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L’occupazione dopo la legge Biagi

La legge Biagi ha modificato gran parte della legislazione sul lavoro. Ora si pone la questione se alla mera regolazione delle diverse fattispecie contrattuali, non debba affiancarsi un intervento di riordino delle aliquote contributive, la chiave per contrastare la cosiddetta “fuga dal rapporto di lavoro standard”. La stessa discrasia tra contratti a termine e a tempo indeterminato potrebbe ridursi immaginando meccanismi d’indennizzo monetario per l’interruzione del rapporto di lavoro. Forse è arrivato il momento di pensare al sempre rinviato Statuto dei lavori.

La legge Biagi ha investito e modificato gran parte della legislazione sul lavoro. Lo ha fatto attraverso interventi definiti a carattere sperimentale; si sanciva perciò un approccio al monitoraggio delle politiche, che però è poi rimasto inattuato, prima vittima del clima di scontro politico-ideologico. La norma è stata così osannata o rigettata, ma sempre con scarsa attenzione ai molti aspetti di dettaglio, e, soprattutto, alla forte continuità con le riforme precedenti.
Erano in continuità col passato gli interventi sui servizi per l’impiego e sull’intermediazione nel mercato, ove si accentuava l’apertura ai privati assieme al decentramento di competenze dallo Stato alle Regioni e a un (auspicato) “orientamento al servizio” delle strutture pubbliche. Lo erano gli interventi sulle fattispecie contrattuali, ché si accrescevano i margini di flessibilità per le imprese in taluni specifici contratti “atipici” (ma , nel caso delle collaborazioni “a progetto”, anche con interventi di segno opposto). Si rimandava però al futuro il completamento delle flessibilità “al margine” via via introdotte, rafforzando gli ammortizzatori sociali e sistematizzando regole e tutele col cosiddetto Statuto dei lavori.

La continuità col passato

Il legame col passato non è di per sé cosa buona o cattiva. Nel caso degli interventi sui servizi per l’impiego, le cose che meno convincono non sono tanto nelle novità quanto nei tratti di continuità: in un mercato in cui ormai lecitamente operano gli operatori privati, sarebbe da meglio specificare la mission dell’intervento pubblico, soprattutto nella prospettiva di un rafforzamento degli ammortizzatori sociali che però tenga sotto controllo abusi e spesa. E maggiore attenzione andrebbe prestata alla contendibilità del mercato dei servizi, evitando commistioni pubblico-privato e poco trasparenti cessioni di prerogative pubbliche. (1)
Ma cosa si sa sulle fattispecie contrattuali al di là delle futili polemiche sul loro numero? Purtroppo poco, perché il monitoraggio non è partito e le stesse rilevazioni Istat sulle forze di lavoro sono state interessate da una profonda discontinuità tra 2003 e 2004; comunque, non consentono di guardare alle singole fattispecie contrattuali. (2)

L’apprendistato

Il ricorso all’apprendistato (quello cosiddetto professionalizzante) sta crescendo, in linea con l’ampliamento della platea copribile. La crescita è però lenta, anche per incertezze regolative, ché la legge nazionale rimandava a interventi tanto delle Regioni che delle parti sociali. Solo poche Regioni sono intervenute in proposito, e tra le cinque che lo hanno fatto sembrano emergere modelli parzialmente diversi. Il discrimine è con quanta forza venga sottolineato il ruolo della formazione esterna regolata a livello regionale. Spesso è però una formazione piuttosto autoreferenziale e finisce quindi col rappresentare semplicemente una remora all’(ab)uso dell’apprendistato come mero contratto non permanente e con sgravio contributivo. Il pacchetto Treu nel 1997 aveva allargato la platea di ricorso all’apprendistato, sancendo, però, un principio di necessaria presenza di attività formative formalizzate ed esterne: alla fine, pur se gradualmente, ne risultò soprattutto un semplice ampliamento degli sgravi contributivi.
L’incertezza regolativa di oggi, figlia anche della contrapposizione ideologica e istituzionale, è senz’altro un male. Ma sarebbe un male anche una deriva in cui la formazione esterna, che non è priva di costi, sia un vincolo alle scelte aziendali. D’altra parte, è dubbio che sia da considerare un bene quell’ampliamento tout court dell’apprendistato come sgravio contributivo che gradualmente è plausibile emerga. Il problema è in effetti nell’impostazione tradizionale del sistema, che non è stata toccata dalla legge Biagi: l’incentivazione contributiva copre fasce piuttosto ampie e anziché “premiare” l’investimento in capitale umano, formale o informale, esterno o interno all’impresa, la regolazione cerca di controllare l’input formativo e fissare le condizioni di esperibilità del contratto. (3)

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Il contratto di inserimento

Nuovi gruppi, diversi dai giovani, sono inseriti nell’area degli incentivi all’occupazione con lo strumento dei contratti di inserimento . Le informazioni sono ferme alla fine del 2004: tre quarti dei circa 25mila contratti di inserimento censiti all’epoca riguardavano giovani sino a 29 anni (non coperti da sgravio contributivo), mentre i restanti (coperti da sgravi) si suddividevano soprattutto tra lavoratori con più di 50 anni e donne. Per queste ultime, il posponimento dei decreti attuativi, usciti da poche settimane, ha presumibilmente accresciuto l’incertezza normativa e frenato il ricorso allo strumento.
Il ritardo deriva dall’aspra polemica che addebitava al legislatore la riconduzione delle donne in quanto tali a un ambito contrattuale sub-standard. A mio avviso, la polemica era mal posta, perché la legge fa riferimento alle donne prive di impiego in aree in cui la performance del mercato del lavoro femminile sia deludente e non alle donne in quanto tali. Ciò detto, poco felici sono i criteri d’identificazione delle aree e, soprattutto, effettivamente problematico può essere l’uso di forme contrattuali sub-standard per favorire l’accesso al lavoro a fronte di uno status, quale quello di donna, che temporaneo non è. Lo spostamento della domanda di lavoro verso contratti sub-standard, pur se innalza la domanda di lavoro complessiva, accentua infatti i rischi di precarizzazione. Limitarli richiederebbe non tanto di ridurre la convenienza per le imprese al ricorso allo schema derogatorio, come è stato fatto con interventi correttivi nel 2005, quanto precisare meglio le condizioni, temporanee, che giustifichino il ricorso alle deroghe. Più che la donna in quanto tale, un utile riferimento potrebbe essere la donna che per una propria temporanea situazione – per esempio la presenza di figli sotto una certa soglia di età – oltre che per lo stato occupazionale e le condizioni del mercato locale del lavoro, abbia particolari difficoltà a rientrare nel mercato.

Il part-time

In tema di part-time il legislatore ha ampliato la flessibilità a beneficio dell’impresa nel presupposto che le rigidità del regime orario ne limitassero la domanda. E la scarsa disponibilità di posti di lavoro part-time, a sua volta, avrebbe potuto poi limitare la stessa offerta di lavoro, in particolare femminile. La contrattazione collettiva è spesso intervenuta, ma non sempre recependo a pieno i margini di flessibilità ulteriore a beneficio delle imprese. Il dato è però di ambigua interpretazione: potrebbe al tempo stesso indicare uno scarso interesse delle imprese alle flessibilità fornite dal legislatore, ma anche una certa resistenza opposta, almeno sinora, dalle organizzazioni sindacali. Inoltre, è da sottolineare che la legge prevede margini per intese “flessibili” determinate direttamente dal singolo datore e dal singolo lavoratore.
Il dato stimato per il 2004 dall’Istat per l’occupazione part-time era più alto di quello del 2003. La differenza è però ascrivibile in primis alle novità dell’indagine che meglio coglie le prestazioni con orari ridotti. Nel confronto su dati omogenei, il primo semestre del 2005 evidenzia una crescita del part-time del 2,2 per cento (dal 12,8 al 13,0 per cento dell’occupazione totale). Da guardare è anche il dato sul part-time cosiddetto involontario. Il rischio d’un intervento a favore delle flessibilità d’impresa è che i lavoratori (e le lavoratrici) finiscano col peggio coniugare famiglia e lavoro: i maggiori posti di lavoro part-time potrebbero sì esser creati, ma solo a beneficio di individui che non riescano a trovar altro. In effetti, l’aumento del part-time totale nel 2005 è addebitabile a quello “involontario” che passa dal 34 al 38 per cento del totale. Pur dovendosi meglio considerare il peso di svariati fattori congiunturali, sembrerebbe quindi che la riforma crei più lavoro part-time, ma di minore “qualità”: un bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno a seconda dei punti di vista. La cosa certa è che il part-time è un’area dove gli effetti della legge Biagi sono potenzialmente importanti. Più che esaltare o demonizzare l’intervento normativo, sarebbe forse opportuno agire anche sul lato dell’offerta di lavoro, considerando le questioni della conciliazione tra lavoro e vita familiare e dell’imposizione fiscale nell’ambito della famiglia.

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Le co.co.co.

Sulle collaborazioni coordinate e continuative, la legge Biagi ha invece limitato le flessibilità per l’impresa.

La necessità di dover individuare un progetto, e la sua non replicabilità nel tempo, è un potenziale condizionamento nel ricorso a questa fattispecie. La logica è per certi aspetti quella adoperata nella regolazione del lavoro a tempo determinato. Cosa è avvenuto in concreto? I dati Istat evidenziano una lievissima flessione tra primo semestre del 2004 e primo semestre del 2005, da 493 a 472mila soggetti. Prime evidenze (su dati Inail), mostrano inoltre molte riconversioni delle collaborazioni preesistenti in nuove, presumibilmente a progetto, anche con lo stesso committente. È quindi iniziato un adeguamento, quanto meno formale, alla normativa, nonostante la presenza d’un regime transitorio sino a tutto l’ottobre 2005. Significative sono anche le riconversioni verso il lavoro dipendente, un fenomeno però non nuovo, ché già da prima la condizione di collaboratore spesso era una via d’accesso al lavoro subordinato. La considerazione che si può fare è che l’intervento, di contrasto degli abusi estremi, non ha indebolito la domanda di lavoro e l’occupazione (regolari) come da taluni paventato. L’impressione è che le imprese riescano a vivere coi nuovi vincoli (così come vivono con i limiti che regolano il ricorso al lavoro a termine).
La vicenda solleva però il quesito più generale se alla mera regolazione, permissiva o restrittiva che sia, delle condizioni di utilizzabilità delle diverse fattispecie contrattuali, non debba preferirsi, o quanto meno affiancarsi, un intervento di riordino delle aliquote contributive. È forse qui la chiave per contrastare la cosiddetta “fuga dal rapporto di lavoro standard”. Anche nell’ambito del lavoro subordinato, l’obiettivo di stabilizzare i rapporti di lavoro è perseguibile con maggior flessibilità operando sulle aliquote contributive ordinarie – recependo in termini assicurativi il maggior rischio di ricorso ai sussidi di disoccupazione insito nel lavoro a termine – che governando minuziosamente le condizioni di ricorso alle fattispecie atipiche. La stessa totale discrasia tra rapporti a termine e a tempo indeterminato potrebbe poi ridursi immaginando meccanismi d’indennizzo monetario in caso di interruzione d’un rapporto a tempo indeterminato.
Ma queste considerazioni appartengono al dibattito su quello Statuto dei lavori che tanto il pacchetto Treu quanto la legge Biagi implicitamente immaginavano dovesse far loro seguito. Chissà se quel momento è arrivato?

*L’autore è coordinatore del gruppo di lavoro interistituzionale per il monitoraggio delle politiche occupazionali e del lavoro presso il Ministero del Welfare.  Le opinioni qui espresse sono esclusivamente personali e non coinvolgono le Istituzioni di appartenenza.

(1) Non mi soffermo qui sui servizi per l’impiego, rimandando a un volume che uscirà nei prossimi mesi per “I tipi” de il Mulino. Nel libro sono trattati con maggiore profondità anche gli interventi sulle fattispecie contrattuali.
(2) I dati evidenziavano un progressivo deterioramento della performance occupazionale. Pur in un quadro di crescita labour intensive, prevalente da circa dieci anni, gli ultimi dati fanno venir meno l’abnorme disallineamento tra Pil e occupazione del biennio 2002-03. Dovendosi tener conto della performance economica complessiva non è però possibile usare il segno della dinamica occupazionale come metro di giudizio sulla legge Biagi.
(3) In quanto mero sgravio contributivo, l’apprendistato interessa tutti i giovani sino a 29 anni: un’accezione piuttosto estesa di gruppo con difficoltà occupazionali. Invece, si potrebbe riconoscere l’investimento in capitale umano graduando gli sgravi a favore delle imprese i cui apprendisti ex-post abbiano una buona performance occupazionale o si vedano certificate determinate competenze.

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Per un pugno di antivirali

  1. Giorgio Trenti

    E’ opportuno abolire la legge cosiddetta biagi e le altre consimili che hanno creato una pletora di intermediari fra datore e prestatore di lavoro.
    La legislazione vigente nel 1960 era ottima.
    Propongo un solo articolo nel codice civile che permetta ai 2 soggetti di regolare la durata e le modalità del rapporto di lavoro come meglio credono.
    L’incontro fra i 2 soggetti può avvenire gratis su internet.

  2. Mauro Marini

    Un aspetto che non sento mai trattare è quello della professionalità: credo che un imprenditore che utilizza molti contratti a progetto non intenda far crescere le persone con cui lavora, quindi non voglia investire (nemmeno la fiducia) nelle risorse umane. Il risultato è una grave svalutazione del lavoro con perdita di know-how e quindi, in una società che si muove sempre di più verso i servizi tecnologici, un generale impoverimento delle aziende.

    • La redazione

      Un problema di tutte le forme di lavoro cd precario è proprio nel ridotto incentivo ad investire nella relazione specifica, da parte del datore/committente e da parte del lavoratore. La soluzione non è pero nell’impedire certe trandsazioni, ma nel cercare di limitarle, o quantomeno nel cercare di favorirle con amliquote contributive ridotte. Questo è il senso delle considerazioni esposte nel mio contributo.

  3. Giovanni Prunella

    Vorrei innanzitutto rispondere a chi, senza un briciolo di riflessione, suggerisce di eliminare la più importante, e, di ccerto, in linea con i modelli europei, riforma sul mondo del lavoro:
    1) le nuove tipologie contrattuali,spesso venivano gia intraprese dalle aziende, ma in nero;
    2) con nuovi contratti modulati e a termine si da la possibilià alle aziende di conoscere bene chi si sta inserendo nel proprio sistema produttivo, e, se valido, di farlo cresre nella propria azienda, o in ogni modo,di far accumulare esperienza per un nuovo posto.
    3) i dati istat riferiti a questo 5ennio nn hanno dato in flessione l’occupazione a tempo indeterminato, di conseguenza non si registra un abuso “in negativo” di queste nuove tipologie contrattuali.

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