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COME RIFORMARE IL CONTRATTO DI LAVORO

La base di partenza della discussione fra parti sociali sulla riforma della struttura della contrattazione collettiva sorvola su due questioni centrali. La prima riguarda le clausole di rinvio del Ccnl al contratto di secondo livello: andrebbe adottato il principio per cui tutto ciò che non è espressamente devoluto al livello nazionale, ricade nella sfera di agibilità del contratto aziendale. La seconda verte sull’efficacia soggettiva del contratto collettivo nel settore privato, che richiederebbe un intervento legislativo e alcuni correttivi.

L’avvio della trattativa sindacale tra la Triplice confederale e Confindustria in ordine alla riforma della struttura della contrattazione collettiva, nonostante il successivo rinvio della discussione al dopo-elezioni, rappresenta un fatto di straordinario rilievo perché documenta un interesse convergente delle parti sociali verso una, ormai indifferibile, revisione degli assetti, delle funzioni e delle competenze contrattuali. Finalmente assunto come irrinunciabile il valore del cambiamento, anche sulle soluzioni concrete sembrano emergere ampie sintonie e corrispondenze, quanto meno sulle linee di fondo. Certo, esiste un “convitato di pietra”, che è il futuro governo, il cui impulso e assunzione di responsabilità sarà determinante non solo per la buona riuscita dell’accordo, ma anche e soprattutto per la successiva fase di implementazione.

QUESTIONI DA NON SOTTOVALUTARE

Qual è la base di partenza del negoziato per le organizzazioni sindacali? Trae origine da un documento unitario che si sviluppa sui seguenti punti: i) conferma del sistema articolato su due livelli complementari, con qualche apertura in più per il secondo livello; ii) razionalizzazione e semplificazione dei contratti collettivi nazionali, che hanno raggiunto ormai una dimensione complessiva patologica (non si conosce il numero esatto dei Ccnl, pare si attesti intorno ai quattrocentocinquanta); iii) anticipazione dei tempi di apertura dei tavoli di rinnovo contrattuale (sei mesi prima della scadenza naturale) e unificazione della durata del Ccnl per la parte economica e per quella normativa a tre anni; iv) ripudio verso il ricorso a qualunque meccanismo automatico di perequazione salariale ma con contestuale allestimento di strumenti contrattuali prevenzionistici tarati sulla “inflazione realisticamente prevedibile”.
Tali ottime intenzioni di riforma non ci sembrano tuttavia sufficienti perché sorvolano su questioni centrali che non possono essere rimandate.
La prima riguarda le clausole di rinvio del Ccnl al contratto di secondo livello. Nell’impostazione del documento si rinnova l’attuale esperienza, basata sul protocollo del 23luglio 1993, di una distribuzione delle competenze regolative effettuata di volta in volta dal Ccnl, sul principio che, al di fuori delle materie espressamente delegate, tutte le altre siano di competenza esclusiva del livello nazionale. È vero che nel documento si cedono al secondo livello alcune materie aggiuntive rispetto alla retribuzione variabile e accessoria (in particolare flessibilità e valorizzazione delle professionalità), ma è altrettanto vero che non si intacca il modello di riparto, lasciando al livello nazionale il pieno arbitrio delle quote di “sovranità” normativa che possono essere attribuite al livello inferiore, confinato sempre in anguste e predefinite aree di intervento.
Inadeguata appare qui la difesa dello status quo, anche considerato che la giurisprudenza di legittimità ha concluso, valorizzando il principio di libertà sindacale e di rappresentanza civilistica, per la piena validità ed efficacia di accordi aziendali sopraggiunti che, in violazione di clausole di rinvio o di uscita, si siano espressi su aspetti ignorati dal Ccnl o da questo esplicitamente regolati in maniera difforme. (1) Formalmente, quindi, nulla osta a che il livello inferiore vada per la sua strada e ponga disposizioni in aperto dissidio con il Ccnl. Si aggiunga che l’esperienza contrattuale già conosce gli accordi aziendali in deroga governati direttamente dallo stesso contratto nazionale e dunque “istituzionalizzati”, in presenza di situazioni di difficoltà congiunturali dell’impresa o di accompagnamento ad azioni di sviluppo e investimento con ricadute occupazionali. (2)
Di guisa che, fermi restando i principi di intangibilità dei diritti quesiti e di inderogabilità delle norme legislative di riferimento, prime fra tutte l’articolo 36 della Costituzione sulla retribuzione sufficiente e proporzionata, si sarebbe meglio potuto ipotizzare – anche per dare ingresso a legittime istanze di diversificazione dei trattamenti per territorio, per distretto o per filiera produttiva – un sistema invertito, caratterizzato dal principio per cui tutto ciò che non è espressamente devoluto al livello nazionale dallo stesso accordo interconfederale (o triangolare) ricada nella sfera di agibilità del contratto aziendale, che potrebbe pertanto cimentarsi su tutte le materie e istituti che non sono di esclusiva pertinenza del contratto di categoria, secondo una formula già adottata dall’accordo interconfederale dell’artigianato del 17 marzo 2004 e dalla successiva intesa applicativa del 14 febbraio 2006. Un tale processo di “alleggerimento” dei contenuti normativi del Ccnl avrebbe l’ulteriore effetto benefico di favorire l’auspicato progetto di riduzione della quantità dei contratti per accorpamenti graduali e successivi su ambiti omogenei, partendo dai settori minori, a più basso numero di addetti, per giungere a una riaggregazione coincidente con le strutture sindacali di categoria esistenti.

L’EFFICACIA DEL CONTRATTO

La seconda questione riguarda l’efficacia soggettiva del contratto collettivo nel settore privato.
Sul versante nazionale, il problema concerne la possibile competizione fra contratti concorrenti, stipulati da sigle sindacali distinte, tutti legittimati dal riconoscimento di fatto da parte della rispettiva controparte sociale. Ora, solo con una legge che imponga soglie misurabili e certe di rappresentatività e a esse associ l’efficacia generalizzata del contratto collettivo, come accade per il settore pubblico, si potrà pervenire al risultato utile di sgomberare il campo da contratti di comodo al ribasso e di scongiurare un’ulteriore “balcanizzazione” del sistema contrattuale.
Sul versante aziendale, sempre la legge potrebbe sterilizzare il potere di dissenso dei singoli lavoratori rispetto all’ipotesi contrattuale raggiunta, garantendo uniformità di applicazione, anche in caso di contratti in perdita o gestionali, a prescindere dall’esistenza di una specifica norma legislativa che abiliti il contratto a porre, a quei limitati fini, disposizioni derogatorie o autorizzatorie.
Naturalmente un tale modello, sbilanciato a favore del secondo livello, cui si attribuirebbe una competenza normativa generale e un’efficacia applicativa erga omnes e indipendente dal consenso individuale, non solo implica un elevato livello di responsabilizzazione da parte dei sindacati comparativamente più rappresentativi nelle diverse sedi decentrate, ma richiede almeno un paio di correttivi minimali.
In primo luogo, si deve poter individuare un meccanismo efficace di esigibilità del secondo livello, anche tramite applicazioni analogiche, che dovrebbe comunque essere garantito a una platea di destinatari sicuramente superiore all’attuale grado di copertura del 30 per cento. E qui bisognerebbe invertire il trend negativo quanto a intensità, oltre che qualità, della contrattazione aziendale, posto che si è assistito nel corso dell’ultimo lustro a un preoccupante calo della percentuale di aziende che siglano accordi sul totale delle imprese di settore. (3)
Inoltre, il Ccnl dovrebbe diventare inderogabile (in peius) anche alla contrattazione aziendale, e quindi venire sganciato dal criterio cronologico di prevalenza nella successione fra fonti e riportato a un criterio gerarchico, in quanto rappresentante un affresco essenziale di diritti intangibili.

(1)Da ultimo, Cassazione 14 maggio 2007, n. 11019.
(2)Vedi accordo settore chimico-farmaceutico del 29 giugno 2007.
(3) Vedi il rapporto Cnel del 30 novembre 2007 e il precedente rapporto della Banca d’Italia del novembre 2006 sul livello di copertura per settore delle forme retributive aziendali integrative.

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IL PREMIO SALARIALE A DUE LIVELLI

  1. Gaetano Zilio Grandi

    Come più volte sostenuto anche in miei scritti, concordo perfettamente con quanto proposto dall’amico e collega Alberto Pizzoferrato.
    Ma non so i tempi, ancor oggi, sono maturi…
    GZG

  2. stefano facchini

    il vero scopo dell’auspicata riforma del ccnl è quello di legare la parte preponderante del salario a parametri "elastici" quali produttività e redditivà dell’impresa, per propria natura "variabili" dipendenti da poste di bilancio che possono essere variamente, all’occorrenza, interpretate (specie in un paese dove il falso in blancio è stato depenalizzato). Il fine ultimo, perseguito ovviamente con la complicità interessata della triplice sindacale, è quello di non pagare più la quota variabile di salario, limitandolo ad un minimo stabilito dalla legge ed uguale per tutti i lavoratori dipendenti (salario orario minimo come nei paesi anglosassoni e non solo). Ciò, in un quadro nettamente recessivo come quello attuale, diverrebbe un obiettivo facilmente raggiungibile. Ma non sarà facile spiegare ai lavoratori italiani che dovranno essere loro, ancora una volta, a pagare il prezzo della recessione: questa volta chi ci proverà dovrà passare sul loro cadavere.

  3. Claudio Resentini

    Sono perfettamente d’accordo con Stefano Facchini, tranne per il fatto che i lavoratori italiani riescano ad opporsi a tale disegno: ci penserà un ampio schieramento di forze politiche, mass media e opinion leader a far passare i messaggi adatti allo scopo. Si continuerà "tranquillamente" nel tentativo di trasformare il lavoro da rapporto sociale a mero input di produzione, da costo "fisso" (vincolato ad una responsabilità sociale dell’impresa "vera" e non quella millantata come tale a fini di immagine) a costo variabile e per di più assolutamente comprimibile attraverso tutti i meccanismi messi a disposizione da un diritto del lavoro sempre più "padronale" e "precarizzante" che rende il lavoratore sempre più indifeso e ricattabile di fronte al volere e al potere aziendale. Non fa una grinza…

  4. luca

    Sono d’accordo con le conclusione dell’articolo, e comprendo anche i meriti che ha il sindacato per le battaglia in difesa dei lavoratori, ma oggi c’è troppa ingerenza del sindacato. Il sindacato fa bene a stabilire minimi tabellari, ma poi deve uscire dalle trattative. Se il lavoratore vuole accedere al secondo livello legando il reddito alla crescita di utili dell’azienda, debbono cambiare mentalità. Se si guadagna è bene che si distribuisca l’utile, ma in caso contrario perchè deve pagare solo l’imprenditore? Propongo di consentire alle imprese di associare i dipendenti affinchè godano di parte del loro impegno lavorativo a fine anno, quando si trarranno le somme dell’anno di lavoro.

  5. Roberto Moretti

    La logica della contrattazione di secondo livello secondo piattaforme programmatiche che legano la produttività al reddito è perfettamente ragionevole solamente per le aziende di dimensioni consistenti superiori ai 100-200 dipendenti ove i dipendenti ed i sindacati interni hanno una forza contrattuale consistente. Per la maggioranza delle imprese che sono di dimensioni notevolmente minori rimandare ad un contratto di secondo livello significa lavarsene le mani. Pretendere che il lavoratore dipendente o un sindacato interno debole che ha pochissimo potere contrattuale possa imporre o solo pretendere l’applicazione di norme di tutela o di incentivi è semplicemente ridicolo. Per questo indebolire le tutele e gli incrementi di stipendio nei contratti nazionali significa nella stragrande maggioranza delle situazioni privare di fondamentali diritti il resto dei lavoratori che presi per singola azienda non hanno praticamente alcun potere di pretendere e tanto meno di imporre qualcosa alla azienda in cui lavora. Accettare tutto questo significa riportare il rapporto di lavoro tra dipendente ed azienda indietro di secoli.

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