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Stabili per legge?

Le odierne difficoltà del centrosinistra sui temi del lavoro sono anche figlie di un’analisi falsata delle politiche della passata legislatura, delle quali è stato largamente drammatizzato l’effetto. L’idea del diritto del lavoro legato alla sua vocazione protettiva sembra ormai datata. Però potrebbe trovare nuova linfa se si avesse il coraggio politico di coniugare le preoccupazioni sociali con l’obiettivo del recupero dell’efficienza e della competitività del sistema, e della produttività del lavoro, i cui andamenti sono da tempo deludenti.

Il ministro Damiano ha ragione, ovviamente, a dolersi degli slogan verbalmente violenti che gli sono stati rivolti nella manifestazione pro-precari del 3 novembre scorso. Si rimane un poco stupiti, nondimeno, del suo stupore. Quando era all’opposizione, la maggioranza della quale il ministro fa parte aveva scagliato ripetuti anatemi contro il decreto Biagi, additato come responsabile della precarizzazione, naturalmente “selvaggia”, del mercato del lavoro italiano. L’inserimento, nel programma dell’Unione, dell’obiettivo di una profonda revisione della legge, era sembrato null’altro che la logica conseguenza di tale campagna d’opinione, che aveva trovato sponde anche in settori, oggi per lo più silenziosi, della dottrina giuslavoristica.
Tuttavia, al recente convegno “riformista” di Venezia, con l’aria di dir cosa ovvia, ma senza curarsi della contraddizione con le valutazioni precedenti, Cesare Damiano ha affermato che il decreto Biagi non ha avuto un significativo impatto concreto. Nulla di male, naturalmente, o quanto meno nulla di nuovo. Salvo che v’era chi, quella demonizzazione, l’aveva presa sul serio, tanto si prestava ad alimentare le emozioni classiste delle quali si nutre l’immaginario della sinistra “antagonista”.

Gli effetti della drammatizzazione

Le odierne difficoltà del centrosinistra, e del ministro in particolare, sui temi del lavoro, sono anche figlie, dunque, di un’analisi falsata delle politiche della passata legislatura, delle quali è stato largamente drammatizzato l’effetto, con una deformazione speculare a quella del governo di allora. Per vero, il numero dei precari è effettivamente in crescita (pur restando inferiore alla media europea), e stanno purtroppo profilandosi anche fenomeni di cronicizzazione della precarietà. Ma onestà vuole che si riconosca che queste tendenze sono in atto da tempo, soltanto accentuate, e non in grande misura, dal decreto Biagi e dalle altre leggi del periodo. Così, ad esempio, il ricorso al lavoro a termine non è granché aumentato a seguito dell’introduzione, nel 2001, di una disciplina potenzialmente più flessibile; e tutto il male si potrà dire del lavoro “a progetto”, ma non che abbia liberalizzato i già flessibilissimi co.co.co, avendone irrigidito, piuttosto, il regime normativo.

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Modifiche sì. Ma quali?

Non per questo quelle leggi vanno esenti da critiche, e non ne sono opportune revisioni. Ma il punto è: in quale direzione, e in nome di quale modello sociale? La vox populi propone di concentrare gli sforzi sulla lotta alla precarietà, in un ideale sviluppo espansivo della tradizionale logica protettiva del diritto del lavoro. In questa chiave, è stata riproposta l’idea di modificare la nozione legale di lavoro subordinato, così da farvi rientrare, in massa, tutti i co.co.co.
Ma la fragile economia italiana sarebbe in grado di reggere uno shock del genere, o non si moltiplicherebbero le fughe nel sommerso? E siamo poi certi che la lotta alla precarietà si possa combattere con un ennesimo intervento sulle tipologie contrattuali, che sono, per incidens, molte meno delle quaranta talora favoleggiate? O non invece con una più realistica flexicurity, ossia portando avanti la riforma dei servizi per l’impiego (a proposito, a che punto è?) e predisponendo una rete di sicurezza sociale “attiva”, finalmente adeguata ai nuovi bisogni, ma anche alle nuove esigenze di responsabilizzazione individuale delle persone in cerca di occupazione, del post-fordismo? Perché abbandonare, insomma, le migliori idee emerse nella XIII, così come nella XIV legislatura, molte pagine del Libro bianco comprese, a cominciare dallo Statuto dei lavori, in nome dell’illusione di abolire il precariato per decreto, che oltretutto sopravvaluta la forza della hard law?
Questo non significa che si debba rinunciare a orientare il sistema verso la stabilità dei rapporti, ma la difficile quadratura fra essa e la necessità competitiva di non sottrarre flessibilità in entrata alle imprese, richiederebbe, come nella ragionevole proposta avanzata da Tito Boeri e Pietro Garibaldi , di profanare, in qualche misura, il sancta santorum del rapporto a tempo indeterminato.
L’impressione è che il ministro del Lavoro sia ben consapevole di tutto ciò, e che le sue prime mosse siano andate nella giusta direzione. (1) Ma l’accusa di fare poco per i precari, nutrita dalla trasversale demagogia italica, è evidentemente insopportabile, e già l’annunciata revisione della disciplina del contratto a termine, sebbene preceduta da una sollecitazione – che riuscirà probabilmente vana – alle parti sociali, sembra il segno di un cedimento alle pressioni da sinistra.

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Le critiche da fare

Per tacere del fatto che le vere critiche alla pur ancora sfuocata politica governativa, dovrebbero essere, semmai, di segno opposto. L’idea di un diritto del lavoro abbarbicato attorno alla sua vocazione “protettiva” sembra, infatti, ormai “datata”: manca l’appuntamento con quell’istanza di modernizzazione della disciplina, che si trova sottolineata anche da una comunicazione, ancora in bozze, della Commissione europea. Eppure, tale vocazione potrebbe persino acquistare nuova linfa, se si avesse il coraggio politico di coniugare le preoccupazioni sociali con l’obiettivo del recupero dell’efficienza e della competitività del sistema, e in primis della produttività del lavoro, i cui andamenti sono da tempo deludenti, se non, nel settore pubblico e para-pubblico, mediamente sconfortanti. Più diritti, anche di nuova generazione (ad esempio, a una formazione continua), ma nel quadro di uno sforzo comune proteso alla crescita economica. Questo sarebbe fare regolazione in senso moderno.
Ma per “mordere” davvero su questi temi sarebbe indispensabile una fattiva collaborazione dei sindacati, della quale tuttavia non si coglie, nel declino progettuale che caratterizza tali organizzazioni, alcuna traccia. Fra pressioni massimalistiche e resistenze conservatrici, la missione del riformismo sembra dunque, anche in questa legislatura, quasi impossibile. Al punto da consigliare ai “volenterosi”, quanto meno, una minore cautela verbale, giacché il tempo utile, per il paese, potrebbe essere prossimo ad esaurirsi.

(1) Come la circolare sui call center e le misure “zapateriane” di incentivo alla stabilizzazione.

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Sommario 14 novembre 2006

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Ma il contrasto di interessi non è la soluzione

  1. Luigi Rosi

    Ho 40 anni e da 4 lavoro con contratto co.co.pro. (ex co.co.co .) per la stessa azienda. Non dubito che nella organizzazione della produzione sia necessaria un’ adeguata quota di flessibilità. Contrariamente alla vulgata, i giovani (e i meno giovani) non cerchino il lavoro per la vita. Sempre più spesso l’immobilismo è vissuto come un fallimento. Si cerca il cambiamento, nuove opportunità. A partire dal pacchetto Treu si è fatto confusione (intenzionalmente?) tra flessibilità e riduzione del costo del lavoro. Si è pensato cioè di favorire l’impiego riducendo fortemente – e per decreto – le tutele e il costo del lavoro: oggi un co.co.pro. costa all’azienda molto meno di un lavoratore a tempo indeterminato! Le aziende ritengono di non avere alcuna convenienza a modificare questa situazione, salvo poi lamentarsi della scarsa produttività. Confindustria dovrebbe spiegare come si fa ad avere maggiore produttività con salari bassi e lavoro precario. Si tratta di fruttamento dei lavoratori: la flessibilità non c’entra nulla. Bisognerebbe abolire la tipologia dei co.co.co./co.co.pro. e parametrare il costo del lavoro flessibile sui contratti nazionali opportunamente incrementati, ponendo a carico di chi ricorre al lavoro a termine gli oneri per finanziare gli ammortizzatori sociali. Il lavoro precario ha un alto costo sociale, è pertanto giusto che le aziende che lo utilizzano contribuiscano in modo adeguato. E ancora: perché i lavoratori co.co.co./co.co.pro. pagano i contributi previdenziali al fondo per la gestione separata dell’INPS; e perché questi versamenti non sono cumulabili con gli altri che il lavoratore ha fatto nel corso della sua vita lavorativa? E tutto ciò quando il sistema pensionistico è organizzato su base contributiva! Infine, qualcuno vuole spiegarci cosa si intende fare per garantire a tutti una pensione decente? La questione si riduce alla sola età pensionabile? Sai che soddisfazione andare in pensione a 57 anni, anziché 63, con 300 Euro al mese!

  2. lucia

    Ma se avvenisse la stabilizzazione di tutti questi precari, i ragazzi che sono prossimi alla laurea e quindi alla ricerca di un lavoro, che speranze avranno? E le generazioni future? Il mio suggerimento sarebbe quello di stabilizzare solo i lavoratori che hanno superato i quarant’anni e con almeno 15 anni di precariato alle spalle, il resto si vedrà.

  3. Marcella Bondini

    Sono titolare di un’azienda artigiana.
    Fino quando non avrò la possibilità di licenziare gli operai che non lavorano, fino a quando qualcuno non dirà ai medici che è ora di finirla di fare certificati finti per consentire ai fannulloni di stare a casa sulle spalle del loro datore di lavoro, fino a quando il costo della maternità non sarà interamente a carico dello stato, fino ad allora potete fare tutte le leggi che volete, ma io non assumerò alcun lavoratore a tempo indeterminato nè tantomeno alcuna donna.
    P.S. Sono due mesi che cerco un operaio che abbia voglia di lavorare. L’unico italiano che si è presentato aveva 30 anni ed è venuto accompagnato dal padre. Dopo due giorni era già stanco. Ma quale precariato, evviva gli extracomunitari che rimpiazzano gli italiani ormai troppo sfaticati per rimboccarsi le maniche e che fanno molte meno malattie degli italiani brava gente.

  4. Andrea Zaff

    Mi rifaccio al commento di Luigi Rosi e di Marcella Biondini, entrambi veri dal loro punto di vista.
    E vi propongo questa semplicissima politica del lavoro.
    Il lavoro costa all’impresa tanto di più quanto più è precario (questo può essere tradotto in un maggiore stipendio direttamente in busta paga per il lavoratore precario oppure può essere configurato attraverso il versamento della “maggiorazione” in un fondo che finanzia appropriati ammortizzatori sociali per i precari, ammortizzatori che oggi non ci sono).
    Fatto ciò, le imprese assumono come vogliono, all’interno di una fattispecie di contratti previsti per legge, e licenziano quando vogliono, anche da 1 giorno all’altro.
    Fantascienza? No, la Danimarca per esempio fa già così, e la disoccupazione praticamente non c’è…

  5. Enio Minervini

    Inevitabilmente nel suo articolo, il prof Del Punta ha evocato gli spiriti più biechi, come la signora artigiana che si stupisce del fatto che nessuno vuol più lavorare per lei. Un ispettore del ministero o dell’inps potrebbe spiegarle perchè, ma la consulenza avrebbe per lei un costo elevato.
    Per il resto tutto si riduce alla libertà di licenziamento, senza limiti e senza ragioni… L’arbitrio più totale.
    Naturalmente l’articolo del professore è molto più attento e pacato, ma – ahimè – anche molto ideologico.
    Modernismo è la parola d’ordine, e in nome di esso si propone uno scambio tra meno tutele giuridiche e più tutele nel mercato del lavoro, attraverso servizi per l’impiego e formazione continua.
    Ma conosce il professore lo stato dei servizi dell’impiego anche nelle regioni avanzate, per esempio Toscana. Sa quanti lavoratori inutilmente precari vi operano?
    Sa lo stato simil-mafioso della formazione continua, del fatto che funzioni solo per finanziare le agenzie?
    Ha mai letto un progetto di formazione continua – magari approvato a pieni voti – di un fondo interprofessionale per la formazione?
    Ha fatto un bilancio di qualità sul esito della privatizzazione della formazione professionale?
    Temo proprio di no!
    Non si capisce allora perché per un lavoratore dovrebbe essere conveniente rinunciare alle residue garanzie del lavoro subordinato, in cambio di protezioni sul mercato del lavoro che si sa già che non funzionano. E il sindacato dovrebbe rinunciare alla mobilitazione per conquistare condizioni di miglior tutela?
    Sono posizioni ideologiche professore, nel senso classico di cattiva coscienza. Talmente moderne da richiamare i periodi più bui – premoderni – della rivoluzione industriale.
    A proposito di premoderno…
    Riuscirà la redazione de lavoce.info a resistere alla tentazione di censurare – per la terza volta di seguito – un mio commento?
    Saluti

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