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IL PREMIO NOBEL A PAUL KRUGMAN

E’ il capofila della nuova teoria del commercio internazionale. Mostra come in un settore competa una moltitudine disparata di imprese alla ricerca continua di modi per creare, difendere e accrescere il loro potere di mercato attraverso l’innovazione, la differenziazione del prodotto, lo sfruttamento di economie di scala e di scopo. Fondamentale anche il contributo all’analisi del fenomeno dell’urbanizzazione. E ha denunciato il rischio che governi e banche centrali si trovino impotenti di fronte agli umori del mercato in un mondo globalizzato.

 

Finalmente ce l’ha fatta. Sono anni che l’americano Paul Krugman è in odore di premio Nobel ma non sembrava mai la volta buona.

“I DIECI MIGLIORI ECONOMISTI SONO TRE”

Poiché il merito era innegabile, la dietrologia suggeriva le più fantasiose spiegazioni, spesso riassumibili nella difficile sopportazione di un ego spropositato fin dagli inizi della carriera accademica. Si narra che anni fa, all’incauta domanda di un intervistatore che chiedeva a Krugman di indicare i dieci migliori economisti sui temi internazionali, il nostro abbia risposto: “I dieci migliori economisti sono tre: io, Elhanan Helpman e Maurice Obsfeld”.
In un’altra occasione, sempre secondo la leggenda urbana, discutendo ufficialmente a un convegno internazionale il lavoro di ricerca di uno stimatissimo collega, Krugman commentò sinteticamente: “Quello che dico ai miei studenti di dottorato è che, quando si vuole scrivere un modello economico, la prima cosa da chiedersi è che cosa effettivamente si pensa che succeda nella realtà. La seconda è che cosa ci si guadagna a trasformare quel pensiero in un modello matematico. Nel tuo caso, la risposta alla prima domanda è che non hai capito molto di quello che succede e la risposta alla seconda è che, anche se tu avessi ragione, un modello matematico non aggiungerebbe nulla ”. Il gusto di Krugman per la provocazione intellettuale è ormai noto a tutti, grazie soprattutto ai suoi articoli sul New York Times, spesso ripresi dai quotidiani italiani. Meno nota è la sua straordinaria capacità di scrivere in modo chiaro, diretto e spesso godibile, anche quando si tratta di quella che il nostro chiama “economia ‘scritta in arabo’: articoli astrusi per riviste specialistiche”. (1)

IL CONTRIBUTO SUL COMMERCIO INTERNAZIONALE

Nella storia del premio Nobel Paul Krugman è il terzo ‘laureato’ per meriti acquisiti nell’ambito degli studi sul commercio internazionale. Prima di lui, lo svedese Bertil Ohlin e l’inglese James Meade avevano condiviso l’alloro nel 1977, rispettivamente all’età di settantotto e ottanta anni. Ricordare le date è spesso inutilmente noioso; in questo caso è importante. Ohlin era nato nel 1899 e Meade nel 1907. Entrambi appartenevano a un mondo molto diverso da quello del giovane Paul, nato nel 1953, a trent’anni esatti dalla pubblicazione del saggio che sarebbe valso a Ohlin il premio Nobel.
Il mondo di Ohlin e Meade era quello della prima ondata di globalizzazione, polarizzato tra paesi occidentali appena industrializzati e resto del mondo. Nei loro modelli le differenze tecnologiche e la diversa abbondanza di risorse produttive osservate nella realtà servivano a spiegare il tipo di commercio internazionale prevalente prima delle due guerre mondiali: lo scambio di beni prodotti da settori diversi tra paesi a diversi stadi di industrializzazione, per esempio, manufatti industriali prodotti dall’Europa contro materie prime esportate da Asia e Africa. La spiegazione veniva data in termini di specializzazione. L’apertura agli scambi internazionali permette, infatti, ai singoli paesi di specializzarsi nei settori produttivi in cui godono di un vantaggio di costo, vuoi per differenze tecnologiche vuoi per diversa abbondanza di risorse produttive. Da questo punto di vista, più i paesi sono simili, minori sono le opportunità di scambio fruttuoso tra loro. Al limite, quando i paesi sono identici, non c’è commercio. Un’altra implicazione è che, nella teoria sviluppata da Ohlin sulla scia del suo maestro svedese Eli Heckscher, un paese non potrà mai essere contemporaneamente importatore ed esportatore di beni prodotti da un medesimo settore.
Quando nasce Krugman, dopo il secondo conflitto mondiale, il mondo sta cambiando rapidamente, spinto dalla seconda ondata di globalizzazione, e la prima nel frattempo si era infranta sulla tragedia delle due guerre. Altri paesi si stanno industrializzando e, mentre una buona parte degli scambi internazionali è ancora riconducibile al commercio intersettoriale, tale parte non è più dominante rispetto alla componente attribuibile invece allo scambio di beni prodotti all’interno del medesimo settore, per esempio, automobili italiane vendute in Francia e automobili francesi vendute in Italia. Lo spostamento dell’attenzione degli studiosi verso questo tipo di commercio segna una discontinuità nella storia del pensiero economico in materia di economia internazionale, dando origine a quell’insieme di modelli che costituisce la cosiddetta “nuova teoria del commercio internazionale”.
La discontinuità è collocabile tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, quando, usando le parole dei loro detrattori, un gruppo di “abili arbitraggisti” si accorse che l’applicazione di alcuni sviluppi teorici di economia industriale avrebbe permesso di affrontare temi di economia internazionale fino a quel momento preclusi da oggettive difficoltà tecniche. Tra questi "abili arbitraggisti" c’erano alcuni giovani economisti che, negli anni successivi, verranno a dominare il dibattito accademico sul commercio internazionale. Da ricordare, tra gli altri, Avinash Dixit, Victor Norman, ma soprattutto Elhanan Helpman e lo stesso Paul Krugman. Il loro obiettivo era spiegare quello che può essere chiamato il "paradosso di Linder", dal nome dell’economista svedese Staffan Linder, che, per primo, all’inizio degli anni Sessanta, evidenziò come uno dei limiti principali della teoria tradizionale di Heckscher e Ohlin fosse proprio l’incapacità di spiegare perché più i paesi sono simili, per reddito, per tecnologia e per dotazioni fattoriali, più tendono a commerciare tra loro.
Il principale contributo della “nuova teoria del commercio internazionale”, di cui Krugman è il capofila insieme a Helpman, è l’aver mostrato attraverso modelli economici rigorosi che la chiave, per capire le implicazioni della nuova ondata di globalizzazione in termini di capacità produttiva e commerciale dei paesi, è l’ovvia constatazione che non sono i paesi stessi a commerciare, ma piuttosto le loro imprese. Il problema della teoria tradizionale era quindi l’esclusiva attenzione al settore produttivo nel suo insieme e la scarsa attenzione al fatto che, all’interno di un settore, compete una moltitudine disparata di imprese alla ricerca continua di modi per creare, difendere e accrescere il loro potere di mercato attraverso l’innovazione, la differenziazione del prodotto, lo sfruttamento di economie di scala e di scopo. In questa ottica, governi che avessero tutta l’informazione necessaria a capire i dettagli del funzionamento di imprese e industrie, potrebbero in alcune circostanze mettere in atto “politiche commerciali strategiche”, a sostegno delle proprie imprese, per avvantaggiare il proprio paese.
Questa prospettiva ha allettato e ancora alletta coloro che vedono nella manipolazione dei flussi di commercio internazionali la via maestra per difendere sedicenti “interessi nazionali”. A spegnere tali entusiasmi bastino le parole di Helpman: “la sola conclusione ragionevole di questa letteratura è che la politica commerciale strategica non è una buona idea, perché non può ottenere granché, se non proprio nulla”. (2) La ragione è che i governi di questo mondo non hanno le informazioni necessarie. 

TUTTI IN CITTÀ

Mentre Maurice Obstfeld non ha partecipato in alcun modo all’elaborazione della nuova teoria del commercio internazionale, stupisce molti che Elhanan Helpman non abbia condiviso il Nobel con Krugman. Il secondo contributo di Krugman, evidenziato nella motivazione del premio, è forse la spiegazione, perché a questo Helpman non ha contribuito. Krugman ha, infatti, saputo compiere un’ulteriore operazione di “arbitraggio”, intuendo che gli strumenti analitici sviluppati per spiegare il commercio intrasettoriale sarebbero stati utili anche per spiegare uno degli altri fenomeni macroscopici legati allo sviluppo attuale dell’economia mondiale: l’urbanizzazione. Da sempre crescita economica e crescita della popolazione inurbata sono andate di pari passo, al punto da far ritenere le città il motore della crescita economica. È però nei prossimi anni che, soprattutto a seguito delle trasformazioni in atto nel Terzo Mondo, la maggioranza della popolazione mondiale finirà per vivere in città. Nonostante questo, fino a vent’anni fa, l’interesse degli economisti per le economie urbane è stato piuttosto marginale, limitando la comprensione di un fenomeno di importanza fondamentale. Prendiamo, per esempio, New York. Da un certo punto di vista, tutti capiamo lo sviluppo di New York abbastanza bene, guidato come è stato fin dall’inizio dall’accesso favorevole all’Atlantico per i traffici con l’Europa e al canale Erie per i traffici con l’entroterra. Eppure, nelle parole di Krugman, “per chi è abituato alla chiarezza cristallina della teoria del commercio internazionale, questo livello di comprensione non è soddisfacente. Si vuole che la discussione dell’economia della città sia integrata in un resoconto del funzionamento dell’economia nazionale (e mondiale). Come direbbero gli economisti, si vuole una storia di equilibrio generale, in cui sia chiaro da dove vengono i soldi e dove vanno. Questa storia dovrebbe spiegare sia la concentrazione che la dispersione: perché così tante persone lavorano a Manhattan e perché così tante altre non lo fanno”. (3)
Mentre il ruolo chiave nell’elaborazione della “nuova teoria del commercio internazionale” e della “nuova geografia economica” sono le due motivazioni del premio Nobel di quest’anno, con questi chiari di luna non bisogna dimenticare almeno un altro importante contributo di Paul Krugman: con il suo lavoro sugli attacchi speculativi, ha messo in luce il rischio che governi e banche centrali si trovino impotenti di fronte agli umori del mercato in un mondo globalizzato.

(1) Da La deriva americana, Mondolibri 2004, p. XIX.
(2) Da An interview with Elhanan Helpman, Macroeconomic Dynamics, 1998, p. 591.
(3)Da The New Economic Geography, Papers in Regional Science, 2004, p.139-164.

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LA RISPOSTA AI COMMENTI

  1. Alessandro Petretto

    Forse è stata una sfortuna per Krugman ricevere il Nobel nel mezzo di questa crisi finanziaria. Tutti tendono ad enfatizzare elementi secondari della sua personalità: avversario di Bush, fautore dell’intervento pubblico, ecc. Invece, per esempio, la "sua" "nuova georgrafia economica" è un formidabile corpo di teorie ancora in divenire, le cui implicazioni per la politica economica, con elementi spaziali, sono ancora in gran parte inesplorate, ma che emergeranno prepotentemente nel tempo.

  2. Cosimo

    Sono d’accordo con l’analisi. La mancata assegnazione del premio a Helpman non deve sorprendere. Innanzitutto, come ricordato, Krugman è andato oltre – con il modello di economic geography del 1991. Ma anche i primi contributi alla new trade theory (1979, 1980) sono unicamente di Krugman. Poi il tutto è stato integrato nella teoria classica (Heckscher-Ohlin) da Helpman e Krugman (1985), e nella teoria classica di trade policy sempre da Helpman e Krugman nel 1989. I contributi originali di Helpman sono a mio parere il modello con multinational corporations (1984) ed il paper su factor content (1984). C’è poi da dire che Helpman ha fatto tantissima altra roba (soprattutto con Grossman, e.g., il modello di economia politica del 1994, ma anche con Antras e Melitz). Infine, come ricordato, Krugman ha anche contribuito in modo significativo alla comprensione delle crisi di bilancia dei pagamenti, con il suo articolo del 1979. Tutti gli altri hanno seguito a ruota, in primis Obstfeld. Insomma, un Nobel strameritato. E comunque sorprendente per quanto presto sia arrivato.

  3. Paolo Barbieri

    Ritengo che con il nobel assegnato a Krugman si sia finalmente dato risalto ad un’idea di economia politica che vede una terza via tra uno statalismo rigoroso e chi ripone una fiducia estrema nel libero mercato. Ora più che mai vi è bisogno di riscrivere le regole del mercato e la sola idea di iniettare liquidità in esso non può bastare. Krugman ci ha mostrato, con parole di ottimo divulgatore, come una visione neo-keynesiana sia più che mai attuale in questo momento di crisi. La via è stata tracciata ora non resta che seguirla…

  4. ANTONIO BOTTONI

    Ormai da qualche anno ho la convinzione che, in talune circostanze, è bene essere keynesiani, in altre, essere liberisti ed, in entrambe, avere il senso dell’etica e delle regole cui fare riferimento: può essere facile seguire una o l’altra delle due scuole di pensiero fra loro contrapposte, è problematico definire le regole; l’etica poi è un discorso a parte. Con Krugman avrò un motivo in più per verificare questa mia convinzione.

  5. andrea

    Sono sbalordito dall’incredibile incoerenza che mi pare di ravvisare nel pensiero di Krugman Da una parte si ammette (e ciò è ben ricordato nel vostro articolo) che nessun governo ha l’informazione necessaria sui dettagli delle proprie imprese per intervenire efficacemente in loro aiuto nel commercio internazionale. Dall’altra, si assume che questa informazione sia nota quando si invoca l’intervento governativo nell’economia nazionale, nella ridistribuzione di redditi e risorse, e nella programmazione economica generale.

  6. Marco Cavallero

    Credo che sia un premio nobel al movimento liberal che grazie all’appeal politico di Obama potrà cercare di imporsi in Usa e nel mondo. Ma, come hanno detto altri, non è solo un premio alla coscienza di un liberal ma è un premio ad un economista completo che ha cambiato l’economia regionale attraverso la Neg (New Economic Geography) ma che anche fornito contributi importanti per noi giovani laureati in economia (Economia Internazionale). E’ un nobel al nuovo che avanza? Speriamo. Se la scienza economica si evolverà verso l’impostazione di Krugman, che ho sentito a Trento quest’anno, avrà solo da guadagnarci.

  7. luigi s.

    Per keynes il passaggio tra i due mondi delle idee (teoria economica e politica) era solo una questione di tempo. Per Krugman (PK),nella società dei media, invece richiede impegno. Così, come il rivale M.Friedman, nelle sue 2 vite è passato dall’uno all’altro, ma senza dismettere il rigore intellettuale. Perchè non abbiamo un PK in Italia? "Lavoce" nasce dalla voglia di economisti di professione di intervenire nel dibattito politico. Ma avete sposato il mainstream tutto efficienza,marginalizzando temi come democrazia e equità. Oggi Santori sul corriere vi può accusare (come categoria professionale) di non aver previsto niente di ciò che sta accadendo. Non è vero. Molti economisti – peraltro con la vostra stessa formazione (prima ancora di Roubini c’è il CEPR di washington, spesso citato da PK) – da anni hanno messo in guardia sulle bolle USA mentre per voi la crescita economica USA era la prova della superiorità del modello anglosassone. Timorosi solo del keynesismo alla dorotea avete buttato il bambino con l’acqua sporca e ora mostrate il fianco ai neo-populisti (gli ultraliberisti di ieri). Liberate il krugman che è in voi, ne abbiamo bisogno!

  8. andrea

    "(prima ancora di Roubini c’è il CEPR di washington, spesso citato da PK) – da anni hanno messo in guardia sulle bolle USA " Mi scusi, ma le bolle USA non sono state create proprio dall’incosciente espansione monetaria attuata dalle autorità nell’intento di sostenere la domanda, giusta le teorie keynesiane? Quindi proprio da quell’intervento statale che Krugman è il primo a patrocinare, (e che anche il friedmanniano Bernanke non ha disdegnato). Si fosse ascoltato la saggezza di vonMises, "di moneta ce n’è sempre quanta ne serve", non si sarebbe aumentato M2 al ritmo di 11% annuo, e non ci sarebbe stata proprio nessuna bolla.

  9. Marco

    Manipolazione dei flussi ed urbanizzazione: sono questi i due pilastri della politica di Krugman. Senz’altro ha contribuito a farci comprendere i problemi della congiuntura attuale e potrà indicare una via per uscire dalla crisi. Una sola cosa mi chiedo: col passare del tempo, le città si espandono a macchia d’olio, tale lasciare i centri urbani ai principali uffici, banche, negozi, per via dei prezzi delle case, della mancanza dei parcheggi, del traffico e cosi via … ed allo stesso tempo cambia lo stile di vita ed anche i nostri consumi, e di conseguenza il mondo dell’economia. Non si può parlare di un fenomeno in direzione opposta rispetto all’urbanizzazione, o meglio una sorte di "devoluzione" dell’economia?

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