Devicienti

    • La redazione

      Concordo con te sull’ inutilita’ (e invero la perniciosita’) dei concorsi in un sistema efficiente.
      Roberto Perotti

  3. Bastiano Sanna

    Gentile Prof Perotti,
    concorro pienamente con la sua analisi, volevo pero’ chiedere come mai visto che si prende ad esempio il sistema americano, non si importa anche la pratica degli start up funds. Quando un dipartimento decide di assumere un giovane assistant professor (che spesso non e’ il migliore in senso assoluto dei candidati ma solo il piu “utile” per la ricerca che svolge il dipartimento) lo finanzia per 2-3 anni consentendogli cosi’ di iniziare la propria ricerca autonoma in maniera competitiva.
    Se in Italia si assume per sei anni un professore precario ma non lo si mette in condizione di lavorare e’ ovvio che la sua produzione scientifica ne soffrira’ specialmente in quelle discipline dove la ricerca e’ molto costosa. In qs maniera i dipartimenti sarebbero inoltre piu responsabilizzati visto che spenderebbero soldi loro e non “pubblici”
    Le rinnovo i complimenti
    Cordiali saluti
    Bastiano Sanna

    • La redazione

      Grazie per i complimenti. Sono d’ accordo sul punto generale che fa – perche’ i ricercatori rispondano agli incentivi bisogna metterli in condizione di fare ricerca bene, incluso il supporto economico. In media non credo il sistema universitario italiano spenda meno (per ogni “academic staff”) di altri sistemi europei; ma credo ci sia un problema di distribuzione di questa spesa, pesantemente a favore di persone con molta anzianita’ e a sfavore dei giovani.
      Roberto Perotti

  4. Giacomo Fiorin

    Trovo in larga parte condivisibili le osservazioni contenute nell’articolo: non fa che confermare la sconsolata diagnosi che mi permetto di formulare sull’università italiana con la presunzione di chi ritiene di non essere stato ancora «corrotto dal sistema».
    Rilevo comunque l’assenza di una questione importante al punto 5 (sulla diversificazione degli atenei): attualmente, le gravi carenze nelle politiche di mobilità per gli studenti trovano parziale giustificazione nella oggettiva proliferazione di nuove università in tutto il Paese. Con una netta diversificazione, parte di quegli studenti motivati a raggiungere una specifica offerta, potrebbero essere ostacolati dal fattore geografico. È superfluo ricordare la condizione attuale del mercato degli affitti, per dirne una. A mio avviso sarebbe opportuno che la auspicabile diversificazione si accompagnasse a politiche di mobilità interna selettive e mirate, sul modello dei programmi europei.
    Per quanto riguarda la quota del 15 per cento (su cui critiche rilevanti non sono state sollevate), voglio solo osservare che localmente ne ho sentite, da parte di giovani e meno giovani ricercatori, i quali lamentavano che la quota fosse troppo bassa!
    Ciò non fa che consolidare i miei propositi di «fuga». Con eventuale rientro, dopo pochi anni, sfruttando furbescamente gli incentivi per il «rientro», realizzando così una vergognosa speculazione ai danni dello Stato.

    • La redazione

      Grazie. Sono d’ accordo che c’e’ un problema di mobilita’ degli studenti. Il proliferare delle universita’ locali, alcune poco piu’ (o forse poco meno) di un buon liceo e’ una ulteriore distorsione del sistema.

      Roberto Perotti

  5. paolo MARITI_Pisa

    Lo scritto di Perotti è largamente condivisibile tranne, in particolare, laddove scrive:
    “non vi sono disincentivi per chi la usa per scopi clientelari, né incentivi per chi tenta di far ricerca ad alto livello”. Del tutto accettabile la seconda parte della proposizione, direi che la prima andrebbe rafforzata dicendo che sussistono invece proprio tutti gli incentivi per chi vuole usarla per scopi privati e che ciò assai puntualmente avviene con uno spreco immane di risorse. Si pensi anche soltanto alle “serie” di inviti a studiosi stranieri a tenere costosi (ma cosmetici) seminari il più delle volte totalmente sconnessi dalla ricerche rilevabili in atto “in loco” o dalla stessa didattica anche per dottorati. E’ un male che viene da lontano (gli istituti monocattedra) e si è rafforzato con la loro pratica scomparsa al decrescere del numero di coloro – disincentivati – dal fare vera ricerca e tirare a campare, pavoneggiandosi con grossi nomi .
    E qui non condivido del tutto l’idea che i fondi tutto sommato non manchino all’università. Anche prescidendo da quelli del personale, non è esatto. Personalmente (ma il fenomeno è diffusissimo) non ho mai avuto in Italia finanziamenti per importi che superassero il 10-15% di quanto, a ragion veduta richiesto. Che fare? Poichè le ricerche di teoria economica sono tipicamente ricerche da fare “a tavolino”,prendendo a prestito, magari inconsapevolmente, la nefasta distinzione manichea di origine crociana tra teora ed applicazioni, molti giovani e non giovani si sono dedicati al primo corno del problema, col risultato che, forse, abbiano una buona produzione scientifica in certe aree teoriche, ma sappiamo ormai molto poco di quello che veramente succeda in casa nostra, nel Mezzogiorno, nell’industria italiana anche e sopratutto in rapporto all’Europa e nella stessa ricerca applicata ai vari campi.
    Infine, per quanto intimamente convinto che il sistema degli incentivi e dei disincentivi sia un possente strumento nella determinazione dei comportamenti e dei risultati in ividuali e complessivi, credo che non sia sufficiente. Occorre anche che le varie corporazioni (dei fisici, dei matematici, degli storici, degli economisti e via dciendo) recuperino quella forza di promozione e di sanzionamento che è stata pur sempre importante in un passato non ancora del tutto dimenticato. Altrove esiste (anche in USA ed è feroce).

    • La redazione

      Grazie per il messaggio. Sono d’ accordo con la sua analisi sull’ uso di fatto “privato” dell’ universita’ e il conseguente spreco di risorse. Credo abbia ragione anche nell’ individuare una causa del “bias” italiano verso materie piu’ teoriche. Sulla mancanza di fondi, la mia posizione e’ quella che ho esposto nella risposta al messaggio precedente (e che ho cercato di documentare nel mio lavoro sull’ universita’ italiana
      reperibile sul mio sito http://www.igier.uni-bocconi.it/perotti): non sono sicuro che i finanziamenti complessivi siano inferiori a quelli di altri sistemi universitari europei piu’ competitivi; credo pero’ che la loro distribuzione sia abbastanza perversa, e che non premi sufficientemente gli individui piu’ bravi a far ricerca.
      Roberto Perotti

  6. Tommaso Sinibaldi

    Perchè non si parla mai di “governance” dell’Università? Eppure credo che il tema sia importante e molto.
    Sono stato per circa due anni nel Consiglio di Amministrazione di una Università (Roma Tor Vergata, in rappresentanza del Comune di Roma). In estrema sintesi : il CdA di poteri ne ha e rilevanti ; anche i mezzi finanziari non sono il problema. Il problema è che il CdA è composto pressochè totalmente da Professori Universitari e questo vuol dire che una pesante logica corporativa lo immobilizza.
    Per quanto ne so all’estero non è così, ed è del tutto logico che non sia così : l’Università non è dei Professori, come non è dei Ricercatori o degli studenti. L’Università è della collettività (se è pubblica) o della Fondazione o quant’altro, se è privata.
    Non può evidentemente essere governata contro i Professori, ma non deve essere governata dai Professori : se è così il sistema diventa perfettamente autoreferenziale e totalmente corporativo.
    In conclusione credo che una semplice norma che limiti la presenza dei Professori (di tutti i tipi e anche degli studenti, cioè di tutti i soggetti interni all’Università) a non più del 20 o 30% deil CdA potrebbe essere molto importante e per molti aspetti risolutiva.

    • La redazione

      Grazie per il suo commento, con il quale concordo in linea di massima. In un sistema finanziato quasi interamente dallo Stato, tuttavia, non mi e’ chiaro se altri ovvi candidati come membri del CdA di un’ universita’ – imprenditori, politici, sindacalisti, esponenti di organizzazioni di consumatori, esponenti del monto della cultura – avrebbero degli incentivi
      migliori dei professori universitari nel governare le universita’.
      Roberto Perotti

  7. Giacomo Dorigo

    Vorrei tornare al discorso della progressività. Comprendo la sua argomentazione, che mi sembra puntuale. Però quando sulla stampa italiana sento parlare di Harvard, poi scopro che gli studenti pagano 40mila dollari per seguirne i corsi. So che ci sono anche delle borse di studio per alcuni ‘poveri geni’. Ma questo non mi sembra un esempio di grande progressività. Pensa che potrebbe essere valido un sistema di tassazione decentralizzata ma gradualizzato con una legge centrale? Cioè riportare nella tassazione diretta sugli studenti il sistema per aliquote di redditto della fiscalità generale, in modo che ci siano più fasce, e non solo una fissa più la borsa di studio per i più poveri?

    • La redazione

      Il problema del finanziamento dell’ universita’ quando si intenda preservare l’ equita’ di accesso e’ effettivamente complicato. Cio’ a cui pensavo era un sistema esteso di assistenza, per esempio un sistema di vouchers condizionati al reddito piu’ prestiti con restituzione graduata in base al reddito conseguito dopo la laurea. Il sistema di cui parla lei, e che nel breve periodo e’ forse piu’ fattibile – cioe’ graduare le tasse in base al reddito – e’ simile ad un sistema di vouchers condizionati al reddito. La differenza e’ che in un sistema con vouchers le universita’ sarebbero libere di stabilire le proprie rette, e sarebbero essenzialmente private; in un sistema con rette graduate stiamo ancora parlando di universita’ statali. Entrambi i modelli hanno pro e contro, e’ inutile nasconderlo. Un problema potenziale di un sistema di vouchers con universita’ private e’ che ci puo’ essere un incentivo per le universita’ ad una corsa al rialzo delle rette, perche’ di fatto lo stato paga a pie’ di lista per gli studenti ammessi. Questo e’ successo in Cile negli anni ottanta, e risolvere questo problema richiede uno sforzo intellettuale notevole. In questo momento non pretendo di averne la soluzione; allo stesso tempo, c’e’ da chiedersi se non sia meglio affrontare questo problema che rimanere con l’ attuale sistema che non funziona.
      Grazie del suo messaggio, che ha messo in luce un problema a mio avviso fondamentale.

      Cordialmente
      Roberto Perotti

  8. nicola lamedica

    Sono uno studente universitario e da tutto cio che leggo posso notare che c’e’ la messa in evidenza della “infunzionalita” del settore pubblico in italia.
    E anche voi vi lasciate andare dietro le leggi e le riforme DI CUI LA NOSTRA BELLA ITALIA NE E’ PIENA.
    Il problema principale nelle universita italiane non è la mancanza di fondi ma la presenza di milioni di “pseudo” ricercatori. Il termine pseudo vuol dire che nelle Universita italiane per diventare ricercatore o professore non serve la propria conoscenza approfondita nella materia di ricerca, infatti risulta del tutto inutile se un giovane ricercatore scriva anche articoli su giornali scientifici a livello internazionale. Quello che serve è la cosidetta “anzianita”. Ecco perche in Italia c’e’ fuga di cervelli, perche le persone intelligenti vanno via e rimangono solo gli “assistenti- portaborse” che come il nostro bel sistema pubblico ci fa notare…si fa carriera solo per anzianità. Il 70% dei professori ordinari italiani non scrive articoli a livello internazionale…è queste sarebbero le menti!!
    Oppure gli articoli vengono scritti grazie ai pochi studenti che scrivono tesi interessati e dalle quali i professori prendono spunto per le “loro ricerche.
    Quindi il problema non è la mancanza di fondi,ma la suddivisione inefficiente di questi fondi in quanto ci sono migliaia e migliaia di pseudo-ricercatori che si trovano in questo settore solo perche come si ragiona in italia..”hanno il posto fisso” e non per vocazione o spirito di ricerca.
    Iniziamo a snellire il personale all’interno delle universita e secondo me l’italia diventera ai primi posti come qualita degli studi.
    per quanto riguarda le riforme…fanno ridere tutti questi 3+2, 3+1+1,… la riforma che bisogna fare è che bisogna togliere materie inutili all’interno di corsi di laurea…bisogna studiare solo materie specializzanti e non tanti esami di cui solo pochi veramente utili!!!
    Basti pensare che per le lauree in economia si studia ancora diritto pubblico o diritto privato…mi potete spiegare a cosa serve lo studio di queste materie visto la societa in cui viviamo cerca sempre personale piu specializzato!??!?!?!?
    Ma in italia pensare ad uno smantellamento di cattedre “inutili” risulta essere impossibile in quanto chi si prendera tali responsabilità…e poi con tutti i favoritismi che ci sono!!!!!!!!!!!!
    Beh,questa è la realta dei fatti…l’italia tra 10 anni arrivera ai livelli della attuale Albania!!!
    Come possono competere i laureati italiani con gli studenti esteri se questi ultimi si laureano in media a 21!?!?!?!?
    Bisogna guardare alla realtà e non alle leggi.

    • La redazione

      Pienamente d’ accordo. Se guardi i miei articoli precedenti sull’ universita’ su lavoce.info, vedrai che ho sostenuto tesi molto simili. Un cordiale saluto
      Roberto Perotti

  9. Dorigo Giacomo

    Il sistema con retribuzione gradualizzata in base al reddito al momento dell’ iscrizione e con università statali potrebbe comunque essere un passaggio intermedio verso il sistema che indica lei. Per rendere il passaggio ancor più fluido e sfumato ma evitare l’effetto ‘Cile’ si potrebbe adottare il seguente metodo. L’ università decide autonomamente l’ammontare della tassa di iscrizione piena (che chiamiamo per comodità QP) che può variare da zero ad infinito (esclusi), ma è lo Stato centrale che, per legge, determina quale parte di QP debba essere pagata in base al reddito. Assumiamo che si opti per cinque fasce di reditto pari alle attuali quattro più la ‘no tax area’, che chiameremo fascia 1, 2,…,5 (dove 1 sono i redditi della no tax area e così via). Per ogni fascia si potrebbe adottare una funzione leggermente diversa per il calcolo dell’ importo effettivo da pagare sulla base della quota piena stabilita dall’ università. Cioè anzichè usare le solite percentuali si potrebbero usare funzioni più sofisticate che permettano di scaricare gli aumenti eccessivi delle tasse sugli studenti più ricchi. Per esempio dovrebbero valere funzioni che soddisfino le seguenti condizioni:
    a) le tasse pagate da 1 e 2 dovrebbero essere sempre più basse di quelle pagate da 3,4,5 (e ovviamente quelle pagate da 1 inferiori a quelle pagate da 2);
    b)le tasse pagate da 1 e 2 dovrebbero essere massime per QP tendente a zero e diminuire in valore assoluto all’aumentare di QP;
    c) all’ aumentare di QP le tasse pagate da 3 e 4 rimangono costanti in valore percentuale (e di conseguenza aumentano in valore assoluto), con l’ aliquota pagata da 4 maggiore di quella pagata da 3;
    d) 5 paga sempre QP.
    Il sistema è solo abbozzato ma in questo modo se un istituto decidesse di alzare le quote di iscrizione in modo spropositato ben presto si ritroverebbe a dover far entrare gratis o quasi gli studenti più poveri e a dover far pagare sempre di più gli studenti più ricchi, con il rishio di perderli e quindi di perdere una cospicua fonte di finanziamento. Penso che un sistema del genere potrebbe permettere sufficienti oscillazioni permettendo la competizione tra gli atenei, evitando però ‘la corsa all’ oro’. Mi dica cosa ne pensa e quali problemi potrebbero sorgere. Grazie.

    • La redazione

      Mi sembra un’ idea ingegnosa, sicuramente da approfondire. Ripeto che questo e’ secondo me il nocciolo del problema, quindi qualsiasi idea intelligente come questa sull’ argomento e’ benvenuta. Grazie e cordiali saluti
      Roberto Perotti

  10. rosario nicoletti

    L’articolo è diventato l’occasione di un “forum”, dove è possibile leggere alcuni interessanti interventi. Le critiche al DDL Moratti espresse mi trovano in buona parte concorde, ed in particolare la affermazione che: “ chi vi opera non ha la responsabilità delle proprie azioni: non vi sono disincentivi per chi la usa per scopi clientelari, né incentivi per chi fa una buona ricerca…….” dovrebbe essere il punto di partenza (condiviso da altri, Lippi e Reichlin, Mariti) per formulare qualsiasi proposta di riforma.
    Di contro, il DDL Moratti e molte delle proposte che circolano (pur condividendo l’analisi su accennata) si disperdono in soluzioni settoriali, che non possono trovare per loro natura collocazione nella realtà attuale. Di qui le critiche (in buona parte condivisibili) presentate nell’articolo. Incentivi e disincentivi sono la ricetta giusta. Come concretamente introdurli? Sono convinto che la soluzione si trova nel governo dell’università o nella “governance”, come è di moda chiamarla. Solo un diverso sistema di governo può introdurre incentivi e disincentivi. Anche la tanto celebrata “valutazione” andrebbe poi tradotta (ove efficiente) in atti concreti.
    Proviamo ad esaminare un punto del DDL Moratti, carico di buone intenzioni, e capace di raccogliere il plauso di quanti pensano ad incentivi da introdurre nel contesto attuale. Parte della retribuzione dei docenti dovrebbe essere formata localmente, da aggiungere alla parte fissa decisa per legge. Per immaginare cosa accadrebbe, è sufficiente ricordare quello che è accaduto con l’autonomia universitaria: il primo risultato è stato quello di dare una retribuzione per le cariche accademiche, fatto senza precedenti, e di aumentare a dismisura gli stipendi dei vertici amministrativi. Così, gli aumenti o integrazioni, in numero irrilevante per via dei bilanci universitari in perenne crisi, riguarderebbero tutt’al più amici e “clientes” dell'”establishment” locale. In assenza di meccanismi di valutazione penetranti (difficilmente immaginabile in un sistema di cariche elettive), la tentazione di utilizzare gli aumenti per ingraziarsi notabili e portatori di voti sarebbe troppo forte e lascerebbe poco spazio ai meriti scientifici o didattici.
    Per concludere, molte delle buone intenzioni che hanno portato al DDL Moratti non troverebbero seguito negli ordinamenti attuali: competitività, meritocrazia possono essere introdotti solamente in quei sistemi di gestione che non siano esclusivamente autoreferenziali. Stranamente pochi (tra questi Sinibaldi) hanno il coraggio di affermare che bisogna mettere mano al governo delle università; va dimenticata la politica della CRUI, che strenuamente difende lo status quo. Così come mi sembra dissennato conservare questa autonomia gestionale poco responsabile, gabellandola per libertà di ricerca e di insegnamento.

    • La redazione

      Grazie per il commento.
      Sono d’ accordo che l’ autonomia salariale produrrebbe effetti perversi nel sistema attuale. Ma questo perche’ i fondi che arrivano alle universita’ non dipendono dalla qualita’ della ricerca. In un sistema in cui i fondi complessivi che ogni universita’ riceve sono determinati in gran parte dalla riocerca che esprime, tutti starebbero bene attenti a usare i fondi esistenti per aumentare gli stipendi del personale improduttivo.
      Roberto Perotti

  11. Tommaso Sinibaldi

    Torno sulla proposta formulata nel mio intervento del 19 dic. 2004 e sulla breve replica.
    La proposta era quella di limitare la presenza di “interni” alll’Università (professori, ricercatori,studenti) a non più del 20-30% del CdA, lasciando il resto dei posti ad “esterni” (rappresentanti delle Amministrazioni locali, dei sindacati, della cultura, manager etc.). Mi rendo conto che ciò può ingenerare il timore di una “politicizzazione” con conseguenti logiche di spartizione dell’università.
    Ribatto : 1 – la politicizzazione in buona misura c’è già : questa avrebbe almeno il pregio di rompere il cerchio autoreferenziale e corporativo che oggi attanaglia l’università.
    2 – dobbiamo essere per forza così pessimisti sulla capacità del nostro sistema politico e sociale di esprimere valide governances? Io credo che ci siano in Italia tante persone intelligenti, esperte ed oneste che sarebbero liete di mettere con passione le loro capacità al servizio dell’Università : dobbiamo per forza ipotizzare che il nostro sistema politico e sociale non sceglierebbe queste persone ma mediocri “amici” di questo o di quello?
    Osservo che su queste nomine vi sarebbe un forte “controllo sociale”: credo che la società civile sente fortemente l’università come cosa propria ed importante e non tollererebbe facilmente nomine inadeguate.
    Aggiungo infine che vi potrebbero essere dei posti in CdA “a pagamento” per aziende, fondazioni (penso in particolare alle Fondazioni Bancarie) etc., che a fronte di una adeguata donazione potrebbero acquisire il diritto ad un posto in CdA. Non credo che ciò costituirebbe un pericolo di “privatizzazione” dell’università (si tratterebbe poi di esigue minoranze in CdA), ma un valido stimolo : chi da dei soldi con una prospettiva di un ritorno che è principalmente di immagine ha tutto l’interesse a che il risultato sia di qualità e prestigio.

  12. luca regini

    Una soluzione semplice ed efficace ci sarebbe. Le pubblicazioni scientifiche sono valutabili in base ad un indice di impatto che e’ pubblicato da organi internazionali. Ebbene basterebbe fare in modo che una quota prevalente della valutazione di un concorso sia semplicemente dovuta alla sommatoria degli indici delle varie pubblicazioni. Il problema dell’universita italiana e’ principalmente un problema di meritocrazia e solo in secondo luogo di risorse. Un sistema di finanziamento privato dell’universita pubblica puo’ funzionare solo quando esistano efficaci incentivi per chi e’ meritevole ma non ha possibilita economiche. Non vedo come un sistema del genere possa essere introdotto in Italia quando chi gira con il BMW comprato dal padre puo’ alloggiare negli appartamenti universitari. Negli Stati Uniti studenti stranieri meritevoli hanno la possibilita di vincere borse che li mantengano completamente agli studi e parlo di esperienze che conosco da vicino. In mancanza di un sistema che garantisca l’accesso anche agli studenti meno abbienti una “privatizzazione” dell’universita’ non porterebbe alcun vantaggio, anzi permetterebbe solo alle fascie a reddito maggiore di accedere alle migliori universita’.
    Gli strumenti per garantire un livello decente di meritocrazia ai concorsi esistono gia’. Perche’ non si afferma il principio per cui una pubblicazione e’ tanto migliore quanto piu’ alto e’ il suo indice di impatto? Perche’ si permette alle commissioni di valutare genericamente la bonta’ del lavoro di ricerca fatto? Perche’ capita che ai concorsi vincano soggetti che hanno solo pubblicazioni a conferenze?? La classe dirigente universitaria ha gia’ ampiamente dimostrato di non saper creare un sistema competitivo e capace di crescere: perche’ le si garantisce ancora un’autonomia cosi’ ampia???

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