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La class action all’italiana non aumenta la responsabilità dei produttori

Negli Stati Uniti le azioni collettive svolgono un ruolo molto importante per il risarcimento di danni causati da prodotti difettosi e fondate sulla responsabilità civile dei produttori. Basterà una legge sulle class action per diffondere anche in Italia una simile tradizione? Probabilmente no. Perché il regime di responsabilità oggettiva è stato introdotto in Europa nel 1985, ma raramente vi si è fatto ricorso. E restano notevoli le differenze con gli Usa nelle garanzie offerte dallo Stato sociale e nel costo di accesso alla giustizia.

L’introduzione delle azioni collettive crea legittime aspettative di maggior protezione dei risparmiatori, frequenti vittime di clamorosi scandali finanziari, e induce a sperare nel risarcimento individuale dei consumatori danneggiati dalla formazione da cartelli già sanzionati dall’Autorità antitrust. Tuttavia, l’esperienza degli Stati Uniti evidenzia un ruolo altrettanto importante delle azioni collettive per risarcimento di danni causati da prodotti difettosi e fondate sulla responsabilità civile dei produttori. Coprono una vasta categoria di incidenti: dalle contaminazioni con amianto ai danni prodotti da farmaci, dalle trasfusioni con sangue infetto alle esplosioni di contenitori. La loro popolarità è cresciuta fino al punto di ispirare alcuni romanzi, la cui trama ruota intorno a risarcimenti milionari, da ripartire fra vaste platee di vittime e pochi professionisti del diritto.
Basterà una legge sulle class action per diffondere anche in Italia una simile tradizione? Probabilmente no, dal momento che restano notevoli le differenze fra Europa e Stati Uniti per quanto riguarda il regime di responsabilità oggettiva del produttore, le garanzie offerte dallo Stato sociale e il costo di accesso alla giustizia.

Gli effetti del regime di responsabilità oggettiva

Negli Usa la diffusione di questo genere di azioni collettive è avvenuta dopo l’introduzione del regime di responsabilità oggettiva del produttore, secondo il quale la vittima non deve più dimostrare il comportamento colposo del fabbricante. In genere, è sufficiente la prova del danno e del difetto, eventualmente integrata dalla dimostrazione del legame causale fra essi. Tale regime è ritenuto più efficiente rispetto alla responsabilità per colpa (soggettiva), nella misura in cui dovrebbe indurre le imprese a internalizzare i costi degli incidenti, scaricandoli sui prezzi, inducendo un contenimento delle attività rischiose attraverso il mercato. La diffusione quasi epidemica delle cause e la crescita esponenziale dei risarcimenti ha però provocato il fallimento del mercato di alcuni prodotti, la cui offerta era divenuta troppo rischiosa, e ridotto la copertura assicurativa accordata alle imprese.
Nel 1985 il regime di responsabilità oggettiva fu introdotto anche in Europa, con la direttiva 85/187. Malgrado le preoccupazioni della comunità industriale, la direttiva non sembra aver prodotto né incrementi dei risarcimenti, né distorsioni dei mercati. Nel 2001 uno studio della Commissione europea contava non più di novanta casi fondati sulla direttiva. Nel 2003, un’altra ricerca notava l’incremento dei patteggiamenti extra-giudiziali per liti inerenti a prodotti difettosi. Tale effetto non veniva però attribuito alla direttiva, bensì alla crescita di attenzione per la qualità dei prodotti e alla preoccupazione delle imprese di non perdere la propria reputazione.
Lo scarso impatto della direttiva potrebbe essere imputato alle limitazioni e agli esoneri dal regime di responsabilità. Per esempio, non possono essere risarciti danni inferiori a 500 euro e questa franchigia, utile alla ripartizione del rischio, limita le compensazioni dei danni di piccola entità. Un altro limite riguarda l’ammontare massimo del risarcimento per danni causati da molteplici esemplari dello stesso prodotto. L’introduzione delle class action sarebbe quindi destinata a scontrarsi con questi confini. Il regime europeo risente dell’esenzione accordata alle imprese in caso di sviluppo di nuovi prodotti. Se le imprese dimostrano che lo stato delle conoscenze scientifico-tecnologiche non era tale da renderle edotte sugli effetti nocivi del prodotto, quando era stato introdotto sul mercato, allora non saranno ritenute responsabili dei danni causati successivamente. L’esonero è stato raramente invocato nella giurisprudenza. La resistenza contro la sua eliminazione, opposta sia dalle imprese che dalle compagnie di assicurazione, può essere spiegata dall’enorme portata dei risarcimenti che sarebbero dovuti in simili casi. Uno dei pochi esempi riguarda infatti le trasfusioni con sangue infetto dal virus Hiv. Resta, in questi casi, il problema sociale della compensazione delle vittime.
I limiti alla protezione del consumatore possono parzialmente spiegare lo scarso ricorso alla direttiva. In molti casi gli avvocati preferiscono fondare le richieste di risarcimento su altre leggi civili nazionali che, pur essendo basate sulla responsabilità per colpa, finiscono per essere più garantiste: ad esempio prevedono periodi di prescrizione più lunghi, oppure comprendono anche il risarcimento del danno esistenziale. Ma le differenze sostanziali fra le due sponde dell’Atlantico riguardano soprattutto le protezioni fornite dallo Stato sociale e il costo di accesso alla giustizia.

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Chi paga il costo degli incidenti?

Le protezioni universali fornite in Europa dal welfare state garantiscono alle vittime cure gratuite e benefici pensionistici in caso di danni da prodotti difettosi. L’assicurazione pubblica rende meno urgente il ricorso alla giustizia. Però, i costi degli incidenti restano a carico dello Stato, che. dovrebbe pretendere il risarcimento del danno, come avviene abitualmente in Francia, ma non in Italia e Germania. Il sistema di compensazione delle vittime in tali paesi è quindi inefficiente e poco trasparente. Senza ricorso dello Stato contro le imprese, i costi degli incidenti non sono internalizzati nelle attività che li producono e quindi gli incentivi a evitarli sono inadeguati. Gli unici deterrenti sono le regolamentazioni amministrative sulla sicurezza dei prodotti e il timore delle imprese di subire perdite di reputazione che si tradurrebbero in un calo delle vendite.

Il costo di accesso alla giustizia

Le differenze fra Europa e Stai Uniti in tema di accesso alla giustizia sono altrettanto notevoli. L’introduzione delle azioni collettive contribuirà a ridurle, ma non a colmarle. La popolarità delle class action negli Usa è legata al sistema di remunerazione degli avvocati, in base al quale la vittima versa al professionista un’elevata percentuale dei risarcimenti in caso di vittoria, ma non paga nulla in caso di sconfitta. In Europa, non solo tale sistema è poco diffuso, ma in caso di sconfitta l’attore in giudizio può essere chiamato a pagare anche le spese legali del convenuto. Ciò rende la singola azione enormemente più rischiosa per un consumatore rispetto a un’impresa impegnata in una molteplicità di cause. Spesso in Europa gli avvocati vengono remunerati in funzione della durata dei procedimenti civili, che in Italia è lunghissima e tale da scoraggiare di per sé i potenziali attori. I risarcimenti esorbitanti assegnati negli Usa sono anche riconducibili all’intervento delle giurie popolari, ritenute più emotive, e ai “risarcimenti punitivi”, che sono esclusi in Europa. Negli Usa si ritiene che abbiano la funzione di commisurare il risarcimento all’effettivo danno totale, comprendente anche i danni delle vittime non compensate in giudizio.

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  1. Alessandro

    Carissimi, il paragone fatto con gli USA, “patria” della class action è più che sensato. Manca però, a mio modesto parere, un ulteriore punto che limita ulteriormente la portata di questa legge: si applica solo ai contratti a sottoscrizione. Ciò vuol dire che in Italia non si potrà in alcun caso fare ricorso a questo strumento per porttare avanti grandi “battaglie”, come invece avvenuto negli States. Con cio’ intendo, solo per fare alcuni dei possibili esempi, l’inquinamento di una falda acquifera, danni da amianto o danni da famaco. Insomma, davvero l’ennesima legge “all’italiana” come direbbe qualche amico d’oltreoceano.

  2. stefano mannacio

    In un recente scambio epistolare con il Presidente di MDC, Antonio Longo, avevo stigmatizzato il formulato, poi approvato per errore al Senato, sull’istituzione della class action che pone una riserva quasi esclusiva alle associazioni appartenenti al CNCU. In poche parole si tradisce lo spirito originario della class action americana che dovrebbe, per i successi che ha ottenuto, essere il modello di riferimento, un modello diffuso sul territorio. Con la class action all’italiana si rischia di creare un sistema ”controllato e diretto” dal Ministro dello Sviluppo Economico, che, per legge (art. 136 del Codice del Consumo), presiede il CNCU. Le imprese non dovrebbero essere preoccupate più di tanto, salvo che il ministro di turno, alzandosi male una mattina, non decida di convocare le associazioni per invitarle, magari con la promessa di qualche finanziamento, a ”colpire un’azienda per educarne cento”. E’ evidente che i contributi potrebbero essere erogati anche per la ragione opposta! A fronte di tale scenario, le difese “corporative” del provvedimento da parte di Federconsumatori, sembrano surreali come il sostegno, a spada tratta, di Adiconsum e Adusbef. Essendo tutte associazioni appartenenti al CNCU e, guarda caso, strenue paladine dell’indennizzo diretto, comprendiamo benissimo la volontà di sostenere quello che è per loro una specie di ”asso piglia tutto”, come peraltro espresso con alcuni comunicati dall’ADUC , una associazione fuori dal coro.

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