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Improduttivi perché inamovibili

L’idea di introdurre tetti demografici per indurre un ricambio generazionale che altrimenti non arriva mai è semplice e affronta un problema diffuso. Ma l’esperienza finlandese ci insegna che l’invecchiamento è una questione seria per le imprese solo nell’high-tech. E deriva dall’inamovibilità, non dall’età avanzata, dei lavoratori. Nell’economia globalizzata, riesce a stare sul mercato del lavoro chi sa accettare il cambiamento, giovane o anziano che sia. Quali politiche per migliorare le opportunità occupazionali degli “over 50”.

Il mancato ricambio generazionale – tra i dipendenti pubblici, tra i professori universitari, tra i politici, tra i manager e i consiglieri di amministrazione, tra i lavoratori privati – è sempre più spesso indicato come un serio ostacolo per lo sviluppo. (1) Per risolvere il problema, si propongono misure drastiche come l’introduzione di tetti demografici (“chi ha più di x anni non può svolgere il ruolo y”). Ma è davvero l’età l’ostacolo per la crescita dell’economia italiana?

Le imprese preferiscono lavoratori giovani o “maturi”?

Sostituire un anziano esperto con un giovane alle prime armi non porta necessariamente a guadagni di produttività. Negli annunci di ricerca del personale per le qualifiche più disparate si trova spesso la formula “cercasi persona con esperienza“. Evidentemente, si ritiene che una forza lavoro più matura porti con sé un capitale umano importante per l’azienda. (2)
Se però si guardano i dati sul mercato del lavoro, si scopre che i lavoratori “over 50” partecipano molto meno al mercato del lavoro e fanno molta più fatica a ritrovare un lavoro dopo averlo perduto, rispetto ai lavoratori di età compresa tra i 25 e i 49 anni, i cosiddetti prime-aged workers. (3)
Dunque il problema esiste. Da dove viene fuori? Una possibilità è che l’età non porti con sé solo maggiore esperienza, ma anche una diminuzione di capacità lavorative. Come documentato da vari studi, le abilità cognitive si deteriorano con l’età, sia pure in modo variabile tra tipi di lavoro. (4) Passata una certa soglia, in media i 50 anni, il contributo di maggiore esperienza anche relazionale associato con l’invecchiamento è probabilmente più che compensato da una riduzione delle capacità di adattamento al nuovo, di astrazione e di risoluzione dei problemi.
Di per sé, non si tratta di un problema irrisolvibile per l’impresa cui interessa il costo del lavoro nel suo complesso (il rapporto tra salario e produttività del lavoro) e non quanto elevata sia la produttività di un dato lavoratore. Se l’impresa potesse ridurre il salario (o l’orario di lavoro) dei lavoratori anziani in proporzione alla riduzione del loro apporto produttivo, il costo del lavoro sarebbe indipendente dall’età. Però, le cose non vanno così. Nella maggior parte dei paesi europei gli aumenti salariali sono determinati dalla contrattazione sindacale e si basano soprattutto sull’anzianità di servizio (la “seniority”) presso l’impresa.
L’andamento relativo di produttività e salari al variare dell’età è poi influenzato anche dalla rapidità di cambiamento cui ogni mansione è soggetta, con l’introduzione di nuovi macchinari e metodi produttivi e organizzativi. Nei settori high-tech, le mansioni da svolgere e i ruoli sono frequentemente ridefiniti in funzione di nuove esigenze tecnologiche e di mercato. Se un lavoratore è incapace di adattarsi al nuovo, la sua produttività lavorativa ne soffre, non così il suo salario.
Insomma, un lavoratore “maturo” può diventare un onere per l’impresa per l’effetto congiunto dell’invecchiamento sulle sue capacità lavorative e sul reddito che gli viene pagato. Se il procedere dell’età genera una forbice tra produttività e salari, il costo del lavoro aumenta e i lavoratori anziani diventano meno graditi alle imprese che, alla prima occasione, se ne liberano. Alla peggio, aspettano la data sicura del pensionamento obbligatorio. (5)

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Il caso finlandese

Cosa sappiamo sulla relazione tra età e costo del lavoro per l’impresa? In Live longer, work longer, l’Ocse mostra che età e salari sono fortemente correlati tra di loro per le varie economie europee nel loro complesso. Per capire meglio cosa si nasconda sotto questa relazione positiva, occorrono però dati di impresa. In un recente articolo, Mika Maliranta e io abbiamo studiato in modo approfondito la relazione tra età e seniority, da un lato, e le due componenti principali del costo del lavoro per l’impresa (produttività e salari), dall’altro, in un campione di imprese finlandesi. (6) Troviamo che è la seniority presso l’azienda, non l’età, che conta per il costo del lavoro.
La nostra analisi indica che, al variare della seniority, salari e produttività tendono ad aumentare in maniera molto simile nei settori tradizionali, metalli e derivati del legno, dell’economia finlandese. Dove il mutamento tecnologico è più graduale, il deterioramento di abilità cui sono soggetti i lavoratori è limitato e non accresce in modo significativo l’onere aziendale di tenere lavoratori “maturi” tra i propri dipendenti. Il discorso è invece differente per Nokia e le altre imprese dell’Ict cluster, per le quali la relazione tra seniority e produttività a livello dell’impianto è prima positiva e poi diventa negativa per livelli più elevati di seniority. La parte negativa della relazione è coerente con il prevalere degli effetti di deterioramento delle abilità discussi dagli psicologi. (7)
In poche parole, l’aumento dell’anzianità (di servizio) fa crescere il costo del lavoro nelle imprese finlandesi solo nelle imprese più dinamiche dell’economia. Ma è la seniority che conta, non l’età dei lavoratori.

Invece dei tetti demografici, meglio ampliare le opportunità

L’idea di introdurre tetti demografici per indurre un ricambio generazionale che altrimenti non arriva mai affronta un problema diffuso, è semplice e potenzialmente efficace, ma presenta un rischio: quello di alimentare la convinzione che occorre fare largo ai giovani a discapito dei vecchi. (8)
L’esperienza finlandese ci insegna due cose al riguardo. Primo, l’invecchiamento dei lavoratori è un serio problema per le imprese solo nell’high-tech. Secondo, il problema deriva dall’inamovibilità, non dall’età avanzata, dei lavoratori. Nell’economia globalizzata, riesce a stare sul mercato del lavoro chi sa accettare il cambiamento, giovane o anziano che sia.
Per migliorare le opportunità occupazionali dei lavoratori con più di 50 anni senza frenare la crescita della produttività delle imprese, le migliori politiche del mercato del lavoro non sono dunque i tetti demografici (né quelle che conservano i lavori esistenti) ma piuttosto quelle che ampliano le opportunità, cioè quelle che rendono flessibile l’uscita dal mercato del lavoro e meno traumatico il passaggio da un posto di lavoro ad un altro.

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(1) In un’intervista al Corriere della Sera di qualche mese fa, Nicola Rossi parlava dei possibili guadagni di efficienza del settore pubblico derivanti dalla sostituzione di giovani al posto degli anziani in via di pensionamento. Sul nostro sito, Gianluca Violante ha discusso della gerontocrazia – tutta italiana – delle nostre carriere politiche. In un recente articolo sul Corriere (articolo del 10 gennaio 2007), Francesco Giavazzi ha indicato nell’età avanzata (dei manager, dei consiglieri di amministrazione, dei professori universitari) un serio ostacolo per il ritorno allo sviluppo dell’economia italiana.
(2) Da un’inchiesta dell’Economist (“How to manage an ageing workforce”, February 15, 2006) condotta su un campione di 400 manager di imprese americane ed europee, emergeva che il ritiro incombente della generazione del baby boom (i nati tra il 1946 e il 1964) dal mercato del lavoro viene visto come un pericolo significativo di perdita di conoscenze per le imprese.
(3) Oecd, “Live longer, work longer”,
http://www.oecd.org/document/42/0,2340,en_2649_34747_36104426_1_1_1_1,00.html.
(4) V. Skirbekk “Age and individual productivity: a literature survey”, Mpidr, Working Paper n. 2003-08, 2003) ha riassunto in un’eccellente rassegna l’evidenza empirica emersa in questi studi.
(5) Le grandi imprese italiane “in crisi strutturale” nei decenni passati (Fiat, Alfa Romeo, Olivetti e molte altre) hanno goduto di piani di pensionamento anticipato finanziati dai contribuenti.
(6) Francesco Daveri e Mika Maliranta, “Age, Seniority and Labour Costs; lessons from the finish IT revolution”,
Economic Policy, January 2007, 117-165
(7) La relazione negativa è anche parzialmente determinata da “effetti di selezione” cioè dal fatto che spesso i lavoratori più giovani e istruiti vanno a lavorare in impianti più recenti e più produttivi, lasciando i lavoratori più inefficienti a lavorare negli impianti di più vecchia data.
(8) Il tema è molto discusso anche nel mondo universitario statunitense. Come riportato dal Boston Globe 
anche a Harvard si stanno ponendo il problema dell’invecchiamento dei loro docenti. Ma lo fanno senza perdere di vista che sarebbe un peccato mandare in pensione per raggiunti limiti di età persone come Roy Glauber – un fisico che sessant’anni fa contribuì alla realizzazione della prima bomba atomica, e che insegna e fa ancora ricerca all’età di 81 anni nel suo laboratorio lavorando fino alle due di notte.

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Sommario 20 gennario 2007

  1. marco

    Nell’articolo del Boston Globe il problema si pone per i docenti sopra i 70 e non i 50 anni.
    L’idea di considerare i 50enni e oltre poco produttivi in generale e’ secondo me sbagliata. Parlando in particolare dell’universita’, a 50 anni spesso i docenti producono ancora molto perche’ hanno una conoscenza accumulata e un network sviluppato.
    In effetti a quell’eta’ si e’ spesso manager della ricerca, gestendo ed organizzando il lavoro dei ricercatori piu’ giovani. Inoltre piu’ avanti nell’eta’ si ha piu’ esperienza a livello amministrativo riuscendo a far affluire risorse al dipartimento.
    Capisco il motivazioni se si guarda il problema in Italia dove spesso giovani ricercatori, magari assegnisti, hanno pubblicazioni internazionali mentre non le hanno alcuni ordinari con piu’ di sessant’anni ma questo non e’ un problema di anzianita’ bensi’ di meritocrazia.

    • La redazione

      Ognuno di noi ha le sue convinzioni. Ma l’articolo di Skirbekk citato in nota è una rassegna sui risultati scientifici al riguardo, cercando di lasciare le opinioni da parte. Perlatro, il mio articolo sostiene appunto che non è l’età che conta ma gli incentivi e le abilità individuali.

  2. bruno di gioacchino

    Ho subito mobbing violento per uscire da IBM Italia spa nel 1994.
    Ero un analista amministrativo ed ero abituato a “cambiare” ed alla “formazione continua”.
    Quando mi sono reso conto di ciò che stavano attuando in azienda, ho chiesto ripetutamente e per scritto di essere “utilizzato” in alti settori anche lontano dalla mia residenza, per essere partecipe al cambiamento in atto. Niente da fare ! Sono stato costretto a dare le dimissioni ed avevo 44 anni ed un figlio piccolo.
    Non è vero che il problema degli over 50 è quello della inamovibilità ! Il problema è legislativo, fiscale e di mentalità ed incapacità imprenditoriale.

    • La redazione

      Mi dispiace per la sua sfortunata esperienza personale. E’ vero che negli uffici del personale (e tra i middle manager) ci sono un po’ di preconcetti e di discriminazioni verso i lavoratori over 50 (nella pubblicazione OECD che cito nell’articolo e in un’altra specifica sulla finlandia “ageing and
      employment policies” si parla più estesamente del problema). ma l’unico modo per andare contro i preconcetti è far capire a chi li ha che non sono fondati.
      Occorre dunque favorire l’integrazione tra giovani e anziani sui posti di lavoro, cercando di favorire il loro reinserimento quando perdono il posto, non difendendo con le barricate i posti esistenti.

  3. Massimiliano Manfredi

    Interessante articolo, ma vorrei manifestare alcune perplessità: è stato più volte ribadito in tutte le sedi utili che l’età pensionabile si deve elevare (per quanto mi riguarda non troverei affatto strano se venisse elevata fino a 70/72 anni) , d’altro canto si ripete che il lavoratore over 50 non garantisce più il valore aggiunto che l’impresa moderna pretende, e questo per la sua anelasticità, per la sua difficoltà ad adattarsi o a volere il cambiamento ( anche su questo dissento ). La conseguenza è che lavorando su questi teoremi le aziende si troveranno una pletora di funzionari ed operatori fortemente demotivati ( e questo non sembra un traguardo appetibile ) . Trovo pesantemente contradditorio il fatto che, mentre si fanno questi ragionamenti sull’età pensionabile, non si tenga conto del come motivare razionalmente e senza regalie chi rimane. E’ mia convinzione che se in tutto il mondo del lavoro (soprattutto il settore pubblico e pubblico allargato) si operasse su meritocrazia e risultati il turn over si realizzerebbe superando le discriminazioni per età e sesso. Dopo le quote rosa che non sembra costituiscano una conquista, non vorremmo, nè dovremmo arrivare pure arrivare alle quote grigie. Sono un vs attento lettore ed estimatore, gradirei una risposta .

    • La redazione

      il mio articolo suggerisce proprio che a ridurre la produttività non è l’età, ma semmai l’anzianità di servizio nello stesso lavoro.

  4. michele

    Gli autori sostengono che l’esempio finlandese dimostra come non sia particolarmente svantaggioso, nelle produzioni di tipo meno innovativo, mantenere occupate le fasce di età più alta. Nel caso della Nokia – e in generale del high tech – si dimostra il contrario e sono le fasce di età inferiore quelle che manifestano le caratteristiche utili all’innovazione necessaria.
    Quindi, già la tipologia del settore di attività influisce ma varrebbe la pena, anche sulla scorta delle osservazione fatte dai lettori in altre mail (quello allontanato dall’IBM nonostante la sua disponibilità al cambiamento e quello che osserva come la docenza universitaria possa addirittura migliorare con l’età) riflettere più a fondo sui margini di “identificazione” e “creatività” che un lavoro richiede e consente. Qui, aldilà dei diversi settori produttivi , non si può far a meno di notare che le organizzazioni fortemente gerarchizzate spesso ostacolano la creatività per loro “natura” (ad es. privilegiando altri fattori, quali la “solidarietà” tra gruppi dirigenti o omologhi in quanto fattore di stabilità e potere), rendendo così la capacità di adattamento al nuovo sprecata.
    Proviamo a riflettere, invece, sui tanti artisti, operanti in campo musicale, pittorico, architettonico ecc., che hanno prodotto al meglio in tarda età, quando ci sono arrtivati. Persino gli “esecutori”, ad esempio Horowitz, “supplivano” con altro alla minore efficienza fisica.
    Insomma, non mi pare utile affrontare il problema riducendolo essenzialmente a uno strumento di regolazione del mercato e del costo del lavoro. In tal modo si trascurano fattori e dimensioni che sono necessari (oltre a Marx qualsiasi studioso di etologia umana, di comportamentivismo o di sociobiologia lo sa) per far si che l’essere umano mantenga il senso forte del proprio agire, senza il quale l’esercizio del lavoro evidenzia prevalentemente i suoi aspetti costrittivi,negativi, disincentivanti.

  5. Fabio Pancrazi

    L’anzianità di servizio nello stesso lavoro è “terribile”. Io faccio il vigile urbano e cambierei lavoro molto volentieri. Certo senza perdere soldi, già sono così pochi!
    Inoltre non credo proprio che la capacità lavorativa e la vita media continueranno ad aumentare in modo costante e, di conseguenza, aumenti la spesa pensionistica.
    I nostri vecchi attuali ed immediatamente prossimi hanno avuto una selezione naturale, hanno quasi tutti dei fratelli deceduti per vari motivi, oggi non muore più nessuno da piccolo perché siamo “polli di allevamento”.
    Hanno mangiato poco, la cosiddetta “dieta mediterranea”, oggi mangiamo troppo e delle porcherie.
    Poi, ai primi sintomi di malattia hanno trovato il periodo giusto con i medicinali che hanno loro allungato la vita.
    Io, cinquantatreenne, non arriverò sicuramente ad essere un novantenne, non raccontatemelo per lasciarmi al lavoro fino all’ultimo respiro: la riforma in vigore mi ha già portato il miraggio della pensione da 57 a 62 anni, quando, casualmente, avrò anche 40 anni di contributi. Non basta ancora?

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