Con la direttiva Mifid (Markets In Financial Instruments Directive) si compie un passo importante nel costruire un mercato integrato europeo dei servizi finanziari. Ma l’armonizzazione delle regolamentazioni a livello comunitario richiede tutele più forti contro i conflitti di interesse, maggiore scolarizzazione finanziaria e informazione sulle sedi di esecuzione degli scambi per evitare una loro eccessiva frammentazione. Occorre poi da noi coordinare le nuove disposizioni con le norme del Testo unico della Finanza e verificare il loro impatto sulla operatività degli intermediari.

Le sfide della Mifid, di Francesco Vella

La direttiva Mifid (Markets in financial instruments directive) è destinata a cambiare profondamente il funzionamento dei mercati finanziari e rappresenta una grande sfida con la quale in questi giorni si stanno confrontando operatori, regolatori e Autorità di vigilanza.
D’altronde, era proprio questo l’ambizioso obiettivo del legislatore comunitario: definire un nuovo quadro regolamentare in grado di creare un vero e integrato mercato europeo dei servizi finanziari.

Problemi ancora aperti

La precedente direttiva, la 93/22/Ce, aveva sicuramente rappresentato un importante passo verso questo obiettivo, ma non era più sufficiente, sia perché ormai obsoleta rispetto alle radicali trasformazioni intervenute dopo l’introduzione della moneta unica sia, e soprattutto, perché conteneva principi di carattere generale che finivano con il lasciare troppi margini di discrezionalità ai singoli Stati membri generando così approcci diversi nella regolamentazione che frenavano la competitività sui mercati.
La scelta è stata quella di passare da una “armonizzazione minima” a una “armonizzazione forte”, con una disciplina più dettagliata e prescrittiva per creare un contesto di maggiore omogeneità normativa e favorire la concorrenza e l’innovazione sui mercati.
La direttiva interviene su molteplici aspetti, dalle regole di comportamento e di trasparenza per consentire agli investitori scelte consapevoli alla organizzazione dei mercati, alla abolizione dell’obbligo di concentrazione degli scambi, alle norme sulla best execution.
Gli articoli che pubblichiamo oggi su lavoce.info non investono tutto il campo di applicazione della direttiva, ma riguardano solo alcuni specifici temi che però aiutano a comprendere le opportunità, i rischi e anche gli interrogativi posti dalle nuove regole. E questo avviene in un momento particolare: recentemente il ministero del Tesoro ha pubblicato la bozza di decreto di recepimento, sulla quale si sta ancora discutendo; nel frattempo, però, la Commissione Europea ha, a sua volta, avviato una procedura di infrazione per il mancato rispetto dei tempi previsti dalla direttiva, anche se, va detto, siamo in buona compagnia con altri 23 Stati.
Bisogna, in sostanza, fare presto e ciò non è affatto facile proprio perché i problemi ancora aperti sono molti, e dal testo dei diversi contributi emerge chiaramente,.

Tra regole e vigilanza

Al di là dei singoli profili, c’è però un aspetto di carattere generale che merita una riflessione. La scelta di seguire la linea della “armonizzazione forte” probabilmente potrà avere effetti benefici: la creazione di un sistema di norme meno frammentato previene arbitraggi regolamentari e consente a operatori e mercati una competizione ad armi pari facilitando i processi di consolidamento. E gli investitori, ovunque vadano, potranno usufruire di un apparato omogeneo di tutele. Non vi è dubbio, però, che questa scelta comporta elevati costi di compliance per intermediari e mercati, in un contesto dove, proprio sul piano comunitario, si stanno intensificando gli sforzi per realizzare un sistema di regole attento all’impatto economico sugli operatori e ispirato a criteri di analisi costi/benefici. Anche nella nostra legge sul risparmio e nella bozza di decreto di recepimento della direttiva predisposta dal ministero del Tesoro, si prevede che l’attività regolamentare delle Autorità deve ispirarsi al principio di proporzionalità, “inteso come criterio di esercizio del potere adeguato al raggiungimento del fine, con il minor sacrificio degli interessi dei destinatari”, e alla “valorizzazione dell’autonomia decisionale dei soggetti abilitati”. Bisognerà, quindi, trovare un difficile equilibrio tra una disciplina molto dettagliata e l’esigenza di minimizzare i costi della regolazione. E anche per le Autorità di vigilanza sui mercati finanziari si aprono nuove prospettive. Se la direttiva stimolerà ulteriormente le attività cross border, lo sviluppo di intermediari pan-europei e l’integrazione dei mercati, c’è da chiedersi se abbia ancora un senso conservare la giurisdizione nazionale delle singole Autorità. L’attività di coordinamento tra gli Stati membri ha indubbiamente raggiunto risultati importanti, ma forse è venuto il momento di pensare a forme di più stretta integrazione anche nella organizzazione della vigilanza sul piano comunitario.

Queste norme sono una Babele, di Renzo Costi

Alla fine degli anni Novanta, l’ordinamento italiano dei mercati finanziari sembrava aver raggiunto un assetto abbastanza stabile, fondato sui due testi unici: quello bancario del 1993 e quello sul mercato mobiliare del 1998.
I primi anni Duemila hanno profondamente inciso su quell’assetto, sia per la progressiva e necessaria attuazione di direttive comunitarie, sia per fronteggiare meglio fenomeni che avevano fatto dubitare della bontà di alcune delle scelte normative effettuate nel decennio precedente.

Come è cambiato l’ordinamento

Queste, in un rapido e lacunoso elenco, le “nuove norme“: le riforme del diritto societario e del processo societario del 2003, l’attuazione della direttiva sugli abusi di mercato del 2005, la legge sulla tutela del risparmio del 2005, il codice delle assicurazioni ancora del 2005, l’attuazione della direttive sui conglomerati finanziari, nel 2004, sulla vigilanza prudenziale, nel 2006, sui prospetti di quotazione, nel 2007, il decreto legislativo sulle forme pensionistiche complementari, nel 2005, l’attuazione delle direttive sulla commercializzazione a distanza dei prodotti finanziari, nel 2005, e sui contratti di garanzia finanziaria, sempre del 2005, l’imminente attuazione della direttiva Mifid e di quella sull’Opa.
Il governo ha poi elaborato un disegno di legge di riforma delle Autorità di vigilanza sui mercati finanziari che prospetta modificazioni molto profonde dell’ordinamento vigente, anche dal punto di vista delle norme che regolano l’attività delle banche, delle assicurazioni, delle forme pensionistiche complementari e dei servizi di investimento.
Sono numerosissimi i problemi di coordinamento che queste discipline, dettate in contesti e per scopi molto specifici, sollevano sia reciprocamente sia con i testi unici bancario e dell’intermediazione finanziaria.

Regole e coerenza

A sottolineare la mancanza di coerenza interna dell’ordinamento oggi vigente basti uno sguardo alle norme che fissano gli scopi che la vigilanza può perseguire e le materie sulle quali la stessa si esercita.Questi scopi e queste materie sono individuati in modo diverso a) dall’articolo 5 del Tub (“le autorità creditizie esercitano i poteri di vigilanza a esse attribuiti dal presente decreto legislativo, avendo riguardo alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilità complessiva, all’efficienza e alla competitività del sistema finanziario”); b) dall’articolo 5 del Tuf oggi vigente (“la vigilanza sulle attività disciplinate dalla presente parte ha per scopo la trasparenza e la correttezza dei comportamenti e la sana e prudente gestione dei soggetti abilitati, avendo riguardo alla tutela degli investitori e alla stabilità, alla competitività e al buon funzionamento del sistema finanziario”); c) dall’articolo 5 dello stesso Tuf così come si progetta di riscriverlo dando attuazione alla direttiva Mifid (“la vigilanza sulle attività disciplinate dalla presente parte ha per obiettivi: a) la salvaguardia della fiducia nel sistema finanziario; b) la tutela degli investitori; c) la stabilità e il buon funzionamento del sistema finanziario; d) la competitività del sistema finanziario; e) l’osservanza delle disposizione in materia finanziaria”); d) dall’articolo 3 del codice delle assicurazioni (“la vigilanza ha per scopo la sana e prudente gestione delle imprese di assicurazione e di riassicurazione e la trasparenza e la correttezza dei comportamenti delle imprese, degli intermediari e degli altri operatori del settore assicurativo, avendo riguardo alla stabilità, all’efficienza, alla competitività e al buon funzionamento del sistema assicurativo, alla tutela degli assicurati e degli altri aventi diritto a prestazioni assicurative, all’informazione ed alla protezione dei consumatori”); e) dall’articolo 18 del decreto legislativo sulle forme pensionistiche (“il ministero del Lavoro e delle politiche sociali vigila sulla Covip ed esercita l’attività di alta vigilanza sul settore della previdenza complementare, mediante l’adozione, di concerto con il ministero dell’Economia e delle finanze, di direttive generali alla Covip, volte a determinare le linee di indirizzo in materia di previdenza complementare); f) dagli articoli 1, 3° comma (“restano ferme le funzioni di indirizzo generale e di alta vigilanza del governo e dei ministri nelle materie di cui alla presente legge e le competenze di regioni ed enti locali previste dalla normativa vigente”) e 9 (il Comitato per la stabilità finanziaria “anche al fine di consentire l’esercizio dei compiti di cui all’articolo 1, comma 3, promuove, attraverso la collaborazione e lo scambio di informazioni, la stabilità finanziaria e la soluzione delle crisi delle società e dei gruppi bancari e finanziari che possono influire sull’intero sistema finanziario”) del progetto governativo di riforma delle Autorità.
Alcune di queste norme danno indicazioni molto impegnative all’Autorità di vigilanza, ma solo per determinati settori (così per il mercato mobiliare l’Autorità deve adottare, come criterio per la propria attività, quello della “salvaguardia della posizione competitiva dell’industria italiana”).
E per quanto riguarda i mercati alcune norme si preoccupano di garantirne “l’integrità”, ma altre tendono ad assicurarne “il buon funzionamento” e altre ancora vogliono promuoverne “la sana e prudente gestione”.
A me pare che sia necessaria una rilettura coordinatrice di questa massa straripante di norme, dal punto di vista sia dei contenuti sia delle tecniche legislative (1), sia dei limiti entro i quali è opportuna la delegificazione. Oggi è già un’impresa rintracciare le norme in vigore.

Non solo coordinamento: la nuova Opa

Leggi anche:  Chi ha visto arrivare Trump, dalle scommesse alla finanza

Ma, in realtà, sembra non solo necessaria una riscrittura di molte norme, ma anche qualche modificazione delle scelte a suo tempo effettuate: così è forse opportuno abbandonare la soglia del 30 per cento come presupposto per l’Opa totalitaria, prevedendo il relativo obbligo ogni qualvolta muti il controllo.
Il governo dovrebbe assumere un’iniziativa di coordinamento delle norme esistenti e di un loro “aggiornamento” per evitare che i vizi dell’ordinamento incidano sull’efficienza della industria finanziaria italiana.


(1)
Sono state riprodotte nel nostro ordinamento espressioni contenute nelle direttive senza misurarne la compatibilità con il lessico giuridico italiano.

E con la direttiva arriva la competizione tra sedi, di Mario Anolli e Giovanni Petrella

Il dibattito sull’offerta di servizi di negoziazione è sbilanciato sul tema degli assetti proprietari delle borse e rischia di trascurare un elemento che la influenzerà a breve scadenza e in misura maggiore: l’entrata in vigore, dal 1° novembre 2007, della direttiva Mifid.
La direttiva prevede che gli Stati membri non possano più imporre l’obbligo di esecuzione sui mercati regolamentati degli scambi su titoli ivi quotati. Ciò avrà effetti dirompenti sull’attuale assetto dei servizi di negoziazione di titoli, almeno per come lo conosciamo in Italia, e potrebbe averne anche sulla qualità del mercato (in termini di liquidità ed efficienza)

Vantaggi e svantaggi della frammentazione

Conseguenza immediata e diretta di tale previsione sarà la potenziale frammentazione degli scambi su più sedi di esecuzione (le cosiddette trading venues). Potrebbe portare con sé alcune conseguenze positive, quali l’aumento delle possibilità di scelta per i portatori di interessi di negoziazione; l’incremento della concorrenza fra sedi di esecuzione per attrarre il flusso di ordini; il conseguente incentivo all’innovazione. La frammentazione presenta tuttavia anche dei rischi: riduzione della liquidità e minore efficienza del processo di price discovery. Infatti, liquidità e efficienza del processo di price discovery sono “automaticamente” promosse in un mercato concentrato dove, per definizione, la liquidità presente di tempo in tempo è la massima possibile (non vi sono scambi fuori dal mercato). Inoltre, la concentrazione di tutte le intenzioni di acquisto e di vendita in un solo luogo minimizza la possibilità di esecuzione degli ordini a condizioni sub-ottimali, ovvero un acquisto (vendita) su un mercato a un prezzo più alto (basso) di quello allo stesso momento disponibile su un mercato diverso. Infine, il mercato concentrato, per definizione, offre a tutti gli investitori (retail e professionali) tendenzialmente le medesime condizioni di esecuzione. Per l’investitore al dettaglio questo è un grosso vantaggio perché gli consente di avere le stesse condizioni di investitori più esperti e informati.

Competizione fra sedi

Nell’equilibrio che dovrà essere raggiunto tra vantaggi e svantaggi sarà determinante il concreto grado di competizione che si genererà tra sedi di esecuzione. Mentre gli effetti negativi saranno inevitabili in quanto direttamente connessi con l’esecuzione degli ordini su più sedi, quelli positivi saranno eventuali e proporzionali al grado di concorrenza che si realizzerà. La Mifid comporterà una radicale evoluzione del quadro concorrenziale: si passerà dal concetto di concorrenza tra ordini inviati su un solo mercato alla concorrenza tra trading venues per attrarre il flusso di ordini.
Negli Stati Uniti, ove lo stesso titolo è negoziato su diverse trading venues, la concorrenza effettiva è promossa dall’obbligo per ognuna di queste a pubblicare, con frequenza mensile, una serie di statistiche su indicatori di costi e rapidità dell’esecuzione. In assenza di un book centralizzato che consenta di operare direttamente in acquisto e vendita e non solo di diffondere informazioni, la disciplina di mercato ha bisogno di informazioni sulla qualità di esecuzione degli ordini, per consentire un agevole confronto tra le diverse sedi di esecuzione. È l’approccio sotteso all’introduzione nel novembre 2000 della Rule 11Ac 1-5 (nota anche come “Dash5”) da parte della Securities and Exchange Commission . La Rule Dash5 obbliga i mercati a produrre e diffondere con cadenza mensile statistiche sul quali il bid-ask spread effettivo, il bid-ask spread realizzato, il tempo di esecuzione degli ordini, l’entità del price improvement.
Tali informazioni consentono di realizzare una forma di concorrenza intertemporale tra sedi di esecuzione, in sostituzione della concorrenza sincrona tra ordini concentrati su un’unica sede di esecuzione. In teoria, mercati frammentati potrebbero essere consolidati attraverso un book degli ordini centralizzato, noto come Consolidated/Centralized Limit Order Book, Clob.
L’Unione Europea ritiene però che sia opportuno lasciare al libero agire delle forze di mercato la ricerca della soluzione migliore per il consolidamento delle informazioni. Inoltre, la realizzazione di un Clob presenterebbe elevati costi di coordinamento e potrebbe ridurre l’incentivo all’innovazione.

Quale informazione

Con il venir meno della concentrazione diventa pertanto fondamentale che gli operatori dispongano delle informazioni necessarie per poter valutare la convenienza relativa delle diverse sedi di esecuzione degli scambi, ovviamente al minor costo e nel minor tempo possibili. Non è sufficiente al proposito la trasparenza ex post imposta dalle regole Mifid, poiché serviranno elaborazioni di secondo livello, cioè basate sull’elaborazione di misure di qualità comparata delle diverse sedi di esecuzione, e di immediata interpretabilità, come per esempio la misurazione del costo medio ponderato – price impact – della negoziazione che si intende effettuare. Sistemi di comparazione della qualità di esecuzione sono già diffusi negli Usa. (1)
Un’ulteriore soluzione che consente di conciliare in maniera efficiente la presenza di più sedi di esecuzione con la tutela dell’investitore, e quindi di soddisfare il criterio di best execution delle negoziazioni imposto dalla Mifid (ovvero dell’esecuzione degli ordini della clientela da parte delle imprese di investimento alle migliori condizioni pro tempore possibili), può essere data dal ricorso a smart order routing systems (Sorss), cioè a sistemi in grado di selezionare la migliore sede di esecuzione. Lo sviluppo di sistemi simili rappresenterà la manifestazione concreta del passaggio dalla concorrenza tra ordini alla concorrenza tra mercati.


(1)
Trading cost analysis forniti ad esempio da Qsg, Itg, Abel/Noser e Elkins/McSherry.

Un passo indietro sul conflitto d’interessi, di Alessandro V. Guccione

Il risarcimento dei danni subiti dai risparmiatori italiani nei noti casi Cirio, Argentina eccetera è stato agevolato dalla disciplina Consob in materia di operazioni in conflitto di interessi: il recepimento della direttiva Mifid, che prevede solo obblighi informativi e organizzativi, rischia di determinare un paradossale arretramento nella tutela dei clienti di fronte all’intermediario interessato, arretramento al quale il legislatore italiano non potrà (verosimilmente) apportare alcun correttivo.

Il caso Cirio

Tra il 1999 e il 2002 il gruppo Cirio emise bond per circa 1.125 milioni di euro. Furono oggetto di un collocamento presso investitori professionali, in primo luogo banche e, tra queste, anche alcune di quelle più esposte nei confronti del gruppo. Complice la scarsa educazione finanziaria degli investitori, allettati dagli alti rendimenti e privi della giusta percezione dei rischi che li giustificavano, le banche furono in grado di piazzare i bond presso la propria clientela retail, nonostante l’evidente conflitto d’interessi che l’operazione implicava per quelle esposte nei confronti di Cirio: in effetti, all’incirca per metà i fondi raccolti attraverso l’emissione dei bond furono usati per estinguere il debito verso le banche.
Ne sono seguite numerose cause civili, in alcune delle quali i risparmiatori sono stati in grado di ottenere un risarcimento giovandosi, in particolare, di una disposizione del regolamento Consob che vieta le operazioni in conflitto d’interessi in mancanza (a) di previa dichiarazione dell’interesse da parte della banca e (b) di autorizzazione da parte del cliente, debitamente documentate.
Contrariamente alla comune aspettativa per cui, in generale, le norme comunitarie portano a un innalzamento delle tutele e a un miglioramento del quadro giuridico per i consumatori, l’attuazione della Mifid rischia di ridurre le tutele dei clienti in casi di conflitti d’interessi nella prestazione di servizi finanziari. Vediamo perché.

Dal Tuf alla Mifid

La disciplina dei conflitti di interesse in Italia si articola oggi su due livelli: quello delle misure organizzative che l’intermediario deve predisporre per ridurre al minimo il rischio di conflitti di interessi, e quello dei doveri di comportamento nei confronti della clientela nei casi di conflitto (trasparenza ed equo trattamento). (1) Questi ultimi hanno formato oggetto di una lettura forte da parte della Consob che ha dettato la norma in tema di dichiarazione e autorizzazione.
La strada seguita dal legislatore comunitario diverge da questa in un passaggio fondamentale per la tutela dei clienti: la Mifid impone agli intermediari di identificare i conflitti di interessi organizzandosi in modo da evitare quelli dannosi, ma a differenza del diritto italiano non prevede alcun obbligo di astensione, limitandosi a obbligare l’intermediario a rendere nota al cliente l’esistenza e le ragioni dei conflitti potenzialmente dannosi che le proprie misure organizzative non abbiano neutralizzato. La valutazione dei presupposti della comunicazione al cliente è sostanzialmente rimessa alla discrezione dell’intermediario.
La legislazione comunitaria non chiarisce inoltre se l’intermediario sia tenuto a comunicare l’esistenza del conflitto in relazione alle singole operazioni per conto del cliente ovvero se l’informazione possa avvenire una volta per tutte all’inizio del rapporto contrattuale o comunque nel momento in cui viene individuata o sorge la situazione conflittuale che interessa il singolo cliente. Neppure chiaro è se spetti ai legislatori nazionali il compito di individuare in dettaglio le informazioni che l’intermediario deve fornire al cliente in caso di conflitti. Vi è pertanto da temere che l’informazione sui conflitti d’interessi si troverà tra la sfilza di documenti che il cliente riceve (e sottoscrive) quando conclude il contratto relativo a uno o più servizi d’investimento.
In questo quadro, la tutela del cliente sarà affidata, più che a specifici doveri informativi, al generale obbligo di agire in modo “onesto equo e professionale per servire al meglio gli interessi dei (…) clienti”, come si esprime la Mifid. Ma sarà più arduo, per il cliente, dimostrare una violazione di quest’obbligo che contestare la mancanza di una previa dichiarazione e autorizzazione dell’operazione in conflitto.
Alla luce di tutto ciò, l’effettività della tutela che la Mifid offrirà al risparmiatore in materia di conflitti di interessi pare inferiore a quella, pur non perfetta, assicurata dall’attuale disciplina.

Leggi anche:  Il destino di Unicredit-Commerzbank si gioca tra Berlino e Francoforte

L’attuazione della Mifid: lo stato dei lavori

D’altra parte, un intervento correttivo da parte del legislatore italiano era ed è ragionevolmente da escludersi: in virtù della Mifid, obblighi ulteriori rispetto a quelli comunitari potrebbero essere imposti soltanto alle banche italiane (e non a quelle comunitarie che pure operino in Italia in regime di libera prestazione dei servizi) e solamente nei limiti in cui essi siano obbiettivamente giustificati in relazione “a rischi specifici per la protezione degli investitori” (articolo 4, direttiva 2006/73). I soggetti regolati hanno avuto e hanno molte frecce al proprio arco per convincere il legislatore e le autorità di vigilanza a non imporre vincoli maggiori: si troverebbero assoggettati a regole più severe di quelle applicabili ai concorrenti provenienti da altri paesi comunitari; la mole di obblighi organizzativi, informativi e di comportamento più in generale previsti dalla Mifid ai quali adeguarsi è già di per sé tale da imporre costi significativi; e possono sostenere che regole ulteriori sarebbero illegittime, in quanto non giustificate in relazione a rischi specifici per la protezione degli investitori.
Non sorprende dunque che la bozza di decreto di recepimento della direttiva si limiti a ricalcare la disciplina comunitaria, rinviando peraltro del tutto alla disciplina secondaria di Consob e Banca d’Italia (di là da venire) per quanto concerne l’informazione sui conflitti d’interessi.

Imparare dagli errori

L’attuazione delle norme della Mifid in materia di conflitto d’interessi, in virtù delle scelte compiute a livello comunitario, rischia dunque di incidere negativamente sul grado di tutela riconosciuto agli investitori. Vi è solo da sperare che sia le banche sia gli investitori abbiano imparato dagli errori del passato: le une nella sottovalutazione degli effetti negativi, in termini di reputazione, di comportamenti dolosi o gravemente colposi nella gestione del conflitto tra il ruolo di finanziatore delle imprese e di esecutore di ordini e consulente degli investitori. Gli altri nell’ignorare che alti rendimenti si accompagnano sempre a rischi elevati e che non sempre l’intermediario che si trovano di fronte ha esclusivamente a cuore gli interessi della clientela.

(1) Articolo 21 Tuf.

Ma non tutti i risparmiatori sono uguali, di Simonetta Cotterli

Le nuove regole della direttiva Mifid hanno l’obiettivo di creare un mercato in cui gli intermediari dovranno agire in modo onesto, equo e professionale, per servire al meglio gli interessi dei clienti. (1) La protezione degli investitori dovrà essere assicurata anche dall’informazione, ritenuta la miglior arma per combattere eventuali “inefficienze” o “prepotenze” a danno dei risparmiatori.

L’informazione per gli investitori: la “giusta dose”

Secondo la direttiva, però, non tutti i risparmiatori sono uguali e “le misure destinate a proteggere gli investitori dovrebbero essere adeguate alle specificità di ciascuna categoria”. (2)

I doveri di informazione potranno risultare superflui per la tutela di alcuni clienti, quelli che per caratteristiche intrinseche possono essere considerati capaci di valutare la rischiosità degli investimenti, e necessari, invece, per un’efficace salvaguardia degli altri meno “sofisticati”. L’informazione dovrà essere calibrata e misurata proprio su questi ultimi. Il rischio tipico è infatti rappresentato non solo dalla mancanza, ma anche da un eccesso di informazioni, dal contenuto troppo tecnico, che sommerga l’ignaro risparmiatore. Spesso gli annunci di prodotti di investimento richiamano l’esistenza del prospetto informativo, ma quante sono le persone che realmente lo leggono e soprattutto decidono in base alle notizie offerte? Secondo la direttiva bisogna consentire a tutti coloro che si accostano al mercato finanziario di poter “ragionevolmente comprendere la natura del servizio di investimento e del tipo specifico di strumenti finanziari che vengono loro proposti nonché i rischi a essi connessi. Perché possano, di conseguenza, prendere le decisioni in materia di investimenti con cognizione di causa”. (3)

Le informazioni dovranno essere non solo date, ma anche raccolte e l’impresa sarà tenuta a predisporre un flusso informativo binario, verso il cliente e dal cliente stesso, come già prevede il nostro ordinamento. Ed è importante sottolineare che destinatari degli obblighi informativi saranno anche i “potenziali” clienti, quindi coloro che hanno concluso o concludono un contratto di prestazione di un servizio di investimento e coloro che si accostano a un’impresa di investimento con la possibile intenzione di concludere un contratto futuro.

Tre categorie di clienti

La direttiva individua tre categorie di clienti: al dettaglio, professionali e controparti qualificate. (4) Solo ai primi l’intermediario sarà tenuto ad assicurare l’integrale applicazione di tutte le disposizioni previste dalla direttiva. E in particolare a ricevere e dare tutte le informazioni richieste dalla normativa. Le operazioni concluse con controparti qualificate (imprese finanziarie o di particolare qualità e dimensione oppure enti, come governi o banche centrali) sono invece esentate dall’applicazione di numerose regole di trasparenza. (5)

Da queste possono essere escluse, ed è qui la novità, anche le attività esercitate nei confronti dei clienti professionali, categoria che viene individuata in maniera molto dettagliata, lasciando pochi, forse troppo pochi, margini alla regolamentazione secondaria che dovrà precedere l’applicazione delle nuove regole.

Accanto a una definizione generale, che individua nel cliente professionale “un cliente che possiede l’esperienza, le conoscenze e la competenza necessarie per prendere le proprie decisioni in materia di investimenti e valutare correttamente i rischi che assume” (6), la Mifid fissa ulteriori requisiti. In particolare, nel caso si tratti di persona fisica, singolo investitore privato, richiede due presupposti. Il primo, che sia il cliente stesso a farne richiesta scritta all’intermediario, il secondo, che possieda almeno due di tre requisiti: una data frequenza nell’effettuare operazioni di significative dimensioni, nel possedere un portafoglio di una certa entità, nel lavorare, o aver lavorato in passato per un anno almeno, in una posizione professionale tale da richiedere specifiche competenze in materia finanziaria. (7)

È questo uno degli aspetti più delicati e importanti per i suoi risvolti pratici, della nuova disciplina. Infatti, le misure di attuazione della direttiva dovranno determinare con oculatezza i confini propri delle diverse tipologie di clientela alle quali è opportunamente collegato un diverso grado di tutela.

Occorrerà, in sostanza, realizzare adeguate e rigorose protezioni per gli investitori, evitando, però, di porre a carico delle imprese di investimento obblighi che comportino oneri elevati, ma di scarsa utilità. È indispensabile che sia trovato un equilibrio tra le effettive esigenze di informazione e i costi imposti agli intermediari per adempiervi. Costi che l’informazione comporta sia in quanto tale, sia nell’ottica del controllo che le imprese dovranno garantire in relazione alla compliance.

Non solo regole

Perché l’informazione sia un effettivo strumento di tutela dell’investitore è però necessario che questi si ponga anche quale parte “attiva”, combattendo la sua naturale propensione ad affidarsi passivamente all’intermediario e sviluppando, al contrario, una certa capacità critica che lo guidi nelle scelte di investimento. Le imprese di investimento, le Autorità di vigilanza, e anche le associazioni dei consumatori, cui peraltro l’attuale versione del disegno di legge di attuazione della direttiva affida la rappresentanza in giudizio per la tutela degli interessi collettivi degli investitori, sono chiamate a svolgere un compito collaterale, ma necessario, di “scolarizzazione finanziaria”, promovendo occasioni destinate a incrementare l’educazione finanziaria di tutti, con beneficio non solo dei singoli destinatari, ma anche del buon funzionamento complessivo di tutto il mercato.

(1) Vedi articolo 19, comma 1, direttiva 2004/39/Ce.

(2) Vedi considerando n. 31 direttiva 2004/39/Ce.

(3) Vedi articolo 19, comma 3, direttiva 2004/39/Ce.

(4) Attualmente la Consob riconosce con regolamento la “speciale categoria di investitori” degli “operatori qualificati”, esentando dall’applicazione di alcune regole i rapporti tra questi ultimi e gli intermediari autorizzati (art. 31 reg. 11522 del 1° luglio 1998, modificato con delibera n. 13710 del 6.8.2002).

(5) “Gli Stati membri possono altresì riconoscere come controparti qualificate altre imprese che soddisfano requisiti adeguati determinati in precedenza, comprese soglie quantitative”. Articolo 24, direttiva 2004/39/Ce, comma 3 e comma 2.

(6) Allegato II della direttiva Mifid, dir. 2004/39/Ce.

(7) Per le operazioni la frequenza media deve essere di dieci a trimestre nei quattro trimestri precedenti e il portafoglio superiore a 500mila euro. Allegato II della direttiva.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  L'eccesso di liquidità è qui per restare*