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IL VERO NODO DELLA PRECARIETÀ

Il dibattito sulla precarietà non ha messo in discussione la visione del rapporto di lavoro come centro di esclusivi conflitti di interesse. Né ha favorito l’identificazione di un quadro unitario di tutele o l’ispirazione di un principio di efficienza del mercato cui le norme potessero dare applicazione. Utili un congruo periodo di prova e una drastica semplificazione dei contratti. Ma la patologica segmentazione del mercato del lavoro richiede un processo di revisione delle regole più ampio. Che affronti anche il tema dei licenziamenti individuali.

La precarietà è da tempo il tema centrale dei dibattiti sul mercato del lavoro del nostro paese. L’espressione merita subito una puntualizzazione: sottolineare la precarietà dei rapporti di lavoro a tempo determinato ha senso solo a fronte di un regime di forte stabilità o forte tutela dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato contro il licenziamento.

UN VINCOLO IMPLICITO

La particolare tutela della nostra legislazione contro la risoluzione di un contratto a tempo indeterminato ha fatto da sfondo ai dibattiti di questi anni, assunta come implicito vincolo imposto da motivi di opportunità politica o come irrinunciabile conquista sindacale. Da questo scenario sono emerse numerose indicazioni per contrastare la precarietà, alcune – ad esempio il "contratto unico" della proposta Boeri-Garibaldi – concentrate sulla semplificazione dei contratti e sul disegno di un percorso graduale verso un lavoro stabile. Altre – gli approcci allo "Statuto dei lavori" – concentrate su un disegno di maggiori tutele dei vari tipi di lavoro. La portata degli interventi suggeriti è alquanto diversa. Ma si può davvero considerare risolutiva una correzione dei meccanismi di ingresso che offra alle imprese garanzia di più lunga prova dei propri assunti?

MANCA IL PRINCIPIO GENERALE

È opportuna qualche considerazione di carattere più generale sul tema. Qualche dato, innanzi tutto.
Nel 1993 il 6 per cento dell’occupazione dipendente era in Italia a tempo determinato, contro una media dell’11 per cento nell’Europa a 15. Da allora le distanze si sono molto ridotte: il tempo determinato tocca il 13,1 per cento nel 2006, contro una media europea del 14,7 per cento. La scelta crescente delle imprese verso il tempo determinato, fortemente concentrata nelle assunzioni dei giovani, è stata per così dire sorretta dalla rigidità delle regole sul licenziamento e da una convenienza economica. Naturalmente, poi, alla occupazione dipendente a tempo determinato vanno assimilate le diffuse forme di lavoro autonomo, assai meno tutelate, che condividono aspetti essenziali del lavoro dipendente.
Un processo graduale e frammentato di revisione del corpo di regole del mercato del lavoro vigenti negli anni Settanta ha favorito una notevole segmentazione del mercato del lavoro e l’emergere di una struttura di tutele molto diseguale per segmenti diversi dell’occupazione. La flessibilizzazione, a partire dalla metà degli anni Ottanta, delle regole sul tempo determinato ha così prodotto nuova occupazione anche consentendo alle imprese una sorta di compensazione di altri aspetti, non toccati, di rigidità.
In generale, l’introduzione di flessibilità diretta soltanto ad "aprire varchi", ma non guidata da un obiettivo generale di tutela del lavoro anche tramite l’efficienza del mercato del lavoro, ha prodotto sì risultati, ma con molte distorsioni. Per quanto paradossale possa sembrare, il dibattito sulle forme più efficaci di tutela del lavoro è stato in Italia un dibattito a pochissime voci. La tutela, tanto semplice quanto forte, del lavoratore nel posto di lavoro, che la legislazione degli anni Settanta approntava, non è mai stata posta veramente in discussione. Né lo è stata la visione del rapporto di lavoro come sede o centro di esclusivi conflitti di interesse che quella legislazione di fatto assecondava. La natura del rapporto di lavoro, le aree del conflitto e le aree degli obiettivi comuni non sono state oggetto, in nessuno dei molteplici aspetti coinvolti, di un dibattito che favorisse l’identificazione di un quadro unitario di tutele o l’ispirazione di un principio di efficienza del mercato cui le norme potessero dare applicazione.
L’assenza di un tale principio generale, cui ispirare il raggiungimento di un corpo coeso e coerente di regole, è il problema cruciale del nostro mercato del lavoro. Se si accetta questo, è poi difficile accettare come vincolo una regolamentazione dei licenziamenti individuali che sembra prescindere dalla circostanza che la stabilità di un posto occupato con competenza e impegno è interesse tanto del lavoratore quanto dell’impresa.
Sotto questo aspetto, la vecchia norma del 1966 la quale stabiliva che, in assenza di una giusta causa o giustificato motivo di un licenziamento, l’impresa era tenuta a riassumere oppure a corrispondere una indennità compresa tra 6-14 mensilità dell’ultima retribuzione, di fatto appare oggi più moderna della norma – il famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – che impone la riassunzione alle unità che impiegano più di 15 lavoratori. La norma del 1966, modificata nel 1990 con una riduzione dell’indennità a 2.5-6 mensilità, si applica ancora, ma solo alle unità che impiegano fino a 15 lavoratori; per tutte le altre vale naturalmente l’articolo 18.
Un congruo periodo di prova e una drastica semplificazione dei contratti di lavoro sono interventi utili e forse proprio necessari. Ma la patologica segmentazione del mercato del lavoro, l’iniqua distribuzione di tutele e la mole di inefficienze che si inserisce in questo contesto richiedono un processo più ampio di revisione delle regole, un processo nell’ambito della quale si dovrà affrontare anche il tema dei licenziamenti individuali. Una chiara proposta in questa direzione è fornita da Pietro Ichino, sulla base anche di alcune indicazioni generali di Olivier Blanchard e Jean Tirole.
La politica, dal canto suo, con le sue strumentalizzazioni, i suoi veti e le sue paure, è ferma sulla raggiunta posizione di stallo su questo tema. Pressarla con un dibattito a tutto campo sulla precarietà è, particolarmente oggi, più utile che assecondarne i vincoli.

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MA È POSSIBILE TAGLIARE LE TASSE?

  1. Claudio Resentini

    Non è affatto chiaro perchè, aldilà delle solite infondate teorie economiche su presunte "efficienze" di presunti "mercati" del lavoro, che poco o nulla a che fare hanno con le persone reali, si debba mettere in discussione la tutela dei lavoratori o la visione del rapporto di lavoro come sede o fonte di conflitti di interesse. Non è chiaro perchè il diritto al lavoro, sancito anche dalla costituzione, che controbilancia, in modo già di per sè inadeguato, il diritto di proprietà dei padroni, debba sempre essere messo in discussione. Piaccia o no, il conflitto di interessi e lo squilibrio di poteri tra lavoratori e padroni esiste e il diritto del lavoro deve tenerne conto. La monetizzazione dei diritti dei lavoratori contribuisce ad una visione distorta del rapporto di lavoro, visto non più come rapporto sociale, ma come mero rapporto economico tra un fornitore di forza lavoro e un compratore di un input di produzione. E in un rapporto conflittuale purametne economico vvince chi ha più soldi, ovviamente.

  2. nicola massarelli

    Le strenue resistenze a ridurre le tutele dei contratti di lavoro tradizionali, cosi’ come il fatto che le forme contrattuali flessibili generino precarieta’, derivano dalla mancanza di opportunita’ occupazionali alternative, specie nel Sud. Perche’ realisticamente i lavoratori possano accettare una riduzione delle tutele occorre che sia facile trovare un altro lavoro e che gli ammortizzatori sociali coprano adeguatamente i periodi di disoccupazione. Lavoro in un contesto internazionale e molti colleghi stranieri sono sorpresi nel sentire che in Italia le scelte fondamentali della vita come sposarsi o avere dei figli siano fortemente condizionate dal tipo di contratto di lavoro. Senza ammortizzatori sociali adeguati e con un sistema produttivo che sembra continuamente al collasso, l’opposto dei pilastri del modello di flexicurity danese spesso preso a riferimento, una riduzione delle tutele vorrebbe dire una generale precarizzazione del mercato del lavoro.

  3. Marcello Sant'Agostino

    Penso che bisognerebbe riflettere sul paradosso italiano: una persona con contratto a termine può essere licenziata da un giorno all’altro senza bisogno di motivi o spiegazioni, mentre persone che commettono gravi mancanze o addirittura reati non possono essere licenziate e continuano a occupare un "posto di lavoro" che spetterebbe a buon diritto a uno dei tanti precari laboriosi. Penso ad addetti ai bagagli sorpresi a rubare, a assenteisti cronici e a medici che rilasciano certificati palesemente falsi, (persino un magistrato che in malattia fa le regate) a pedofili nel mondo della scuola o delle parrocchie che vengono trasferiti ad altra sede (dove non li conoscono). Altro che selezione in base al merito, basterebbe censurare il demerito.

  4. Enrico Adinolfi

    Lo scritto di Paola Potestio anzichè incentrarsi sulla natura e l’ampiezza del paesaggio si concentra sulla qualità delle stanghette degli occhiali. Il vero nodo della precarietà non è quello relativo alla regolamentazione del salto, ove per salto si intende la licenziabilità del lavoratore, ma la presenza o meno di una rete di sicurezza, un materasso su cui cadere. Dissertare del salto senza includere nell’analisi la rete è un esercizio inutile e crudele, che non comprende in alcun modo le drammatiche conseguenze della perdita del lavoro in assenza di un materasso. La questione in Italia, a fronte della presenza di un forte sindacato, è semplicemente posta in modo fuorviante. Oggetto dell’interesse della tutela da parte di un sindacato degno di tal nome, e di ciascun cittadino, dovrebbe ovviamente essere la tutela del lavoratore, e non quella del posto di lavoro. La perdita del posto di lavoro a cui non corrisponde alcun esito economico drammatico ha precisamente la valenza di un dispiacere trascurabile. La tutela del lavoratore, invece, è la questione centrale, del tutto elusa. Siamo barbari che non riescono neppure ad ispirarsi a modelli di efficienza altrui, basterebbe copiare

  5. Simone Gigli

    Trovo condivisibile la proposta di un contratto unico con tutele crescenti legate all’anzianità lavorativa ma ritengo assurdo il fatto che un’azienda sia economicamente incentivata nel suo impiego di personale a tempo determinato: tali impieghi dovrebbe soddisfare esigenze contingenti o quella parte di domanda non ancora consolidata e tale quindi da giustificare assunzioni stabili. Come mai é molto meno costoso assumere un precario che un lavoratore a tempo indeterminato? Perché il rischio legato alla non certezza dell’impiego non viene remunerato, ma anzi gli oneri sociali sono molto più bassi? Una consulenza è molto più costosa rispetto ad un’assunzione poiché il rischio viene delegato ad un soggetto terzo. Perché tale logica non si applica ai contratti a tempo determinato? Non dovrebbero gli oneri sociali essere molto superiore per contratti flessibili in modo da coprire periodi di disoccupazione del lavoratore e da disincentivarne l’abuso? Nel contratto unico di inserimento, gli oneri sociali potrebbero andare a scalare man mano che l’anzianità del contratto aumenta.

  6. andrea manetti

    Basterebbe capire, prima che copiare, la sempllcità del modello danese:licenziamento libero e allo stesso tempo massima tutela del lavoratore, quindi la sua riqualificazione e sussidiazione a spese dello stato, qualunque età egli abbia e finchè non trovi un nuovo impiego.Risultato:disoccupazione più bassa nell’area UE, una tra le più basse al mondo, servizi sociali eccellenti concessi dal risparmio di spesa ottenuto con l’annullamento implicito della "nullafacenza".Quando capiremo che tutela del lavoratore e spesa sociale improduttiva non sono coniugabili da nessuna parte, men che mai qui col debito pubblico che abbiamo?

  7. Nino Magazzu'

    In Danimarca hanno un satto di occupazione vicino all’80% ed una pressione fiscale alta, con le aliquote irpef che vanno, per i redditi medi e alti, progressivamente dal 40% al 62% ed il 30% dei danesi paga l’aliquota massima. Di cosa state parlando? L’Italia avrà un tasso di occupazione lontanissimo, una tassazione più bassa e una evasione fiscale molto più alta. Con quali soldi potremmo permetterci un sussidio vicino all’80% dell’ultimo stipendio per 3 anni come quello danese? Bisognerebbe aumentare le imposte ma salvo la sinistra arcobaleno nessuno vuole aumentarle. Inoltre anche se si decidesse di aumentarle non avendo lo stesso tasso di occupazione e quindi di persone che pagano irpef non potremmo permetterci la flecsecurity danese, come caldeggiata dai commentatori chemi precedono eccetto uno. Anche un’europarlamentare danese socialdemocratica ha detto, durante la discussione al parlamento europeo, che la flexsecurity è inconciliabile con la riduzione delle tasse. Insomma la flexsecurity costa. Il licenziamento sopra i 15 dipendenti non è possibile solo se manca una giusta causa. Gli inadempimenti contrattuali cui fa riferimento il commento qui sopra sono giusta causa.

  8. Anna Ivana Madaghiele

    Questione difficile quella del lavoro dipendente. Operando nel settore, la materia del Lavoro, me la ritrovo tutti i giorni tra le mani: le imprese assumono nell’incertezza, offrendo precarietà e bassi salari. I lavoratori poco motivati, prendono quello che viene, senza aspettarsi troppo e tantomeno dare di più. Da qui la natura del lavoro nella concezione moderna, instabile, irrilevante, conflittuale ed umiliante, fatto di abusi e furberie, dove orgoglio dell’imprenditore e professionalità del lavoratore si sono piegati al solo motore di tutto: il business. L’imprenditore e il lavoratore sono sempre più nemici e non sono maggiori tutele che li avvicineranno, anzi. Le tutele sono già tante ma inutili, finché esisterà la ricattabilità dell’imprenditore verso il lavoratore che non ha alternative migliori e che talvolta utilizza impropriamente quelle tutele, magari con la complicità del sindacato. E’ il conflitto tra chi ha il potere di ricattare e chi, risponde ad esso attraverso l’abuso di quelle tutele, che perdono il loro originario significato per divenire strumento di sfogo. Non è il sintomo che va curato, ma la causa, non la forma ma la sostanza. Serve semplificazione pratica.

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