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UNA LAUREA DI VALORE (LEGALE)

La laurea è la condizione necessaria per partecipare ad alcuni concorsi nel pubblico impiego e per accedere agli albi delle professioni regolamentate. Oltre a stabilire alcuni livelli minimi di inquadramento nel settore privato. Ma la selezione è sempre determinata da un mix tra valutazione degli studi e prove specifiche, più o meno formalizzate. Abolire il valore legale del titolo di studio significa ampliare la discrezionalità. Con effetti che possono essere tutt’altro che positivi. Anche la competitività tra atenei si può raggiungere con altri strumenti.
Riportiamo opinioni diverse, già espresse su queste pagine.

Una laurea di valore (legale), di Giunio Luzzatto

Molte delle polemiche relative al “valore legale” della laurea, e alla sua eventuale abolizione, si basano su una analisi errata, o comunque incompleta, del significato di tale termine.

Condizione necessaria, ma non sufficiente

La laurea è solo la condizione necessaria (e non sufficiente) per partecipare ad alcune selezioni concorsuali, o analoghe, nel pubblico impiego, nonché, nei casi delle professioni regolamentate, per accedere alle procedure di ammissione ai relativi albi. Nella contrattazione nazionale relativa all’impiego privato, inoltre, può essere presa in considerazione al fine di stabilire alcuni livelli minimi di inquadramento per chi ne è in possesso.
Di per sé, il valore legale è solo questo. Peraltro, spesso decreti o circolari (per il pubblico impiego) e normative degli ordini (per le professioni) sono andati ben oltre, attribuendo un peso determinante agli aspetti formali del titolo posseduto (la denominazione esatta, la votazione in centodecimi). La discussione deve allora, anzitutto, individuare queste forzature.
Tutte le procedure di assunzione combinano, comunque, una parte connessa al curricolo degli studi con una valutazione ad hoc, normativamente formalizzata (pubblico impiego e professioni) o determinata da regole interne (impiego privato). Quest’ultima è sempre presente, ed è per questo che il titolo di laurea non è mai condizione sufficiente. Variano, peraltro, il peso attribuito alle due parti e anche le modalità con le quali i risultati degli studi vengono considerati. Il discorso deve essere perciò molto articolato.
Ho parlato di risultati degli studi, e non di “titolo di studio”, perché le informazioni che si possono utilizzare sono molto più ampie che non la mera votazione di laurea. Si può considerare il peso che hanno avuto nel curricolo alcune aree di studio particolarmente rilevanti ai fini delle competenze richieste, nonché le specifiche valutazioni ottenute in tali aree; si può considerare il tempo impiegato; si può considerare la stessa votazione finale non in assoluto, ma comparativamente (confrontandola con il voto medio, o equivalentemente collocandola nei quartili relativi alla distribuzione delle votazioni).
Del tutto negativa è invece la specificazione troppo esclusiva della denominazione del titolo di laurea. Nel vecchio ordinamento le denominazioni erano introdotte legislativamente, e non si contano i casi in cui pressioni corporative hanno ottenuto “leggine” con nuove dizioni (attivate magari solo in una o in pochissime università), con la riserva di alcune funzioni ai laureati specifici; iniziava poi la trafila delle equipollenze. Nel nuovo ordinamento fa testo non la denominazione data dall’ateneo bensì la “classe”, ed è già meglio; la determinazione delle classi, peraltro, è dovuta quasi sempre alla volontà di caratterizzare aree accademiche, non profili professionali, sicché esse hanno in molti casi alti indici di sovrapposizione tra loro. La riserva di diritti ai laureati di una classe e non di un’altra è allora immotivata. Sia per il pubblico impiego, sia per le professioni regolamentate, la pretesa di specifiche denominazioni corrisponde alla volontà di chiudere corporativamente; la battaglia per aprire significa puntare all’ampliamento dei titoli ammessi.

Selezione senza il valore legale

La selezione, dunque, è sempre determinata da un mix tra (a) valutazione degli studi e (b) prove specifiche, più o meno formalizzate (elaborati scritti, test, colloqui, stage). La cancellazione del valore legale significherebbe che chiunque può presentarsi, sicché chi determina e valuta gli elementi (b) ha pieni poteri; gli effetti possono essere tutt’altro che positivi.
Si pensi al pubblico impiego. Leggine e contratti hanno spesso consentito che nei concorsi interni il titolo di studio fosse sostituito da anzianità di servizio. In altri casi, si sono stabilizzate posizioni precarie per le quali inizialmente non era stato richiesto il titolo. In altri ancora, senza giungere all’estremo dell’assenza del titolo, i bandi hanno fatto pesare poco (a), favorendo con (b) una ampia discrezionalità. In tutte queste situazioni la qualità dell’amministrazione non è certo migliorata.
L’idea di dare pieni poteri al clientelismo nell’assunzione nelle pubbliche amministrazioni e al corporativismo nell’accesso alle professioni deve perciò spaventare. Senza giungere agli estremi più deplorevoli, e considerando anche l’impiego privato, è comunque difficile ritenere che le informazioni acquisite tramite prove episodiche organizzate ad hoc o colloqui possano sostituire del tutto – anziché, come è sacrosanto, integrare – la ricchezza di valutazioni e la pluralità di giudici che sta dietro un curricolo di studi.
I sostenitori dell’abolizione del valore legale della laurea motivano la loro posizione, prevalentemente se non esclusivamente, con un richiamo alla competitività tra gli atenei: senza la rendita di posizione determinata dal valore legale, dicono, ci sarebbe un impulso a puntare sul livello, sulla qualità, per acquistare prestigio. L’obiettivo è più che apprezzabile, ma gli strumenti ai quali ricorrere sono altri: meccanismi di valutazione, procedure di accreditamento, parametri per il finanziamento.
Un contributo essenziale può derivare dalla trasparenza, dall’ampia pubblicità da dare agli esiti conseguiti dai laureati delle diverse sedi. Se AlmaLaurea fosse generalizzata alla totalità delle università italiane, e tutti sapessero quali sono i risultati raggiunti dai laureati dell’ateneo A o dell’ateneo B, della classe di laurea X o di quella Y, si avrebbe uno stimolo non solo alla competitività, ma anche a un migliore orientamento dei giovani: obiettivo importante altrettanto, e forse più.
Quanto qui si è detto richiede non facili slogan, ma una strategia coerente e impegnativa. Ancora una volta, vale la battuta secondo la quale si possono anche ipotizzare soluzioni semplici per i problemi complessi, ma si tratta abitualmente di ipotesi stupide.

La legge Moratti non cambia l’università, di Pietro Reichlin

Il disegno di legge sull’università approvato dal Senato (a) introduce concorsi nazionali d’idoneità per professore associato e ordinario, (b) obbliga le università a ricoprire i posti di ruolo mediante chiamata di idonei con procedura localmente determinata e pubblicità degli atti, (c) obbliga ogni professore a insegnare almeno 120 ore l’anno, (d) consente alle università di dotarsi di un corpo docente composto di non idonei (giovani ricercatori o soggetti qualificati) mediante contratti triennali di diritto privato rinnovabili di durata fino a un massimo di sei anni, (e) abolisce il ruolo di ricercatore a decorrere dal 2013.

Un risultato deludente

Gli incentivi per migliorare la qualità della ricerca e della didattica sono carenti. Una precedente versione del decreto prevedeva l’istituzione di un sistema nazionale di valutazione dei docenti, incluso il blocco della progressione di carriera per chi fosse valutato negativamente. Questa parte è assente nel Ddl approvato dal Senato.
Si persevera in un atteggiamento discriminatorio nei confronti dei giovani e degli esterni, istituendo (nel comma 4 sub b) concorsi riservati ai professori con più di quindici anni di servizio.
Si fa poco per garantire una retribuzione adeguata a chi accede alla carriera accademica. Molti giovani sono giustamente preoccupati che l’introduzione dei contratti di diritto privato, al posto dell’assunzione con contratto pubblico, significhi abbassare i livelli retributivi e aumentare i rischi per chi scegli la carriera accademica. Da questo punto di vista, il disegno di legge non offre assicurazioni. In esso è detto che “(…) il trattamento economico di tali contratti, rapportato a quello degli attuali ricercatori confermati, è determinato da ciascuna università nei limiti delle compatibilità di bilancio e tenuto conto dei criteri generali definiti con decreto del Miur, di concerto con il ministero dell’Economia e delle finanze, sentito il ministro della Funzione pubblica”. Non è chiaro quali siano i margini di autonomia degli atenei nella determinazione del trattamento economico dei contrattisti.
Si propone il ritorno al concorso nazionale, sia pure nella diversa formulazione di “concorso per idoneità”, con il rischio di rendere lente e farraginose le procedure per l’immissione in ruolo. La soppressione degli attuali meccanismi concorsuali era assolutamente necessaria. Essi hanno causato una promozione generalizzata dei docenti alle fasce superiori (da ricercatore ad associato e da associato a ordinario) mediante accordi poco trasparenti tra commissari. Tuttavia, il ministro avrebbe fatto meglio a concedere completa autonomia agli atenei sulle assunzioni in ruolo, cercando, nel frattempo, di condizionare i finanziamenti ministeriali a severi criteri qualitativi basati sulla produzione scientifica e sulla didattica. L’esempio del Regno Unito poteva offrire spunti interessanti.

Le cose da fare urgentemente

La verità è che le leggi nazionali servono a poco. La crisi dell’università italiana (scarsa produttività scientifica, basso numero di laureati e alti tassi di abbandono, distribuzione inefficiente dei docenti tra sedi e discipline, invecchiamento progressivo di professori e ricercatori, progressioni automatiche di carriera) dipende dalla mancanza di incentivi e da una mentalità assistenziale. Quest’ultima è alimentata dal valore legale della laurea, dalla dipendenza finanziaria degli atenei e dai troppi vincoli legislativi.
Il Governo avrebbe dovuto puntare su pochi obiettivi fondamentali: (a) eliminare i tetti alle tasse di iscrizione costringendo gli atenei a reperire più fondi sul mercato; (b) compensare questa misura con l’introduzione di borse di studio (o “voucher”) basate sul merito e sul reddito; (c) determinare i finanziamenti alle università sulla base di parametri di produttività ed efficienza; (d) abolire il valore legale della laurea; (e) concedere agli atenei completa autonomia in merito ai trattamenti retributivi e ai criteri di assunzione.

Critiche sbagliate

Se il Ddl Moratti delude, non meno deludente è la reazione del corpo accademico.
La Conferenza dei rettori (Crui) si oppone strenuamente a questa legge, insieme alle associazioni dei ricercatori e ai sindacati. Si afferma, principalmente, che il ruolo di ricercatore non dovrebbe essere soppresso, che il ricorso a contratti di diritto privato a tempo determinato produrrebbe uno scadimento della qualità della ricerca o dell’insegnamento e si chiedono a gran voce l’introduzione di una terza fascia di docenza e “adeguati finanziamenti”.
L’introduzione di una terza fascia di docenza non risolve alcun problema. Al contrario, la soppressione del ruolo di ricercatore dovrebbe essere accolta con favore. Infatti, l’assunzione a tempo indeterminato (il posto a vita) per chi deve ancora dimostrare capacità di ricerca e non è sottoposto ai “normali” obblighi didattici, è un’anomalia assoluta nel panorama internazionale. Un periodo di prova per i neo assunti, prima di una stabilizzazione definitiva, è prassi comune in qualunque settore economico e in qualunque università del mondo.
Le garanzie offerte dal contratto pubblico a tempo indeterminato ha l’effetto perverso di fornire un alibi alle commissioni di concorso per favorire i candidati anziani. Dato che i contratti dei ricercatori non hanno termine, non “costa” molto bocciare un giovane ricercatore bravo in cambio della promozione di un ricercatore anziano e meno bravo. Infatti, il ricercatore bravo, proprio perché giovane, potrà sempre aspettare il prossimo concorso e godere, nel frattempo, degli aumenti automatici di stipendio. Tutto ciò implica fatalmente l’aumento dell’età media dei ricercatori e la scarsità di posti per i giovani. Secondo i dati del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, nel 2001 il 47 per cento dei ricercatori aveva più di quarantacinque anni. Molti di essi svolgono una pesante attività didattica nella speranza di ottenere una promozione, molti altri (generalmente i più anziani) non hanno più ambizioni di carriera e frequentano poco le aule universitarie. In entrambi i casi è palesemente tradito lo spirito della legge che istituiva la figura del ricercatore. Quest’ultimo doveva essere giovane, prevalentemente impegnato nella ricerca e in transito verso lo stato di professore universitario.
Inoltre, siamo proprio sicuri che i nostri organi accademici abbiano a cuore la valorizzazione e la permanenza della figura del ricercatore? Tra il 1998 e il 2004, la quota dei ricercatori è passata dal 40,1 al 37,2 per cento, mentre la quota dei professori di prima fascia dal 24,9 al 31,2 per cento. In termini assoluti, dal 1999 al 2003 il numero di professori di prima fascia è aumentato del 39 per cento. Il 90 per cento di queste promozioni sono avvenute “in sede”, cioè hanno riguardato docenti che erano associati nella stessa università dove sono diventati ordinari. Ciò vuol dire che le promozioni non hanno dato luogo all’offerta di corsi aggiuntivi e non erano motivate dalla necessità di migliorare la produzione scientifica. In altre parole, i rettori hanno colpevolmente utilizzato la propria autonomia per accontentare i docenti dei propri atenei chiudendo le porte a chi sta fuori.

Chiedere più soldi?

In Italia lo Stato spende, per gli studi universitari, una quota del Pil inferiore alla media dei paesi Ocse. Tuttavia, un esame attento dei dati rivela che i problemi dell’università italiana non derivano dalla mancanza di fondi.
Innanzitutto, bisogna notare che la spesa per studente (per la formazione universitaria) in Italia è solo leggermente inferiore a quella di altri paesi Ocse, dove la qualità della formazione e della ricerca è senza dubbio superiore. Secondo i dati Ocse del 2003, l’Italia spende circa 8mila dollari contro gli 8.300 della Francia, i 9.600 del Regno Unito e i 10.800 della Germania (valori espressi in parità di potere d’acquisto).
In secondo luogo, l’Italia spende male. La spesa totale per l’istruzione universitaria per ogni laureato nel 2001 era pari a 55.964 euro in Italia, contro i 26.937 della Francia e i 30.072 del Regno Unito. Nello stesso anno, la spesa per ogni dieci pubblicazioni scientifiche era pari a 36.878 in Italia, contro i 32.397 della Francia e i 27.573 del regno Unito. Una riforma del sistema universitario italiano dovrebbe dunque partire dal riconoscimento che non si tratta di aumentare i finanziamenti, quanto rifondare i meccanismi organizzativi.
La morale di questa storia è che la gestione autonoma delle risorse da parte degli atenei è principalmente guidata da interessi corporativi. I senati accademici e i consigli di facoltà, organi perfettamente democratici ed elettivi, rispondono principalmente agli interessi dei professori universitari, e le decisioni non sono disciplinate da criteri di efficienza.
Il disegno di legge Moratti fa poco per risolvere questo problema, ma i documenti della Crui sembrano ignorare totalmente la questione.

Le Retribuzioni Perverse dell’Universita’ Italiana, di Andrea Ichino, Roberto Perotti, Giovanni Peri e Stefano Gagliarducci

La “fuga dei cervelli” dall’Italia ha recentemente trovato spazio nelle prime pagine dei quotidiani ed è stata ampiamente confermata da numerose analisi statistiche. Tuttavia, ciò che forse dovrebbe fare riflettere maggiormente è che quasi nessun ricercatore straniero è attratto dal nostro paese. Nei corsi di Dottorato Italiani soltanto il 2% degli studenti proviene dall’estero e, in tutto, meno di 3,500 persone provenienti da altri paesi dell’Unione Europea lavorano nel settore scientifico-tecnologico in Italia. Nel Regno Unito (e risultati simili valgono per altri paesi europei) il 35% degli studenti nei corsi di Ph.D. sono stranieri e piu’ di 42,000 cittadini della U.E. (non Britannici) lavorano come ricercatori in quel paese.
Il nostro obiettivo in questo contributo (che si basa su Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti, 2005) e’ di illustrare tre punti fondamentali. Primo, mostrare che – contrariamente ad una interpretazione diffusa – un’ analisi corretta dei dati bibliometrici rivela che la qualita’ della produzione scientifica Italiana e’ modesta. Secondo, discutere come l’attuale sistema di remunerazioni e carriere induca incentivi sbagliati e allontani i “talenti”. Terzo, formulare una proposta di riforma a costo zero che modifichi profondamente il sistema di incentivi attuali.

Produttivita’ Scientifica dei Ricercatori Italiani

La prima e la seconda colonna della Tavola 1 mostrano il numero medio di pubblicazioni e di citazioni per ricercatore (nei settori di Scienza e Ingegneria) durante il periodo 1997-2001 (i dati sul numero dei ricercatori si riferiscono al 1999). L’Italia risulterebbe avere un rapporto “pubblicazioni / ricercatore” e “citazioni / ricercatore” tra i piu’ alti in assoluto (si vedano le colonne 1 e 2 della Tavola 1). Questi risultati, apparentemente incoraggianti, sono stati ampiamente citati nella stampa italiana, in particolare nella risposta del ministro Moratti ad un articolo di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 22 Novembre 2004. C’è tuttavia qualcosa di strano in questi dati: gli Stati Uniti appaiono agli ultimi posti di questa classifica – un risultato assai implausibile. Il mistero è facilmente svelato: la definizione di ricercatore include una varietà di figure professionali, ma le pubblicazioni scientifiche provengono per la maggior parte da una sola di queste figure: i ricercatori accademici. Essi sono una maggioranza nei paesi sud europei inclusa l’ Italia, ma sono una minoranza (e molto piccola negli Stati Uniti) in quasi tutti gli altri paesi. Quando al denominatore usiamo i ricercatori accademici l’Italia ha rapporti “pubblicazioni / ricercatore” (colonna 4) e “citazione / ricercatore” (colonna 5) ben inferiori agli USA, ma anche a Regno Unito, Olanda e Danimarca.
Una misura della qualità, anziché della quantità, di pubblicazioni è data dal loro fattore di impatto, cioè dal numero di citazioni che essa riceve. La colonna 6 della Tabella 1 mostra il numero medio di citazioni per lavoro pubblicato nel periodo 1997-2001. L’Italia ha un valore simile alla Francia, e superiore solo a Spagna e Portogallo.

Retribuzioni

Il sistema retributivo italiano ha tre caratteristiche. Primo, la progressione retributiva dipende quasi esclusivamente dall’ anzianità di servizio: all’interno di ciascuna categoria di docenza (Ricercatore, Associato, Ordinario), la produttività è completamente irrilevante per la determinazione del salario. Le analisi di Daniele Checchi (1999) di Roberto Perotti (2002) mostrano chiaramente che il numero di pubblicazioni ha un’influenza marginale nelle decisioni di promozione di categoria. Secondo, il profilo temporale della progressione salariale è molto “ripido”: si guadagna poco a inizio carriera, ma l’ anzianità viene remunerata molto bene. Consideriamo un giovane che diventi ricercatore a 25 anni, associato a 35 anni e ordinario a 45 anni: tra inizio e fine carriera il suo salario aumenta di un fattore pari a 5, sostanzialmente per effetto della sola anzianita’ (vedi Tabella 2).
Terzo, per effetto di questa progressione, e contrariamente ad una credenza assai diffusa, un ordinario italiano con 35 annni di anzianità è ben pagato anche rispetto ai suoi colleghi statunitensi. Come si vede confrontando la Tabella 2 con la Tabella 3, egli riceve un salario superiore a quello dell’ 80 percento dei professori ordinari nelle migliori università statunitensi (quelle con un programma di PhD), e superiore a quello del 95 percento degli ordinari nelle università con al più un corso di master (la stragrande maggiornaza delle università americane).
Il sistema retributivo dei docenti universitari negli Stati Uniti segue regole assai diverse. Il salario è negoziato individualmente, ed è quindi funzione delle opportunità di lavoro alternative, cioè, essenzialmente, dalla produttività di un professore. In conseguenza, a qualsiasi livello di anzianità la dispersione salariale è molto elevata (mentre in Italia è nulla). Ad esempio il rapporto tra i salario massimo (113,636 euro nelle piu’ prestigiose università con corsi di Ph.D.) e minimo (27,273 euro in un community college) di un assistant professor (ricercatore) è pari a circa 4.2. E un assistant professor di 25 anni molto produttivo e promettente può benissimo guadagnare ben più di un ordinario a fine carriera ma poco produttivo. D’altro canto, la progressione salariale in carriera è sempre ancorata alla produttività scientifica e non così accentuata come in Italia: a fine carriera un ottimo professore guadagna tra 1.5 e 2 volte il suo salario iniziale.
Questa è esattamente la struttura salariale che ci si apetterebbe se il salario fosse usato come strumento per incentivare la produttività e per premiare gli anni di ricerca più produttivi, che tipicamente sono quelli da inizio fino a metà carriera.

Proposte per una Riforma

La causa principale dei problemi dell’ università italiana non è dunque la mancanza di fondi, bensì l’esistenza di meccanismi sbagliati di distribuzione delle risorse. Le nostre proposte sono quindi volte a modificare il sistema di incentivi in modo che, a parità di risorse, nell’accademia italiana venga premiata l’eccellenza scientifica secondo parametri condivisi dalla comunità internazionale. Il nostro lavoro “Lo Splendido Isolamento dell’ Università Italiana” discute queste proposte in maggiore dettaglio.

1. Liberalizzare le retribuzioni del personale accademico.
2. Liberalizzare le assunzioni: ogni università assume chi vuole e come vuole; di conseguenza, è abolito l’attuale sistema concorsuale.
3. Liberalizzare i percorsi di carriera: ogni università promuove chi e come vuole.
4. Liberalizzare completamente la didattica: ogni università è libera di organizzare i corsi come vuole e di offrire i titoli che preferisce.
5. Liberalizzare le tasse universitarie: ogni università si appropria delle tasse pagate da i propri studenti.
6. In alternativa alla proposta precedente, mantenere il controllo pubblico sulle tasse universitarie aumentandole però considerevolmente.
7. Utilizzare i risparmi statali così ottenuti per istituire un sistema di vouchers, borse di studio e prestiti con restituzione graduata in base al reddito ottenuto dopo la laurea.
8. Allocare ogni eventuale altro finanziamento statale alle università in modo fortemente selettivo sulla base di indicatori di produttività scientifica condivisi dalla comunità internazionale.
9. Consentire l’accesso a finanziamenti privati senza limitazioni.
10. Abolire il valore legale del titolo di studio.

Tabella 1. La produttività e la qualità dei ricercatori italiani

pubblicazioni / ricercatori tot

citazioni / ricercatori tot

Ricercatori accademici / ricercatori tot

pubblicazioni / ricercatori accademici

citazioni / ricercatori accademici

impact factor

medio

impact factor

standardizzato

1

2

3

4

5

6

7

USA

1.00

8.60

0.15

6.80

58.33

8.57

1.48

Germania

1.25

8.64

0.26

4.77

32.98

6.91

1.33

Regno Unito

2.17

15.86

0.31

6.99

51.00

7.30

1.39

Francia

1.45

9.43

0.35

4.09

26.68

6.52

1.12

Italia

2.26

14.81

0.38

5.88

38.57

6.56

1.12

Spagna

1.68

9.09

0.55

3.06

16.54

5.41

.97

Portogallo

0.86

3.99

0.52

1.65

7.62

4.62

.82

Danimarca

1.96

15.57

0.30

6.50

51.56

7.93

1.48

Olanda

2.29

18.79

0.31

7.41

59.58

8.20

1.39

Canada

1.68

11.79

0.33

5.04

35.28

7.00

1.18

Da Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti (2005).
Definizioni: Colonna 6: impact factor: definito come numero totale di citazioni / numero totale di pubblicazioni, entrambe per il periodo 1997-2001;. Colonna 7: impact factor standardizzato, 2002; vedi testo per la definizione.
Fonti: Pubblicazioni e citazioni: King (2004), dati riferiti agli anni 1997-2001; Impact factor standardizzato: King (2004), dati riferiti al 2002; Numero di ricercatori: OECD, Main Science and Technology Indicators database, dati 1999 (1998 per Regno Unito). Il numero di ricercatori è espresso in unità full time equivalent.

Tabella 2. Distribuzione dei salari accademici in Italia

Anzianità di servizio

in anni

Professore Ordinario

a tempo pieno

Professore Associato

a tempo pieno

Ricercatore

a tempo pieno

0 (non conf.)

47631

36053

20225

3

50412

37999

29244

5

54207

40684

31150

7

56900

42596

32516

9

60696

45280

34422

11

63388

47192

35788

13

67184

49876

37694

15

70979

52560

39601

17

73968

54683

41117

19

76957

56806

42633

21

79946

58928

44149

23

82935

61051

45665

25

85924

63174

47181

27

88913

65296

48698

29

91902

67419

50214

31

94891

69542

51730

33

96735

70851

52665

35

98578

72160

53600

37

100421

73469

54535

39

102264

74778

55470

Media

77242

57020

42415

Da Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti (2005).
Nota: Dati aggiornati all’anno 2004. La tabella riporta il salario annuo in euro al lordo delle tasse per le tre categorie di docenti italiani al variare della anzianità di servizio, secondo la tabella elaborata dal CNU di Bari e pubblicata sul sito http://xoomer.virgilio.it/alpagli/. Poiché non disponiamo della distribuzione dei docenti italiani per anzianità, le retribuzioni medie nell’ultima riga sono calcolate ipotizzando una distribuzione uniforme.

Tabella 3. Distribuzione dei salari accademici negli Stati Uniti

Università con corsi undergraduate

e corsi di dottorato

Università con corsi undergraduate

e corsi di master

College senza corsi graduate

Percentile

Full

Associate

Assistant

Full

Associate

Assistant

Full

Associate

Assistant

1

49,091

38,182

30,909

41,818

34,545

29,091

36,364

29,091

27,273

5

56,364

43,636

36,364

47,273

40,000

32,727

41,818

34,545

32,727

10

68,969

52,678

44,994

53,526

44,728

38,386

42,749

37,871

32,906

20

73,139

55,133

46,742

56,721

47,005

40,217

47,956

40,698

35,404

30

77,091

57,091

48,378

59,075

48,733

41,338

51,109

42,951

37,047

40

79,738

58,875

50,493

61,465

50,515

42,336

53,589

44,857

38,552

50

83,820

61,747

51,825

63,913

51,879

43,435

56,944

46,835

39,592

60

89,466

63,622

54,266

66,523

53,535

44,788

59,843

48,796

40,931

70

94,616

65,989

55,896

70,540

55,623

46,265

63,037

50,730

42,147

80

98,730

69,816

58,476

75,203

58,567

48,661

67,198

53,529

44,383

90

108,003

73,599

63,804

81,060

63,645

51,465

78,941

59,007

48,832

95

119,212

79,177

65,953

86,323

66,372

53,279

86,854

64,672

51,373

99

195,455

122,727

113,636

122,727

92,727

80,000

122,727

83,636

69,091

Media

91,529

62,400

53,251

69,193

54,555

45,417

65,293

50,392

41,901

Da Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti (2005).
Nota: Dati riferiti all’anno accademico 2003-04. La tabella riporta i percentili in euro della distribuzione del salario annuo al lordo delle tasse per i Full Professor, gli Associate Professor e gli Assistant Professor in tre categorie di università degli Stati Uniti. La fonte è il rapporto della AAUP (2004), in particolare le Tabelle 4, 8 e 9a. I dati si riferiscono a 1446 università per un totale di 1775 campus. Per la conversione della valuta abbiamo utilizzato il tasso di cambio corretto per Purchasing Power Parity pari a 1.11 dollari per euro.

Bibliografia:

Checchi, D., 1999, Tenure. An Appraisal of a National Selection Process for Associate Professorship, Giornale degli Economisti ed Annali di Economia, 58 (2), 137-181.

Gagliarducci S., A. Ichino , G.Peri e R. Perotti (2005) “Lo Splendido Isolamento dell’ Universita’ Italiana” Working Paper, Fondazione Rodolfo De Benedetti, Milano,

www.igier.uni-bocconi.it/perotti.

Kalaitzidakis P., Stengos T. e Mamuneas T.P., 2003,

Rankings of Academic Journals and Institutions in Economics, Journal of the European Economic Association, 1 (6), 1346-1366.

Perotti, R., 2002, The Italian University System: Rules vs. Incentives, www.igier.uni-bocconi.it/perotti

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19 commenti

  1. B Veronese

    Vorrei soffermarmi su un particolare aspetto di questa discussione. Ritengo ci sia un problema notevole legato all’uso diffuso del voto di laurea come criterio di selezione per l’ingresso nel mercato del lavoro. Mentre all’apparenza sembra un criterio “quantitativo”, e percio’ idoneo a limitare arbitri e quindi, da questo punto di vista, equo, e’ in realta’ un criterio assurdo. Ho completato gli studi un poco meno di 10 anni fa, ma ricordo chiaramente statistiche (particolarmente per lauree in economia e scienze politiche) che dimostravano come un dato voto (per esempio 110) fosse conseguito da meno del 10 per cento degli studenti di un certo corso di laurea e da percentuali anche triple altrove. Con queste distribuzioni di voti non ha semplicemente senso escludere da bandi di concorso studenti che han fatto meglio del 90 per cento dei loro colleghi ed includere studenti che han ottenuto voti peggiori 30 per cento di altri studenti nello stesso corso e nelle stesse materie. Va notato che questi criteri di selezione sono ubiquitari anche per l’assegnazione di borse di studio per la formazione post laurea e quindi finiscono coll’influire sul mercato del lavoro anche in questo modo. Il voto di laurea e’ un falso convogliatore di informazione e con l’attuale ampia divergenza in voti medi tra facolta’ e universita’ e’ un mezzo assai iniquo di selezionare candidati a posti di lavoro (solitamente appetibili) e borse di studio. Le statistiche sulle medie dei voti per università e per facoltà esistono, non sarebbe ora di usarle? Non si potrebbe almeno ragionare in termini di percentuali? Nel Regno Unito i risultati di coorti di studenti (pre-università) sono tema da prima pagina. Lo stesso problema vige per i voti di maturità usati come mezzo per escludere l’accesso a certi studi universitari o come uno degli elementi di valutazione per tale accesso. Se ci sono test di ingresso il voto non dovrebbe semplicemente essere un elemento necessario alla valutazione.

    • La redazione

      Come per altri commenti, non vi sono qui obiezioni a quanto ho scritto, anzi vi è una conferma alla tesi di fondo: condizione necessaria, non sufficiente.

  2. Renzo Rubele


    Mi limito a suggerire, per la discussione, di chiedere ai fautori dell’“abolizione” che cosa si dovrebbe modificare, in quali leggi e/o regolamenti per attuare il loro precetto, mentre ai fautori del “mantenimento” se hanno per caso conoscenza di Paesi in cui non esiste codesto valore legale, e se tali Paesi siano una Sodoma culturale, come pare essi alludano.
    Il polverone serve a coprire una piu’ precisa individuazione delle caratteristiche patologiche del nostro sistema universitario; e.g.:
    1) FORMALISTICO E PERPETUO ACCREDITAMENTO DELLE UNIVERSITA’.
    La qualifica di Universita’ e’ data a seguito o di una legge che la istituisce, o di un giudizio Ministeriale, in base a criteri puramente formali della sua organizzazione, che non catturano necessariamente e fattualmente gli standard e la qualita’ dell’attivita’ accademica.
    2) OMOLOGAZIONE DEL SISTEMA UNIVERSITARIO.
    Le Universita’ dovrebbero avere una propria specifica missione, adeguata alle proprie capacita’ e ai bisogni degli utenti-studenti, da selezionare con esami di ammissione.
    3) CONDIZIONI DI IMPIEGO DEL PERSONALE ACCADEMICO STABILITE PER LEGGE.
    La gestione del personale, elemento essenziale di una qualsiasi organizzazione, rimane affidata alle trattative politico-parlamentari anziche’ a dei bei contratti, in parte collettivi e in parte individuali.
    4) GOVERNO DELLE UNIVERSITA’.
    In balia dei lavoratori della stessa. Una tragedia. Per qualsiasi decisione seria.
    Per i finanziamenti: bisognerebbe creare Enti indipendenti dal Governo e dal “controllo democratico” dei beneficiari.

    • La redazione

      Posso condividere parecchie tra queste considerazioni, che comunque non sono obiezioni al mio intervento.

  3. Michele Costabile

    Le argomentazioni di Luzzato hanno una forte coerenza interna ma segnano una “gabbia cognitiva”. Evidenzio alcune delle principali “sbarre” della gabbia.
    1) La gabbia della cooptazione. Tutte le organizzazioni e, piu’ in generale, le economie di mercato vivono, prosperano e generano valore mediante processi di cooptazione. Qual è il reato di chi coopta? Ben vengano dottori commercialisti, ingegneri o medici che cooptano i loro colleghi (del resto già lo fanno con i testi d’esame di stato, con le correzioni, ecc. ecc.)….non sarebbe meglio spendere le nostre energie istituzionali a produrre sistemi di rating (ancorché fallibili e per definizione migliorabili) dei professionisti, invece che tentare – inutilmente – di bloccare la cooptazione? Suvvia pieghiamo questa sbarra! E diamo finalmente un ruolo agli ordini professionali.
    2) La sbarra della deresponsabilizzazione nella PA. Perché mai i dirigenti della PA, che ai massimi livelli sono tutti cooptati – spoil system – non dovrebbero assumersi la responsabilità di scegliere il loro personale e valutare con adeguati sistemi di rating le università da cui assumere? Sono dirigenti chiamati in via diretta, ben pagati e, almeno sulla carta, competenti…..perche’ mai dovremmo dare loro la malleveria del titolo con valore legale?
    3) la sbarra della legalità: Perché non limitarsi a garantire (certificare) il valore del titolo? Un buon sistema di rating si puo’ sviluppare in tempi brevi (basta guardare agli altri paesi europei, ad alcuni paesi orientali e ad alcuni africani che si stanno muovendo in questa direzione). Se il Ministero preposto evitasse tentazioni stataliste (dopo il numero degli esami nel triennio vorra’ anche stabilire per legge uno standard di numero di pagine per esame?) potrebbe investire le sue energie a comunicare il valore vero dei titolo e questa volta la comunicazione sarebbe legge.

    • La redazione

      Su 1): Il sistema italiano degli Albi professionali è sotto inchiesta per vari motivi, e vogliamo dargli potere di vita e (soprattutto) di morte sugli ingressi? Su 2): Ribadisco che non si tratta di dare diritti automatici a chi ha una laurea, ma di evitare che chi non la ha possa venir favorito. Su 3): La presenza del “valore legale” non esclude affatto rating etc. Peraltro, l’esperienza degli altri Paesi dimostra che da quando si inizia un sistema nazionale di valutazione a quando esso diviene affidabile passa un decennio: ottimo motivo per cominciare subito, senza però attendersi risultati immediati. Quanto al numero di esami, ben venga una regola: in troppi casi si sono frantumati gli insegnamenti per le esigenze dei professori, non degli studenti (ai quali vanno dati corsi solidi e formativi, non parcellizzazioni di nozioni).

  4. gianmaria picardo

    Sempre più si parla di lasciare liberi i mercati, che la concorrenza è l’unico rimedio per crescere e per un mercato efficiente ed equilibrato. Mi chiedo se questa regola vale per tutti i mercati, compreso quello dei concorsi pubblici oppure no.
    In un’agenzia govenativa che fa previsioni e ricerche economiche, con sede a Roma, ha svolto un concorso da ricercatore a tempo indeterminato, molti si chiederenno quante persone hanno partecipato, visto i tempi in cui per un ricercatore con dottorato , master e anni all’estero è difficile incontrare lavoro in Italia, ebbene c’erano solo due persone, le quali erano gia’ interne al sistema.
    Mi chiedo come mai non si sono presentati? non sapevano di questo concorso? eppure le domande che sono arrivate erano tante. Forse perchè queste persone sapevano che , anche se hanno piu’ titoli e piu’ capacità, non potevano mai superare questo concorso.
    Quindi perchè parlare di concorrenza , quando questa è solo una parola che esiste sullo zingarelli, se ancora esiste. Se continiuamo a fare concorsi in cui posso vincerli solo coloro che sono dentro e protetti da questo sistema, ci incontreremo con una classe dirigenti sempre piu’ immatura ed ignorante. Si perchè il concorso vinto oggi da ricercatore a tempo inderminato non si basa su una giusta elezioni entro candidati di diversa formazione, ma solo un candidato. come puo’ essere fatta una selezione con un solo candidato?
    Perchè spendere soldi per una commisione che alla fine non fa nulla? forse era meglio che chiamano chi vogliono e gli fanno un contratto senza spendere tanti soldi e senza prendere in giro il popolo italiano.

    • La redazione

      Qui si conferma che non affidare a chi seleziona una discrezionalità totale è opportuno.

  5. Marco Solferini

    La laurea possiede un valore intrinseco, ereditato nel tempo da chi indubbiamente le ha attribuito un valore forse ad oggi un pò imbarazzante alla luce delle statistiche che parlano di laureati “poveri”, ma questo non è di per se sufficiente a colpevolizzarla nel suo ruolo elitario di accesso a una determinata conoscenza e, in conseguenza, come atta a testimoniare un inizio per un percorso. Le difficoltà dei sistemi lavorativi sono molteplici, interne ed esterne, la formula alchemica del liberismo non può diventare una sorta di cura contro tutti i mali, occorre ragionare metodologicamente e con raziocinio, proporsi e sapere ascoltare; forse questo è in parte il limite delle attuali riforme che sembrano più interventi chirurgici orientati verso un determinato ambito anzichè una meritocratica rivisitazione, a partire da un principio.
    Una domanda all’autore: cosa ne pensa dell’indagine sulle limitazioni alla concorrenza nell’accesso alle libere professioni, commissionata in ambito europeo dal Prof. Mario Monti?

    • La redazione

      Rispondo con piacere: ritengo che il governo, sulla linea richiesta dall’Unione Europea, debba andare molto più avanti dei pallidi inizi (comunque positivi) contenuti nel decreto Bersani. E lo debba fare non solo per “la concorrenza”, ma anche (anzi soprattutto) per dare chances ai giovani.

  6. NakiraSan

    Vorrei solo chiarire che in questo momento per gli ordini professionali che si trovano sotto tiro sotto vari fronti il problema del valore legale è fuori luogo. E’ chiaro che per accedere al tirocinio formativo obbligatorio è un requisito necessario ma in nessun modo viene valutato il voto, l’ateneo, il cursus studi, ma solo se il corso di laurea sia compatibile con la pratica professionale che si intende iniziare. Ancor meno quindi serve il valore legale per l’iscrizione ad un ordine professionale, è requisito essenziale ma non è la qualità che emerge.

    • La redazione

      Come per altri commenti, non vi sono qui obiezioni a quanto ho scritto, anzi vi è una conferma alla tesi di fondo: condizione necessaria, non sufficiente.

  7. Massimo Testa

    La mia espeerienza personale:
    Ho partecipato ad un concorso per una posizione di economista presso il Ministero delle Finanze del Nord Irlanda. La particolarità non è che sono riuscito a vincerlo (ho studiato, non ci sono raccomandazioni qui usano il termine canvassing che è punito penalmente). Il fatto interessante è che sono laureato in agraria. Mi è stato sufficiente dimostrare di avere le conoscenze necessarie per affrontare il lavoro per cui era stato bandito il concorso. Ecco cosa significa abolire il valore legale del titolo di studio.

    • La redazione

      1°- In quanto Testa scrive è implicito (e quasi esplicito) che in Italia il canvassing c’è (altri commenti lo esemplificano): perciò si conferma che non affidare a chi seleziona una discrezionalità totale è opportuno. 2° – Condivido che un laureato in agraria possa accedere a posizioni di economista: ho proprio scritto che è deplorevole restringere gli accessi (“la pretesa di specifiche denominazioni corrisponde alla volontà di chiudere corporativamente; la battaglia per aprire significa puntare all’ampliamento dei titoli ammessi”).

  8. Richard Zuccolo

    Sono italo-canadese (esperienze negli USA, UK, Olanda, Norvegia). Confermo i dati relativi alla pressochè totale assenza di professionisti, ricercatori, docenti stranieri nel settore scienza/teconologia in Italia, mentre in altri paesi (altri meccanismi di accesso, selezione e meritocrazia – trasparenti ed equi, in netto contrasto con quelli utilizzati in Italia) si incoraggia la partecipazione/integrazione di “highly qualified foreign nationals”. Da anni in diversi stati europei (Olanda, Belgio, Finlandia, Norvegia, Svezia, Danimarca, Germania, Svizzera) molte università offrono corsi, programmi di laurea, master e dottorati esclusivamente in lingua inglese. Anche questo è un modo per aprire un sistema alla ricchezza che può offrire la diversità delle risorse umane … un sistema aperto. In un articolo apparso su Eos (87, June 2006), (Società Americana di Geofisica), gli autori hanno sottolineato che il sistema italiano: does not have a tradition of providing funding opportunities to foreign students and scientists; suffers from decades of bureaucracy driven by centralized structures, often strongly controlled by politics; the limited funds are often spread sparsely with little attempt to promote or prioritize projects based on merit; it is not easy or straightforward to obtain reliable information as to when or where the announcements that call for proposals will be published. Hanno anche segnalato la mancata trasparenza nei criteri e l’evidente conflitto d’interessi circa l’assegnazione dei fondi ministeriali per la ricerca. Questo sono segnali forti di una sistema inefficiente, tradizionalista, chiuso e alquanto losco. Temo che per cambiare questo quadro sia necessario avere la volontà di avvicinarsi alla mentalità anglosassone nello sviluppo di certi modelli di crescita e quindi di eliminare meccanismi e sistemi ingiusti creati ad hoc. In questo contesto le proposte, per migliorare le cose, avanzate da Perotti et al. sono long overdue.

    • La redazione

      Sono d’accordissimo sulle critiche alla mancanza di attrattività per gli stranieri e di trasparenza (anche per gli italiani), nonché sull’opportunità di molti corsi in lingua inglese (qualche università sta cominciando, ma vi sono resistenze allucinanti di colleghi affezionati al “manzonismo degli stenterelli”). Tutto questo non c’entra però con le questioni che ponevo nel mio intervento.

  9. Loredana

    L’abolizione del valore legale della laurea dovrebbe essere pensato soprattutto per gli utenti del sistema d’istruzione e non solo per i docenti.
    Concordo col commento di Massimo Testa. Appartengo ad una generazione over 30 che assieme a molti altri ha intrapreso lo studio universitario in ritardo, lavorando. Si viene a confronto con generazioni passate, che comprovano la facilità di accesso nella P.A. e il cui titolo avente valore legale aiuta nel passaggio di carriera, a prescindere dal reale apprendimento.
    Il valore della laurea deve oltrepassare il valore legale perché la laurea non deve essere passaporto per chi deve entrare nella PA o continuare lì la carriera, ma deve rappresentare un’insieme di apprendimenti teorici e pratici validi anche per il resto dei settori lavorativi, apprendimenti valutabili dai datori di lavoro in base a reale meritocrazia.

    • La redazione

      Come per altri commenti, non vi sono qui obiezioni a quanto ho scritto, anzi vi è una conferma alla tesi di fondo: condizione necessaria, non sufficiente.

  10. Giacomo Capizzi

    La “restrizione degli accessi” non vale attualmente soltanto per l’accesso al lavoro.
    Il sistema del 3 + 2 avrebbe dovuto introdurre maggiori flessibilità nella carriera universitaria.
    Ed invece la mia esperienza personale è che una volta ottenuta la laurea magistrale in giurisprudenza non mi sarà possibile accedere alla laurea biennale in relazione internazionali (nemmeno recuperando i dovuti crediti).
    Al più mi sarà consentito l’iscrizione al corso triennale (con il riconoscimento degli esami giuridici) e una volta ottenuta la laurea triennale potrò iscrivermi alla biennale. Verso i trent’anni se tutto va bene.
    Ma non sarebbe più semplice abolire il divieto di iscrizione a più corsi di laurea (disposto da una legge del ’49)?
    Il successo o meno nel seguire due corsi di laurea dipenderà poi dalle capacità e dall’impegno degli studenti che non intendono perdere tempo.

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