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A conti fatti, l’America è più lontana *

Il declino economico dell’Europa rispetto agli Stati Uniti si basa sull’osservazione che a partire dai primi anni Novanta il divario tra i rispettivi Pil pro capite ha ripreso ad allargarsi. Ma questo dato non è una misura adeguata del successo economico di un paese perché trascura la produzione non per il mercato e gli investimenti immateriali. Tuttavia, anche se prendiamo in considerazione le due voci, la situazione non migliora. Anzi, il declino relativo dell’Europa potrebbe essere ancora più marcato di quanto appare dalle statistiche ufficiali.

Il confronto sul successo economico dei vari paesi è invariabilmente basato sull’analisi del Pil pro-capite. In particolare, il recente declino economico dell’Europa continentale si fonda sull’osservazione che a partire dagli anni Novanta il divario nel Pil pro-capite tra i grandi paesi dell’Europa continentale e gli Stati Uniti ha ripreso ad allargarsi. Il divario era rimasto sostanzialmente stabile dai primi anni Settanta, mentre era diminuito nel periodo del “miracolo economico” del dopoguerra, gli anni Cinquanta e Sessanta (vedi figura 1).


Figura 1

Fonte: Penn World Tables, con aggiustmento per parità di potere d’acquisto

Tuttavia, il Pil non è una misura adeguata perché trascura due voci importanti: la produzione domestica, ovvero i beni e servizi non prodotti per il mercato, e gli investimenti immateriali, cioè l’accumulazione di conoscenza utile alla produzione che incrementa i futuri profitti e la futura produttività. Se considerassimo le due voci, il confronto tra Europa e Stati Uniti sarebbe diverso? In particolare, si potrebbe rivedere al rialzo l’andamento recente dell’economia europea rispetto a quella Usa?

La produzione non per il mercato

Consideriamo in primo luogo la questione produzione non per il mercato. È difficile misurare che cosa è lavoro e che cosa è svago. Basta pensare a quando cuciniamo, ci occupiamo dei figli, leggiamo un libro: in tutte queste attività c’è qualcosa di entrambi gli aspetti.
La cura dei figli è un esempio particolarmente illuminante: se mia moglie è la babysitter dei figli di un’altra donna e viceversa, due salari di babysitter entrano nel Pil. Se le due signore si occupano ciascuna dei propri figli, nulla viene conteggiato. Così, una bassa partecipazione degli uomini, e soprattutto delle donne, alla forza lavoro può indurre a sottostimare il Pil pro-capite perché le ore passate a lavorare in casa non entrano nel Pil misurato sulla base dei dati di mercato. La buona cucina delle mamme italiane non entra nel Pil italiano, i cattivi panini di McDonald entrano nel Pil statunitense. Ma quanto della differenza di crescita tra Usa ed Europa si può spiegare in questo modo?
Proprio quando la convergenza economica (come misurata dal Pil pro-capite) sembrava essersi fermata, dai primi anni Settanta in poi, gli europei hanno iniziato a lavorare sempre meno per il mercato. Ciò è particolarmente vero per la Francia, la Germania e l’Italia. Mentre negli anni Cinquanta gli europei lavoravano più degli americani, oggi il numero di ore lavorate per persona in età lavorativa è di circa 25 a settimana negli Stati Uniti e di circa 17 in Francia, Germania e Italia. Ma la riduzione di orario di lavoro non si trasforma tutta in tempo libero. Quando non lavorano, gli europei non sempre si godono la vita: una buona parte del tempo che non passano al lavoro, lo dedicano al lavoro in casa. E questo accade più in Europa che negli Stati Uniti. Ciò suggerisce che il recupero europeo rispetto agli Usa non si è fermato nei primi anni Settanta, ma è proseguito anche per tutti gli anni Ottanta. Quello che è accaduto nei primi anni Settanta non è stata un’interruzione della vera convergenza economica, ma piuttosto un progressivo e massiccio spostamento, in Europa, dal lavoro per il mercato al lavoro in casa. Spostamento che negli Stati Uniti non c’è stato.
Il trend europeo a lavorare più in casa e meno per il mercato, pur non modificandosi negli ultimi anni, è andato però rallentando. Inoltre, più persone entrano nel mercato del lavoro. Dal 1996 al 2006 il numero d posti di lavoro creati negli Stati Uniti e in Europa è stato esattamente lo stesso, circa 18 milioni. Ciò suggerisce che la seconda svolta evidenziata dalla figura 1, l’allargamento del divario con gli Stati Uniti a partire dagli anni Novanta, non è un’illusione statistica e non può essere spiegato con l’aumento del lavoro in casa in Europa. Oltretutto, se consideriamo gli andamenti della produzione non per il mercato, la divaricazione dei primi anni Novanta in termini di crescita del Pil pro-capite appare ancora più pronunciata.

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Gli investimenti immateriali

Passiamo ora agli investimenti immateriali. Sono, per esempio, le spese in ricerca e sviluppo o l’acquisto di nuovi software, ma anche quanto le imprese spendono per migliorare o innovare i loro prodotti, per consolidare il marchio o per riorganizzare la produzione. Queste voci sono spesso classificate come spese intermedie, ma da un punto di vista economico sono veri investimenti, che aumentano i futuri profitti e la futura produttività.
È una differenza cruciale perché gli investimenti fanno parte del Pil, mentre le spese intermedie no. Inoltre, si tratta di cifre elevate: stime recenti indicano che per l’economia Usa, gli investimenti immateriali sono oggi maggiori dei tradizionali investimenti materiali. Una corretta classificazione di queste voci potrebbe far crescere il livello del Pil statunitense del 10 per cento.
L’importanza degli investimenti immateriali è cresciuta nel tempo, con la trasformazione verso una economia basata sulla conoscenza. Ciò suggerisce che non solo i livelli, ma anche i tassi di crescita sono sottostimati. Per gli Stati Uniti si stima che la crescita reale sia stata più elevata rispetto a quella ufficiale di circa un terzo di punto percentuale per ogni anno dai primi anni Settanta. Poiché gli investimenti immateriali hanno seguito un trend sostanzialmente costante nel periodo considerato, la crescita aggiuntiva è altrettanto uniformemente distribuita dai primi anni Settanta a oggi. (1)
Meno si sa dell’entità degli investimenti immateriali nell’Europa continentale, ma il senso comune suggerisce che probabilmente sono inferiori. Primo, la spesa in software e ricerca e sviluppo è minore rispetto agli Stati Uniti. Inoltre, la trasformazione verso un’economia basata sulla conoscenza è iniziata più tardi e il settore dei servizi rimane più piccolo che negli Stati Uniti.
Se è così, sia il livello che il tasso di crescita del Pil potrebbero essere meno sottostimati di quelli Usa.
Un’ulteriore conferma di questa ipotesi arriva dall’analisi della crescita della produttività totale dei fattori (l’incremento residuo della produttività del lavoro che non può essere spiegato dall’accumulazione del capitale fisico). Negli Stati Uniti, la componente residua della produttività ha accelerato notevolmente nell’ultimo decennio, un segno che ci sono stati altri investimenti, immateriali e difficili da misurare. Non è avvenuto altrettanto in Europa, dove invece quasi tutta la crescita della produttività può essere ricondotta agli investimenti tangibili. (2)
Dal punto di vista degli andamenti di convergenza e divergenza descritti nella figura 1, prendere in considerazione gli investimenti immateriali ci porta alla conclusione che il recupero dell’Europa sugli Stati Uniti è meno pronunciato, e l’allargamento del divario a partire dai primi anni Novanta ancora più preoccupante di quanto appare dai dati ufficiali.
Ma queste considerazioni ci portano a un’altra inequivocabile conclusione: il declino economico dell’Europa continentale rispetto agli Stati Uniti a partire dai primi anni Novanta non è un’illusione statistico. Anzi, se il Pil fosse misurato in modo corretto, il declino economico relativo potrebbe essere ancora più pronunciato di quanto è riportato nelle statistiche ufficiali.

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(1)
Vedi C. Corrado, C. Hulten e D. Sichel “Intangible Capital and Economic Growth”, Nber working paper n. 11948, 2006.
(2) Per esempio, secondo i dati Ocse sulla produttività tra il 1995 e il 2005 la componente residua della produttività del lavoro è cresciuta in media dell’1,5 per cento ogni anno negli Stati Uniti, e solo dello 0,5 per cento in Francia, Germania, Italia e Spagna (in media).

Il testo inglese è pubblicato sul sito www.voxeu.org

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Tanto rumore per nulla?

  1. Andrea Zatti

    Sarebbe forse necessario, per completezza del confronto, accennare in qualche modo anche al capitale naturale e a quello sociale, che non entrano nelle misure del PIL, o entrano solo parzialmente, ma che possono influenzarne significativamente le dinamiche future. Non è in realtà detto che la considerazione di questi due altri aspetti riduca il gap, ma mi pare importante farvi accenno per dare una raffigurazione più corretta del quadro.

  2. Tiziano Tempesta

    Osservando il grafico riportato si nota una certa ciclicità del rapporto tra GDP negli USA e in alcuni paesi europei. Anche l’aumento del divario negli anni ’90 può rientrare in parte in questa ciclicità. Non va però trascurato che il GDP USA nella seconda metà degli anni ’90 è stato fortemente gonfiato da una enorme bolla speculativa. Sarebbe utile estendere l’analisi al periodo 2000-07 per avere un quadro più preciso.

  3. Alessandro Cassinis

    Sarebbe interessante sapere come si è evoluto il reddito mediano procapite (non medio) nelle due aree di riferimento. Insomma la sensazione è che in America ci sono alcuni che hanno tantissimo, ma molti altri che se la passano davvero peggio che in Europa (Italia esclusa…).

  4. Alessandro

    Sono ovviamente d’accordo sulle conclusioni ma tutto il documento soffre di una certa carenza di dati e ci sono un po’ troppi condizionali. Stimare il PIL nella maniera suggerita dall’articolo non è facile quindi, forse, meglio non farlo prima di fare errori.

  5. Paolo Battaglia

    Forse una parte del crescente divario EU-US dal 1990 in poi può essere spiegato dall’incremento dell’outsourcing (esternalizzazione di fasi produttive), che le imprese americane – mediamente più grandi delle europee – hanno praticato prima e su scala maggiore. L’effetto è analogo all’esempio di “economia domestica” presentato dagli autori: quando la GM esternalizza la componentistica (Delphi) o l’informatica (EDS) di gruppo, le forniture incrociate entrano a far parte del PIL in misura maggiore di quando erano contabilizzate come scambi intra-gruppo. Negli anni ’90 una parte crescente di imprese americane, per ridurre i costi aziendali, esternalizza molti servizi immateriali (reti informatiche, tlc, contabilità e paghe, …) che prima non entravano interamente a far parte del PIL (almeno non nella componente profitti).
    Così, l’outsourcing interno – senza “delocalizzazione” internazionale – finisce per aumentare il valore aggiunto nazionale!

  6. yaroslav gargiulo

    1.un dubbio, che spero qualcuno mi possa togliere: norme e prassi contabili in italia sconsigliano o addirittura vietano una integrale capitalizzazione dei costi di ricerca e sviluppo. non potrebbe essere questa una causa del divario tra tassi di crescita e livelli di pil europei e americani?
    2.altro domanda: se alla crescita del pil americano ed europeo sottraessimo la mortalità infantile nelle due aree, i nuovi tassi così risultanti si riavvicinerebbero?

  7. Gianmarco Gabrieli

    Se si confronta il pil pro capite si può entrare nei voli pindarici della stima del lavoro sommerso, sia esso quello della cura dei figli o dell’evasione.
    Considerando che nell’arco di 10 anni la propensione all’attività domestica, cosi come all’evasione, possa rimanere la stessa, conviene confrontare non il valore assoluto del gdp pro capite, ma le variazioni di gdp pro capite.
    In questo modo ci si può rendere conto della tendenza del divario.

    Altro discorso è la capitalizzazione degli investimenti immateriali: io sono dell’idea che vada esclusa, in quanto il know-how può non avere uno sfruttamento economico.

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