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Quale riforma per la legge Biagi

I contratti a tempo determinato rispondono a esigenze organizzative e funzionali reali delle imprese e hanno contribuito a un effettivo aumento dell’occupazione. Hanno però scaricato tutti i costi della flessibilità e della precarietà su una minoranza di lavoratori “al margine”, per lo più giovani. Tali differenze vanno eliminate. Ripensando contemporaneamente il contratto a tempo indeterminato. I periodi di prova potrebbero allungarsi e essere disciplinati liberamente dai contratti collettivi. E si dovrebbe prevedere una indennità economica di licenziamento.

I contratti “a tempo determinato” rispondono a esigenze organizzative e funzionali reali delle imprese e hanno contribuito a un effettivo aumento dell’occupazione. Un progetto di legge di riforma, quindi, non può solo limitarsi a cancellare o riorganizzare le tipologie di lavoro a tempo determinato, ma deve preoccuparsi di come soddisfare la necessaria flessibilità nell’organizzazione d’impresa. D’altra parte, questi contratti hanno scaricato tutti i costi della flessibilità e della precarietà su una minoranza di lavoratori “al margine”, approssimativamente due milioni, per lo più giovani, lasciando totalmente inalterate le prerogative e i diritti di altri venti milioni circa di persone impiegate a tempo indeterminato. In questo modo, l’introduzione dei contratti a tempo determinato ha creato una sostanziale differenza di condizioni di lavoro tra lavoratori di diverse età. Tali differenze vanno eliminate.

Oggi in Italia

In Italia, dal 1997 a oggi i contratti a tempo determinato di varia natura hanno dato occupazione a circa due milioni di lavoratori, il 10 per cento dell’occupazione totale e circa il 30 per cento delle nuove assunzioni. Tra i giovani dai 15 ai 29 anni, il 25 per cento degli occupati è a tempo determinato e il 50 per cento dei nuovi assunti lo scorso anno hanno un contratto a tempo determinato.
Quel che è più importante, nonostante le difficoltà di valutazione dell’esatto contributo occupazionale del lavoro a tempo determinato, la maggior parte degli economisti pensa che la buona performance dell’occupazione dal 1997 ad oggi (con Governi di centrosinistra e di centrodestra) non sarebbe stata possibile in loro assenza.
Vogliamo qui proporre una riforma del contratto di lavoro a tempo indeterminato. E lo facciamo partendo da un commento del progetto di legge di iniziativa popolare “contro il lavoro precario” promosso da parte dello schieramento di centrosinistra. (1)

Il progetto di legge “contro il lavoro precario”

Il progetto di legge di iniziativa popolare propone:
1) di estendere le tutele legali del lavoratore subordinato al “lavoratore economicamente dipendente”, cioè a chi, pur senza essere eterodiretto nella esecuzione della prestazione della propria attività manuale o intellettuale, si obblighi a prestarla “in via continuativa all’impresa, con destinazione esclusiva del risultato al datore di lavoro”;
2) di limitare il ricorso del lavoro subordinato a termine a ipotesi oggettive per rispondere a esigenze predeterminate nel tempo e di carattere straordinario od occasionale;
3) l’abrogazione dei nuovi tipi contrattuali del lavoro intermittente, del lavoro ripartito, del lavoro a progetto e del lavoro accessorio.

A nostro avviso queste proposte sono pienamente condivisibili.
Si deve abbandonare la strada della flessibilità “marginale” per superare le forme di lavoro subordinato “precario”.
Si deve abrogare quindi la disciplina di cui al decreto legislativo 368/2001 di contratti di lavoro subordinato a termine con requisiti causali indeterminati e senza limiti di durata massima e di rinnovazione, che è stata anche fonte di incertezza per le stesse imprese, per tornare a un sistema di requisiti causali oggettivi, giustificati da esigenze aziendali predeterminate nel tempo.
È opportuno altresì abrogare i nuovi tipi contrattuali che “parcellizzano” la prestazione del lavoratore senza neppure rispondere efficacemente alle esigenze di flessibilità dimensionale dell’impresa.
È inoltre condivisibile adottare una nuova nozione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato “standard”, che permetta di attribuire le tutele legali sinora destinate al solo lavoro subordinato anche a quei rapporti – ora tecnicamente qualificati di lavoro autonomo – che legano in modo continuativo il prestatore all’impresa quale parte necessaria della sua organizzazione, che non è semplicemente destinataria della loro prestazione, ma la internalizza nel proprio processo di produzione di beni o servizi. Ne consegue il superamento della disciplina del lavoro a progetto a causa della sostanziale impossibilità di adottare una definizione effettivamente selettiva di “progetto” e la riconduzione delle collaborazioni coordinate e continuative svolte e inserite organicamente nell’organizzazione produttiva (di beni o servizi) aziendali in modo stabile e duraturo alla disciplina legale del lavoro subordinato.
In sostanza, proponiamo una nuova e più chiara ripartizione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, in coerenza con le indicazioni della Corte di giustizia europea che li distingue non in relazione al tipo di vincolo rispetto al committente (se subordinazione e coordinamento), ma rispetto alla loro posizione sul mercato, identificando sostanzialmente il lavoratore autonomo con una “impresa individuale” capace di vendere a terzi un bene o un servizio (anche professionale o consulenziale). (2)
Tuttavia, a fronte dell’ampliamento dei destinatari della tutela legale del lavoro subordinato e alla riduzione delle possibilità di ricorrere a tipologie contrattuali di rapporti “a termine”, rileviamo che è necessario importare margini ragionevoli di flessibilità nel nuovo tipo di lavoro a tempo indeterminato “standard”, sia in entrata sia in uscita.

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Ripensare il contratto a tempo indeterminato

I contratti a tempo determinato hanno risposto a due esigenze delle imprese che meritano di essere ricomprese nel contratto di lavoro subordinato standard.
La prima è di avere periodi di prova più lunghi per valutare i lavoratori. L’economia moderna richiede mansioni più varie e complesse di venti anni fa e di conseguenza la valutazione dei lavoratori è una attività molto più importante, lunga e costosa. La seconda è l’esigenza di avere maggiori margini di flessibilità per ridurre i costi nel caso di condizioni di domanda debole. L’economia moderna è sottoposta a cambiamenti delle condizioni di domanda molto più frequenti di un tempo, e i risultati di impresa sono di conseguenza molto più variabili. La flessibilità in entrata può ottenersi in misura ragionevole attraverso periodi di prova più lunghi al momento dell’assunzione, disciplinati liberamente dai contratti collettivi (modificando il disposto dell’articolo 10 della legge n. 604/66) e – in difetto di accordo – graduati per legge da un minimo di tre mesi per le mansioni esecutive, di sei mesi per le mansioni cosiddette d’ordine, dodici mesi per mansioni cosiddette di concetto o di collaborazione con la direzione aziendale. (3) Nel caso in cui il datore di lavoro abbia interrotto il rapporto prima del termine del periodo di prova, il successivo rapporto di lavoro stipulato da quel datore con il medesimo lavoratore dovrà ritenersi immediatamente a tempo indeterminato.
La flessibilità in uscita può agevolarsi attraverso l’attribuzione al lavoratore alle dipendenze di un’impresa con più di quindici dipendenti di una “indennità economica di licenziamento”, che si aggiunge al periodo di preavviso. Questa indennità si applicherebbe solo in caso di licenziamenti individuali (e non collettivi) per giustificato motivo oggettivo (e non disciplinari). L’importo dell’indennità sarebbe predeterminato per legge (ad esempio tre mensilità di retribuzione lorda più una mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità di servizio) a carico del datore di lavoro nel caso in cui il lavoratore accetti il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il medesimo meccanismo di indennità è stato previsto in Germania dalla riforma Hartz del Governo social-democratico .
Con l’indennità di licenziamento, il lavoratore godrebbe di una tutela economica aggiuntiva per far fronte alla carenza di reddito nel tempo necessario alla ricerca di un nuovo lavoro e l’azienda avrebbe la certezza della definitiva risoluzione del rapporto. Qualora invece il lavoratore intenda contestare la legittimità del licenziamento, sarebbe comunque libero di impugnarlo giudizialmente, rimanendo inalterato rispetto alla disciplina attuale sia l’onere della prova della giustificatezza del licenziamento a carico del datore, sia il regime di reintegrazione e risarcimento del danno in caso di annullamento del licenziamento. Ciò significa che la disciplina sanzionatoria dettata dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non viene modificata, si interviene invece in una fase anteriore prevedendo un’opzione prevista per legge di indennizzo monetario per evitare il contenzioso.
Rimarrebbe invece del tutto invariato il regime di impugnativa e di tutela dei licenziamenti per giustificato motivo soggettivo (disciplinare) e dei licenziamenti collettivi.
Il meccanismo funzionerebbe in questo modo: all’atto del licenziamento per motivo oggettivo il datore di lavoro deve offrire al lavoratore l’indennità prevista per legge. Il lavoratore può non accettarla e impugnare davanti al giudice il licenziamento, ma in questo caso perde il diritto all’immediata erogazione dell’indennizzo, potendo invece ottenere in caso di accoglimento del suo ricorso in sede giudiziale la condanna del datore alla reintegra e al risarcimento del danno. (4)
Infine, occorre sottolineare che, sebbene condividiamo l’obiettivo di estendere le tutele legali del lavoro subordinato anche alle forme di collaborazione coordinata e continuativa, ciò non deve necessariamente significare l’automatica estensione a quest’ultime delle previsioni dei contratti collettivi sottoscritti per i lavoratori subordinati, soprattutto in materia di retribuzione minima, orario di lavoro, fruizione di permessi e ferie. Nel caso della nuova tipologia di lavoratori “coordinati”, cui si applicherebbe la disciplina legale del lavoro subordinato, il datore di lavoro rinuncia totalmente o parzialmente ad avvalersi dei poteri di eterodirezione e di variazione dei tempi, dei modi e del luogo della prestazione individuale. Ma questo non deve inibire per legge, come invece prevede la proposta sul lavoro precario, la possibilità della contrattazione collettiva di dettare una disciplina negoziale differenziata per i “coordinati” rispetto ai lavoratori subordinati in senso stretto. Ad esempio, tale disciplina negoziale deve poter prevedere minimi retributivi differenziati per i “coordinati”, anche in senso peggiorativo per compensare i minori obblighi e restrizioni cui sono soggetti nell’esecuzione della prestazione di lavoro. Ciò in analogia a quanto già oggi è previsto dal Ccnl dei giornalisti professionisti che differenzia la retribuzione tra coloro che lavorano stabilmente nella redazione e i collaboratori non vincolati all’osservanza di un orario di lavoro e alla presenza quotidiana in redazione, i quali a fronte di maggior autonomia personale accettano un sistema retributivo meno generoso.
Questa riforma non comporta alcun onere aggiuntivo per il bilancio pubblico e ci pare possa garantire una sostanziale semplificazione: il lavoro oggi considerato precario verrebbe ricondotto nell’ambito del lavoro subordinato e quest’ultimo reso un po’ più flessibile. Il sindacato potrebbe allargare la sfera di rappresentanza e di contrattazione anche ai lavoratori oggi esclusi. Il lavoro a tempo determinato rimarrebbe solo per requisiti causali determinati e giustificati da esigenze limitate nel tempo.

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(1) Il progetto di legge di iniziativa popolare “contro il lavoro precario”, primo firmatario Stefano Rodotà, è sostenuto dalla “sinistra” dei Democratici di sinistra. http://www.precariarestanca.it/proposta-di-legge/
(2) Vedi. M.Pallini (a cura), Il lavoro a progetto in Italia e in Europa, Mulino, 2006, di prossima uscita.
(3) Vedi T. Boeri- P. Garibaldi in lavoce.info
(4) L’accettazione dell’indennizzo dovrà essere sottoscritta dal lavoratore nelle forme rituali di cui all’art. 410 e 411 c.p.c. così che sia garantita l’assistenza di un rappresentante sindacale aziendale o del collegio di conciliazione che possano accertare la piena conoscenza del lavoratore dei propri diritti e delle conseguenze della sua scelta.

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Sommario 2 maggio 2006

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  1. Gianluca Cocco

    La proposta è condivisibile, ma parlare di maggiore uniformità di trattamento tra collaborazioni autonome e lavora subordinato non ha senso, dal momento che il ricorso alle prime trova una cospicua diffusione principalmente a causa del minor costo del lavoro cha caratterizza le stesse. Per cui si dovrebbe parlare direttamente di abolizione del lavoro a progetto e di collaborazioni riservate ai professionisti. Quanto alla flessibilità in uscita, la proposta ispirata al modello tedesco sarebbe auspicabile più per i lavoratori che per le imprese. Nel senso che appare, per queste ultime, molto più rigida del sistema attuale. I dati dicono che licenziare in Italia è tutt’altro che impossibile, salvo dimenticarsi i 2 milioni e mezzo di licenziamenti operati tra gli inizi degli anni novanta e i primi anni di questo secolo. Dicono che solo 2 lavoratori su 100 ricorrono al giudice invocando l’assenza di un giustificato motivo oggettivo e che più della metà di questi perdono la causa, soprattutto al Sud. Dicono, pertanto, che non è vero che la disciplina sui licenziamenti individuali è rigida. Per cui, prevedere un’indennità cospicua per i lavoratori che non impugnano il proprio licenziamento appare più costoso per le imprese e più vantaggioso per i lavoratori: se le imprese sono in grado di farsi carico in questo modo dei periodi di disoccupazione dei loro ex lavoratori ben venga questa proposta. Piuttosto è auspicabile estendere la tutela reale a tutti i lavoratori e soprattutto l’esercizio dei diritti sindacali.
    Saluti

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