Dopo uno scandalo come Parmalat, è difficile presentarsi sui mercati finanziari internazionali senza una seria disciplina penale del falso in bilancio. E dunque bene ha fatto il Parlamento a rivedere il blando regime introdotto nel 2002. Ora però l’emendamento al testo di legge sul risparmio azzera la novità, salvo un inasprimento di pena nel caso di grave danno ai risparmiatori. Una scelta criticabile perché lancia il messaggio che la repressione delle frodi contabili non è una priorità in Italia. E perché accresce il costo del capitale per tutte le imprese italiane.
Quella di Parmalat è stata una delle maggiori frodi contabili della storia. Di fronte a uno scandalo del genere, è difficile per un paese presentarsi sui mercati finanziari internazionali senza una seria disciplina penale del falso in bilancio. Era dunque naturale che il Parlamento, nel riformare la disciplina dei mercati finanziari, per dimostrare una qualche capacità di reazione di fronte agli scandali, toccasse anche il blandissimo regime del falso in bilancio introdotto dal Governo nel 2002. In questi giorni, tuttavia il Governo ha deciso di lasciare tale disciplina sostanzialmente inalterata, limitandosi a prevedere un aggravamento di pena (fino a un massimo di sei anni) nel caso di “grave nocumento ai risparmiatori”.
Resta la “modica quantità”
Si tratta di una scelta criticabile, per l’impatto negativo che può avere sui mercati, dove le riforme post-scandali finanziari hanno soprattutto un valore simbolico: servono a dimostrare che un paese è in grado di imparare dai propri errori e non ha intenzione di ripeterli. E si tratta di una scelta che si rivela, forse, anche inutile. Se l’obiettivo recondito, ma a tutti noto, è quello di assicurare l’impunità a futuri imputati eccellenti, non è affatto detto che sia raggiunto: un falso in bilancio configura quasi sempre, nelle società quotate, anche una manipolazione del mercato, sanzionata abbastanza severamente a seguito del recepimento della direttiva sugli abusi di mercato.
Per meglio comprendere il senso di questa affermazione, ci si deve chiedere cosa rischia oggi l’amministratore di una società quotata che diffonde sul mercato un bilancio contenente informazioni o dati falsi. Sul piano penale, questa condotta rileva sia come falso in bilancio ai sensi degli articoli. 2621 o 2622 del codice civile (come modificati nel 2002), sia come manipolazione del mercato, ai sensi dellarticolo 185 del Testo unico della finanza.
In concreto, il rischio di essere punito per falso in bilancio è molto scarso, soprattutto perché il reato, la cui pena va dai sei mesi ai tre anni se commesso con danno ai soci o ai creditori, si prescrive in poco tempo. Mentre in assenza di danno il rischio è nullo, sempre a causa dei termini di prescrizione, ancora più brevi. Inoltre, la versione del falso in bilancio approvata nel 2002 contiene il concetto giornalisticamente noto come “modica quantità”, per cui falsità od omissioni che fanno variare il risultato economico di non più del 5 per cento o il patrimonio netto di meno dell’1 per cento non sono punibili.
Meno astratto è il rischio di subire una condanna per manipolazione del mercato, ossia per diffusione di notizie false: qui il termine di prescrizione è più lungo, perché la pena massima è stata portata nel maggio di quest’anno a sei anni (prima erano tre), e vi è il rischio anche di dover pagare una multa salata.
L’emendamento del Governo
Nell’ottobre scorso, il Senato approvò il disegno di legge sul risparmio in un testo che rendeva più severa la disciplina del falso in bilancio, portando la pena massima a sei anni, eliminando il requisito del danno ai soci o ai creditori e, soprattutto, il concetto di “modica quantità”.
Il Governo ha ora proposto un emendamento che, in sostanza, lascerebbe inalterata la disciplina del 2002, salvo prevedere un trattamento sanzionatorio più severo in caso di grave nocumento ai risparmiatori, che sussisterebbe quando sia stato danneggiato “un numero di risparmiatori superiore allo 0,1 per mille della popolazione risultante dall’ultimo censimento Istat, ovvero se (il danno) sia consistito nella distruzione o nella riduzione del valore di titoli di entità complessiva superiore allo 0,1 per mille del prodotto interno lordo”. Dunque, di fatto, la repressione del falso in bilancio resterebbe affidata esclusivamente alla disciplina dell’aggiotaggio, salve le ipotesi più eclatanti alla Parmalat.
Ma allora per quale motivo, il Governo si è tanto preoccupato del trattamento del falso in bilancio, fino al punto di porre la fiducia sul relativo emendamento, quando una qualche forma di repressione penale non simbolica, per le società quotate, è assicurata già dalla norma in materia di manipolazione del mercato?
Si possono ipotizzare almeno due ragioni. Per dimostrare una reazione agli scandali finanziari, un ritocco della disciplina del falso in bilancio era inevitabile, anche se nel frattempo era stata resa severa quella sulla manipolazione del mercato. Ma ciò non era di fatto possibile senza rivedere la disciplina sia per le società quotate sia per quelle non quotate, dal momento che il codice civile tratta perlopiù congiuntamente le due ipotesi. E la revisione del falso in bilancio delle società non quotate tocca, evidentemente, nervi scoperti e comunque incide su una platea di potenziali inquisiti assai più ampia.
In secondo luogo, non è del tutto chiaro quale sia il rapporto tra falso in bilancio e manipolazione del mercato. Senza entrare troppo nei dettagli tecnici, in un processo per aggiotaggio la pubblica accusa sosterrà che la pubblicazione di un bilancio falso comporta sia il reato di falso in bilancio sia quello di manipolazione del mercato (con la conseguenza che la pena applicabile è quella per la manipolazione, aumentata fino al triplo). Ma l’avvocato dell’amministratore sosterrà al contrario che la disciplina del falso in bilancio è speciale rispetto a quella dell’aggiotaggio e che dunque, si applica la prima e non la seconda: le sue chance di ottenere un’assoluzione sarebbero allora, evidentemente, assai maggiori. Dunque, fino a che la giurisprudenza non chiarisce questa incertezza sul rapporto tra i due reati, una disciplina blanda del falso in bilancio può tuttora fare comodo a imputati presenti e futuri.
In conclusione, anche in presenza del reato di manipolazione del mercato, mantenere lo status quo sul falso in bilancio giova a chi abbia motivo di temere, un giorno, di finire sul banco degli imputati con laccusa di aver diffuso notizie e bilanci falsi. Ma la scelta del Governo è criticabile per la semplice ragione che lancia al mercato il messaggio per cui la repressione delle frodi contabili, neppure dopo Cirio, Parmalat e Banca Popolare di Lodi, è una priorità in questo paese.
E lancia un pessimo segnale ai mercati anche da un diverso punto di vista. Spesso dietro alle frodi contabili si nascondono fenomeni di arricchimento dei soci di controllo a danno degli azionisti di minoranza e la repressione del falso in bilancio è un modo per dissuadere simili comportamenti, è chiaro quindi che il mercato non potrà che continuare a scontare anche una modica quantità di furti ai danni degli investitori quando dà un prezzo alle azioni di società quotate italiane. Questo sconto da “espropriazione” a danno delle minoranze, presumibilmente, sarà spalmato su tutte le società italiane: su quelle rette da manager e soci di controllo onesti come su quelle il cui socio di maggioranza sia avido e senza scrupoli. Con il bel risultato di accrescere il costo del capitale per tutte le imprese italiane che vogliano aprirsi ai mercati dei capitali e di rendere conveniente laccesso a questi ultimi soltanto a chi miri a espropriare, in quantità più o meno modica, gli investitori.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Federico Parmeggiani
Effettivamente c’è di che scandalizzarsi nel constatare quanto poco sia stato fatto per accrescere la stabilità del mercato e la deterrenza del diritto penale societario all’indomani del più grande scandalo finanziario degli ultimi anni. Desta ancor più sorpresa se si confrontano le pene previste dalla legislazione italiana con quelle del sarbanes-oxley act emanato all’indomani del caso enron. Del resto non c’è molto da stupirsi di ciò se per un istante si medita sul costante e patologico ritardo proprio del nostro diritto dei mercati finanziari rispetto a quello degli altri paesi a capitalismo avanzato, soprattutto in una prospettiva di enforcement e di repressione degli illeciti. Prima della riforma sul market abuse chi integrava una condotta di insider trading (magari guadagnandoci milioni di euro) poteva agevolmente monetizzare la propria pena detentiva, facendo scadere la sanzione pecuniaria conseguente a mera voce di rischio. Siamo il paese che fino all’anno trascorso non conosceva condotte illecite complesse quali lo “scalping” ed ancora oggi fa molta fatica ad inquadrarle compiutamente nel suo corpus legislativo.
Tale quadro è reso ancor meno esaltante se si considera la tendenziale difficoltà che incontra lo sstrumento della sanzione penale e la procedura ad esso connessa a dispiegare una deterrenza incisiva e soprattutto immediata. Tant’è che molti altri ordinamenti le attribuiscono un raggio d’azione limitato ai soli casi più gravi ed eclatanti. In questa poco edificante cornice, dal momento che l’aggiornamento di una legislazione penale in Italia conosce tempi generalmente biblici (e quando non li conosce spesso è peggio), l’unica speranza residua consiste nel potenziamento delle autorità di vigilanza, del loro apparato di enforcement ed in particolare della loro facoltà (allo stato ancora embrionale) di potere irrogare direttamente sanzioni di carattere amministrativo per gli illeciti inerenti ai mercati finanziari. Speranza tenue ma realizzabile.
Marco Solferini
Premesso che sono compeltamente d’accordo con quanto l’Autore del testo ha riportato, centrando in piena sintesi un nodo cruciale dell’evoluzione della finanza capitalistica Italiana, ma l’interrogativo più concreto sarebbe, a mio profano avviso: “come mai se un pool di economisti e giuristi è in grado, attraverso un project work, di identificare le linee portanti delle fratture del sistema e di proporre valide alternative di riforma, codeste non sopraggiungono, dall’apparato legislativo, inteso non come maggioranza di Governo a scopo politico elettorale, ma come Istituzione, a ritroso nel tempo finanché a un prevedibile prossimo futuro?” Ciò che è veramente scandaloso non alberga unicamente nei grandi nomi della finanza post crack finanziari, ma anche nel più piccolo dove (vedasi Nuovo Mercato) non sono mancate situazioni agli antipodi con il concetto di legalità. Spesso si svolgevano e continuano a svolgersi alla luce del giorno, quasi come un dogma di predestinazione. Il nostro Paese applica rigorosamente la logica del social network (innumerevoli periodici economici europei hanno pubblicato si questo aspetto) nell’allocazione delle poltrone nei cda, questa logica che di per sè, quantunque da molti criticata, anche con autorevolezza, per certi versi, non è a mio avviso condannabile in toto “senza ma e senza se” nell’ottica di salvaguardare la stabilità di un certo mercato, ma ha inevitabilmente delegittimato una parte del potere legislativo arrivando a influenzarlo. Il Parlamento Europeo, nella Direttiva sul Market Abuse, ha delegato importanti funzioni a due comitati di tecnici, esterni all’apparato legiferante, la mia domanda è: non è possibile, proponibile, auspicabile e meritorio fare altrettanto in Italia?
Michele
Il problema principale del quale non si parla mai non è tanto l’entità delle pene o il fatto che alcuni reati non siano perseguibili d’ufficio, ma il fatto che la maggior parte vanno in prescrizione perchè con la nuova legge sono stati ridotti i tempi per la prescrizione e, visti i tempi ridotti, i tribunali non fanno quasi mai in tempo ad emettere una sentenza.