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Che fondi per il fondo

Finora il Fondo monetario internazionale ha finanziato la sua attività di sorveglianza e assistenza tecnica con gli interessi sui prestiti ai paesi in difficoltà economica. Ovvero grazie alle crisi che per altro verso cerca di prevenire. E’ uno schema strutturalmente sbagliato e occorre trovarne uno nuovo che garantisca entrate stabili. Al di là delle diverse possibili soluzioni, il problema è politico: la comunità internazionale crede davvero nel bene pubblico della sorveglianza di un’istituzione multilaterale, e quanto è disposta a pagare per averla?

Gli ospedali svolgono due tipi d’attività. La prima è la cosiddetta medicina preventiva: i dottori effettuano visite di controllo e prescrivono esami per ridurre il rischio che i pazienti s’ammalino. La seconda attività consiste nella medicina curativa: gli ospedali eseguono terapie, spesso intrusive, e offrono cure costose, ad esempio interventi chirurgici, ai pazienti che si sono ammalati. Tanto più efficace è la medicina preventiva, tanto minore è l’esigenza di ricorrere alle terapie curative. Se la prevenzione fosse perfettamente efficace, le persone s’ammalerebbero più raramente: il mondo sarebbe un posto più felice – si vivrebbe più a lungo e in miglior salute – e più ricco – prevenire costa meno che curare.

L’Fmi come un ospedale

Immaginate ora che il Governo si svegli un bel giorno e decida che la medicina preventiva debba essere finanziata solamente con entrate derivanti dalle terapie curative o che ricevano un contributo statale solamente per queste. È chiaro che un tale schema di finanziamento non avrebbe senso: un’efficace attività preventiva finirebbe per ridurre le entrate degli ospedali, mettendoli alla fine nell’impossibilità materiale di offrire un qualsivoglia tipo di servizio. E i migliori nella medicina preventiva sarebbero i primi a chiudere i battenti.
Per quanto irrealistico possa sembrare l’esempio, questo schema di finanziamento è stato applicato per oltre sessanta anni alle attività del Fondo monetario internazionale.
Come l’ospedale, il Fondo espleta due tipi di attività. La prima (di carattere “preventivo”) consiste in controlli di routine delle economie dei suoi 184 membri: sono le analisi che riguardano le principali politiche macroeconomiche e strutturali, e la cosiddetta “assistenza tecnica”, le raccomandazioni più specifiche per paesi che affrontano riforme strutturali, quali ad esempio quelle fiscali, la regolamentazione e supervisione del sistema finanziario, la raccolta e dissemina d’informazioni statistiche. Questi servizi, con poche eccezioni quali l’assistenza tecnica ai paesi ricchi, sono forniti gratuitamente.
La seconda attività (di carattere “terapeutico”) consiste in programmi di prestito ai paesi che, fronteggiando difficoltà economiche, hanno bisogno sia di risorse finanziarie che di politiche di aggiustamento. Oggi le entrate correnti dell’Fmi provengono prevalentemente dagli interessi pagati dai paesi debitori. Se il Fondo non presta, le sue entrate si assottigliano fino a risultare insufficienti a coprire i costi operativi: gli stipendi degli economisti, le loro spese per ricerca e missioni, più il rendimento pagato ai paesi membri sulle loro “quote”, le risorse finanziarie che mettono a disposizione dell’Fmi.

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Alla ricerca di un nuovo business model

Negli ultimi decenni, questo business model non ha quasi mai generato tensioni nel bilancio dell’Fmi. Il numero di paesi bisognosi del suo supporto finanziario è stato sufficientemente ampio. Tuttavia, la percentuale di paesi membri con programmi e prestiti del Fondo si è ridotta nel tempo: è calata da circa il 23 per cento negli anni Sessanta, al 12 per cento negli anni Settanta, all’11 per cento negli anni Ottanta, all’8 per cento negli anni Novanta, fino al 5 per cento nell’ultimo quinquennio. (1) Il trend è stato parzialmente controbilanciato dall’aumento dell’ammontare medio dei prestiti, in modo particolare durante gli anni Novanta. Ciononostante, solo negli ultimi due anni il valore dei crediti esigibili si è ridotto da 55,4 a 19,2 milioni di Sdr (Diritti speciali di prelievo, il cui valore attuale è di circa 1,5 dollari statunitensi; vedi tabella 1). Il risultato è che il bilancio operativo del Fmi si è indebolito in modo significativo, con un deficit previsto per l’anno finanziario in corso di 59 milioni di Sdr (e un deficit tre volte maggiore previsto per il 2009). La posizione finanziaria e di liquidità dell’Fmi resta solida, grazie all’ingente livello di riserve. Ma se la domanda di prestiti rimanesse bassa nel medio-lungo periodo, il Fondo andrebbe incontro a crescenti difficoltà nel mantenere gli odierni elevati standard di sorveglianza, assistenza tecnica, raccomandazioni sulle politiche economiche e ricerca.
La domanda di prestiti del Fondo è ovviamente soggetta a diverse incertezze. In parte, la riduzione degli ultimi anni si spiega con fattori di carattere strutturale, quali la crescita del mercato internazionale dei capitali privati. Ma è dovuta anche, si può sperare, all’attività di medicina “preventiva” del Fondo. In particolare, dopo le crisi finanziarie degli anni Novanta, i Governi di molti paesi emergenti hanno adottato importanti riforme strutturali che hanno irrobustito l’economia e ne hanno ridotto la vulnerabilità a shock avversi. In più, hanno giocato fattori di carattere ciclico: la forte espansione dell’economia mondiale dal 2002 e i bassi tassi d’interesse hanno sospinto capitali verso le economie emergenti. Purtroppo, il clima favorevole non durerà per sempre: troppo spesso il ciclo economico è stato dato per morto e sepolto, e troppo spesso i mercati finanziari sono stati colti di sorpresa da una nuova crisi. (2) Perciò, è alquanto probabile che nuovi clienti si affaccino prima o poi agli sportelli del Fondo, facendone lievitare le entrate.
Ma il punto non è questo. Il punto è che la possibilità di finanziamento delle attività di carattere preventivo quali la sorveglianza e l’assistenza tecnica, non dovrebbe dipendere dal verificarsi o meno delle stesse crisi che si cerca di prevenire. Questo schema di finanziamento è strutturalmente sbagliato, e occorre trovarne uno nuovo che possa garantire entrate stabili alle attività di sorveglianza.
Ma quale schema adottare? Un primo passo nella direzione giusta è stata la creazione, recente, di un nuovo conto di investimento, finalizzato ad accrescere il rendimento di alcune delle attività finanziarie dell’Fmi. Misure di più ampia portata, come una maggiore flessibilità nelle decisioni di investimento finanziario o un sistema di versamenti annuali dei paesi membri, richiedono una modifica degli Articles of Agreement (cioè dello Statuto) dell’Fmi. Il 4 maggio, il managing director del Fmi ha istituito un “comitato di saggi”: ne fanno parte illustri esperti della comunità finanziaria internazionale, che hanno appunto il compito di fornire raccomandazioni su come garantire entrate stabili. (3)
Ma, al di là delle diverse possibili soluzioni tecniche, il problema, come suole dirsi, è politico, e si riduce a una semplice domanda: la comunità internazionale quanto crede nel bene pubblico della sorveglianza di un’istituzione multilaterale, e quanto è disposta a pagare per averla?

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(1) Questi dati non includono i paesi poveri (low income countries) perché i prestiti a loro destinati sono in parte contabilizzati separatamente dalle altre operazioni dell’Fmi, e il loro indebitamento è comunque piuttosto piccolo in termini assoluti. Non sono inclusi neppure i cosiddetti paesi “in transizione”, i quali sono responsabili dell’aumento temporaneo della percentuale di programmi del Fmi verificatosi durante i primi anni Novanta.
(2) Le recenti turbolenze sui mercati finanziari mondiali hanno, fra l’altro, aumentato il grado di incertezza sul proseguimento del ciclo favorevole attuale.
(3) Il comitato è composto da Andrew Crockett, presidente di JP Morgan Chase International, Mohamed El-Erian, presidente di Harvard Management Company, Alan Greenspan, ex chairman della Fed, Tito Mboweni, governatore della banca centrale del Sud Africa, Guillermo Ortiz, governatore della Banca del Messico, Hamad Al-Sayari, governatore della Saudi Arabian Monetary Agency, Jean-Claude Trichet, president of the Ecb, and Zhou Xiaochuan, governatore della banca centrale cinese.

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Sommario 27 giugno 2006

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  1. michele

    Si chiedono i due autori a proposito dei destini del FMI:
    “Ma, al di là delle diverse possibili soluzioni tecniche, il problema, come suole dirsi, è politico, e si riduce a una semplice domanda: la comunità internazionale quanto crede nel bene pubblico della sorveglianza di un’istituzione multilaterale, e quanto è disposta a pagare per averla?”
    La risposta è nei fatti, in quanto il FMI non si comporta diversamente da altre istituzioni internazionali (ad es. l’Onu) nelle quali le pressioni dei membri non hanno certo lo stesso peso.
    Non penso siano mai esistite – se non nella fantasia fervida di molti storici o di mistici della politica – istituzioni realmente multilaterali, ed è, anzi, semmai proprio la richiesta di una maggiore pluralità che va emergendo al seguito delle nuove dislocazioni di potenza che fa emergere la crisi delle istituzioni precedenti. Si moltiplicano, infatti, organismi di ogni sorta a geometria variabile, nei quali di volta in volta ogni protagonista cerca di giocare al meglio partite che, altrove, sarebbero perse. Luoghi che si configurano e riconfigurano secondo il momento.
    Penso che lo stesso FMI, più che ad esser riformato per divenire veramente un organismo di controllo o contrattazione multialterale, sia destinato a diventare uno dei tanti soggetti/luoghi di confronto/conflitto, probabilmente nemmeno il più importante nel suo ruolo che già oggi, a ben vedere, è concretamente alquanto ridimensionato, almeno quando non siano in questione gli affari di paesi piuttosto marginali.
    Le cose, insomma, si decidono dove è plausibile o anche solo ipotizzabile deciderle: e l’orizzonte del FMI non è più sufficientemente ampio, se non proforma.
    Esattamente, del resto, come l’Onu appena citato. E’ sempre per questo motivo che ci si può imbattere in G5, G7 e G8. dipende cosa si ritiene utile in un dato momento. Non esiste più il multilateralismo utopico di singole istituzioni, ma la loro moltiplicazione strumentale.

  2. Franco Oriti

    Occorre ormai dotare l’ONU e l’FMI di risorse proprie autonome (pr es. EUR 1 per ogni abitante delle terra) che permettono di intraprendere azioni ed adottare decisioni seconde le regole elementari della democrazia senza dover dipendere dalla volonta’ o meno di un determinato paese per il bene comune dell’intera umanita’.

  3. antonio gasperi

    a Bretton Woods un certo Keynes propose una sorta di moneta bancaria internazionale per venire incontro alle crisi di liquidità dei PVS (e allora anche l’europa poteva definirsi tale). la sua proposta non venne accettata e il FMI iniziò ad “operare” (la cura?) con i meccanismi descritti nell’articolo e cioè prestando ad interesse mezzi finanziari per le esigenze di breve periodo; questo portò alcuni paesi a crisi finanziarie che li costrinse a politiche “stabilizzatrici” anche più cruente di quelle che avrebbero potuto fare usando la “prevenzione”, che allora mi sembra si usasse poco. Poi eruppe sulla scena il mercato privato dei capitali internazionali nel quale i paesi a corto di denaro potevano indebitarsi a costi inferiori (ma a rischi superiori), rubando il mestiere di “cura” al FMI, che si mise finalmente a “prevenire”. Forse però era troppo tardi…

  4. antonio badalamenti

    Aldilà degli aspetti tecnici, risorse proprie o meno, mi chiedo quale sia la mission di questa importate istituzione. Se ,stando alle intenzioni del caro Keynes, l’obiettivo del Fondo è quello di evitare le crisi finanziarie nei PVS sostenendo la domanda nel BP, mi chiedo come è possibile che negli ultimi 10 anni ci siano state 2 (Est Asiatico e Argentina) delle più grandi crisi del dopoguerra (e sto considerando solamente più gravi)? Suggerirei la lettura del premio nobel J.Stiglitz (mi sembra si intotili ” in nemici della globalizzazione”) per comprendere meglio quale sia il reale problema di questa importante istituzione. La vera riforma delle istituzioni internazionali parte dall’alto ed è una questione prevalentemente politica.

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