I dottorati di ricerca sono un elemento fondamentale per il progresso scientifico e tecnologico di un paese. E la loro qualità è uno dei migliori indicatori della qualità di un sistema universitario. La situazione dei nostri è assai deludente e una riforma è ormai ineludibile. Dovrebbe passare per dieci punti fermi: dalla valutazione esterna dei programmi a nuovi criteri per la ripartizione del fondo di finanziamento ordinario alle università, da un premio per le tesi più innovative al divieto di partecipare a concorsi per ricercatore nella sede dove si è conseguito il dottorato.
Nei sistemi universitari moderni, il dottorato di ricerca rappresenta il vertice del percorso di studi. È aperto solo a pochi ricercatori selezionati con cura, a cui viene chiesto di produrre, in un periodo di tre-cinque anni, una tesi originale e innovativa, che rappresenti un contributo significativo allavanzamento della conoscenza in una particolare area disciplinare. Per questo duplice compito – formazione di ricercatori di alto livello e produzione di ricerca originale e innovativa – i dottorati sono un elemento fondamentale per il progresso scientifico e tecnologico di un paese, e la loro qualità è uno dei migliori indicatori della qualità di un sistema universitario.
UNA SITUAZIONE DELUDENTE
Qual è lo stato dei dottorati di ricerca italiani? Sebbene il numero complessivo dei dottorandi non sia affatto piccolo, più di 13mila nuovi iscritti ogni anno, vi è ampio consenso sul fatto che la qualità media dei programmi di dottorato italiani è deludente.
Con qualche eccezione, predomina la frammentazione dei dottorati in un numero elevato di micro-indirizzi. (1) Le dimensioni dei programmi sono troppo piccole, spesso solo due-tre studenti, e rendono molto costoso procedere a una qualche forma di loro strutturazione. I collegi dei docenti, formalmente costituiti per soddisfare le richieste ministeriali, spesso non riescono a garantire unadeguata supervisione degli studenti e lasciano ai migliori la sola opzione di cercare allestero quello che non riescono a trovare in casa. Ciononostante, i nuclei di valutazione dei quasi ottanta atenei italiani con corsi di dottorato certificano ogni anno, in modo autoreferenziale, la validità di programmi che spesso esistono solo nominalmente. A differenza di altri paesi, la valutazione esterna dei programmi di dottorato è quasi sconosciuta tra gli atenei italiani.
Gli indicatori ministeriali per la ripartizione del fondo di finanziamento ordinario (Ffo) alle università ignorano lesistenza degli studenti di dottorato. Fanno riferimento soltanto agli studenti del triennio di base, trascurando anche quelli del biennio specialistico. Inoltre, quasi tutte le università non riconoscono formalmente l’impegno nelle attività dei dottorati e nella supervisione delle tesi.
Nonostante si parli di autonomia delle università, l’ammontare annuo delle borse di dottorato è fissato dal parlamento, senza alcuna considerazione della situazione di bilancio degli atenei. Anche il rapporto tra studenti con borsa e studenti senza borsa è fissato da una norma, invece di essere lasciato alla libera decisione degli atenei. Paradossalmente, la borsa di dottorato è trattata come reddito da lavoro e sottoposta a contributi previdenziali che rappresentano un quarto del suo valore. Studenti provenienti da altre regioni o stranieri sono spesso svantaggiati per la mancanza di alloggi riservati ai dottorandi. Contemporaneamente, però, si consente a uno studente di dottorato di integrare la sua borsa di studio con altri redditi da lavoro di importo assai superiore a quello della borsa stessa.
Sebbene le risorse trasferite dal ministero dellIstruzione, delluniversità e della ricerca agli atenei per le borse di dottorato siano diminuite notevolmente in termini reali, non ci sono ancora sufficienti incentivi per indurre privati o enti esterni alluniversità (imprese, fondazioni, ecc.) a finanziare le borse di studio e le attività formative dei dottorati.
Infine, le pubblicazioni di qualità generate dalle tesi di dottorato sono scarse, specie in alcune aree. In realtà, gli studenti di dottorato hanno pochi incentivi a pubblicare bene. Non ci sono premi e, in molti casi, è più importante ingraziarsi un professore influente che aiuti a vincere un concorso da ricercatore, in alcuni casi addirittura da professore associato, nella sede dove hanno conseguito il dottorato. Spesso questi concorsi da ricercatore sono esplicitamente banditi allo scopo di offrire una possibilità ai nostri dottorati.
IL DECALOGO
Alla luce di queste considerazioni, propongo un decalogo, che fissa alcuni punti fermi per la riforma, ormai ineludibile, dei dottorati di ricerca:
1. Il contributo annuo del Miur ai programmi di dottorato è subordinato a requisiti minimi in termini di numero di iscritti (almeno cinque per ciclo), numero di ore di attività formativa documentata, produttività scientifica dei componenti del collegio dei docenti e loro impegno nelle attività formative. Le dichiarazioni dei coordinatori di dottorato al riguardo devono essere certificate dai nuclei di valutazione di ateneo utilizzando criteri coerenti con la valutazione triennale della ricerca (Vtr) svolta in ambito nazionale.
2. Ogni quinquennio, i programmi di dottorato degli atenei che ricevono finanziamenti Miur per borse di dottorato vengono sottoposti a valutazione da parte di una commissione nominata dal ministero, la maggioranza dei cui membri deve provenire da atenei stranieri. Solo i programmi valutati positivamente possono essere riconosciuti dal Miur ai fini del contributo annuo per il triennio successivo.
3. Il numero di studenti iscritti ai programmi di dottorato riconosciuti dal ministero viene considerato, insieme a quello degli studenti iscritti ai programmi del triennio e del biennio specialistico, come uno degli indicatori fondamentali per la ripartizione delle risorse trasferite dal Miur alle università. Il peso di uno studente di dottorato è pari ad almeno quattro volte quello di uno del triennio e ad almeno due volte quello di uno del biennio.
4. L’impegno nelle attività formative e nella supervisione delle tesi di dottorato è considerato ai fini del monte-ore richiesto al personale docente dell’università. Il peso attribuito a tali attività è almeno pari a quello attributo agli studenti di dottorato negli indicatori Miur.
5. Le università sono libere di determinare l’ammontare annuo dei contributi per la frequenza dei corsi di dottorato, l’ammontare annuo e la durata delle borse.
6. Le borse di dottorato non sono considerate come redditi da lavoro. Viene pertanto eliminato il contributo Inps che su queste grava. La fruizione di una borsa di dottorato è incompatibile con redditi da lavoro di importo superiore a quello della borsa stessa.
7. Le università sono tenute a mettere a disposizione un numero di alloggi per studenti di dottorato proporzionato a quello dei dottorandi dell’ateneo.
8. Sono detraibili dal reddito i contributi concessi ai programmi di dottorato da privati o da enti esterni (imprese, fondazioni, eccetera).
9. Per ciascuna macro-area scientifica, viene istituito ogni anno un premio nazionale per i migliori lavori pubblicati da studenti di dottorato nell’anno precedente. Possono concorrere al premio anche i lavori pubblicati nel triennio successivo al conseguimento del titolo di dottore di ricerca.
10. Ai dottori di ricerca è preclusa la partecipazione ai concorsi di ricercatore nell’ateneo dove hanno conseguito il titolo.
(1) Mi piace ricordare il dottorato in Terapie avanzate in chirurgia e riabilitazione del pavimento pelvico femminile, attivo presso il mio ateneo.
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Eleonora Vergnano
Ritengo che le sue osservazioni siano senz’altro corrette. Vorrei puntare l’attenzione su dottorati che senza borsa di studio. Anzi, al momento, esistono dottorati "a pagamento", il cui fatto presuppone un impiego collaterale per sostenerne il costo. Credo che una riforma debba affrontare anche questo punto, per consentire allo studente di approfondire le ricerche e concentrarsi nei tre anni di dottorato nell’attività di ricerca, didattica e redazione del proprio lavoro in maniera completa. Impossibile effettuare una buona ricerca se si è impegnati tutta la settimana in un’attività lavorativa.
Alfonso Pierantonio
Credo che il problema sia molto grave in talune aree disciplinari, tipicamente quelle professionali (ed esempio medicina, giurisprudenza, economia), non è assolutamente un caso che il dottorato in Terapie avanzate in chirurgia e riabilitazione del pavimento pelvico femminile citato dall’autore sia nella facoltà di medicina. Stesso discorso vale per la ricerca.
Giuseppe Esposito
E credo che questo articolo sia la migliore risposta a coloro che vorrebbero inserire il dottorato come requisto obbligatorio per partecipare ai concorsi per ricercatore. Speriamo che Peracchi sia coinvolto anche nel progetto di riforma per il reclutamento.
Claudia Fanno
La Sua proposta N° 10 è assurda, per 4 ragioni 1. È una regola meccanica che parte dal presupposto che un interno è raccomandato. 2. Se uno studente russo viene a fare il dottorato in matematica a Padova ed è un genio, perché l’Università di Padova dovrebbe lasciarlo andare via per decreto? 3. Non è detto che in altre università ci siano dipartimenti dove si fa ricerca su quel tema specifico su cui uno si è addottorato, e anche se ci fossero : (i) non sono necessariamente dello stesso livello qualitativo, (ii) non hanno per forza di cose la stessa massa critica. 4. Se uno finisce il dottorato a 30 anni e nel frattempo ha fondato una famiglia, non vedo perché obbligarlo per legge ad andarsene!
paolo bertoletti
Caro Peracchi, è sicuro che l’ammontare delle borse sia fissato dal ministero? Io sospetto di no, e che il ministero si limiti a fissare i trasferimenti agli atenei, che questi ultimi sarebbero liberi di aumentare a carico del loro bilancio (naturalmente si guardano bene dal farlo). Più in generale, credo che i corsi di Dottorato siano ormai sottoposti a pochissimi vincoli organizzativi, e che dipendano invece dai regolamenti liberamente adottati dai vari atenei (anche se molti atenei non se ne sono accorti). Dunque, molti punti del decalogo che propone potrebbero essere introdotti dal basso senza alcun bisogno di una riforma governativa.
Paolo Manzini
"6. Le borse di dottorato non sono considerate come redditi da lavoro. Viene pertanto eliminato il contributo Inps che su queste grava. La fruizione di una borsa di dottorato è incompatibile con redditi da lavoro di importo superiore a quello della borsa stessa." Salvo il resto, questo vuol dire che a fronte di un vantaggio iniziale, al momento di andare in pensione mancheranno tre anni di contributi. Ora se teniamo presente che secondo il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, Ottavo Rapporto sullo Stato del Sistema Universitari, Rilevazione Nuclei 2007 dalla Tabella 3.9 – "Età media dei docenti e dei ricercatori allingresso nei ruoli" per il 2007 l’età di ingresso in ruolo dei ricercatori è stata di 36,3 anni, questi andranno in pensione, legibus sic stantibus, con 29 anni di contributi. È saggia questa previsione?
Stefano Di Colli
Sono uno studente di dottorato in Italia. Condivido in pieno l’analisi del prof. Peracchi: è ineludibile una riforma dei dottorati italiani nella direzione tracciata dal professore. Mi permetto alcune osservazioni e proposte: a) con riferimento al punto 6 sono contrario al fatto che sia possibile percepire un qualsiasi reddito anche se inferiore alla borsa di dottorato per attività professionali. Diverso il caso dei contributi per attività di supporto alla didattica all’interno dei corsi stessi del dottorato per studenti iscritti dal secondo anno in poi o per research grant connessi all’attività di ricerca legata alla propria tesi di dottorato. b) Con riferimento al punto 10) perché precludere ad un PhD student la possibilità di accedere come ricercatore nel proprio ateneo? La distorsione degli incentivi (ad ingraziarsi un professore influente piuttosto che pubblicare bene) di cui parla il professore è nota, ma ritengo più utile provare a risolverla vincolando i concorsi alla qualità oggettiva (impact factor / ranking internazionali) delle pubblicazioni raggiunte. Un professore influente nel mio ateneo, infatti, molto spesso lo è anche in altre sedi.
Alberto Sdralevich
Aggiungerei come undicesimo comandamento l’obbligo della pubblicazione delle tesi di dottorato sul sito istituzionale dell’università, dove sono accessibili on line (ed eventualmente indicizzate dai motori di ricerca). Questo indirizzo e’ stato dato dalla Commissione Biblioteche della CRUI, e sta cominciando ad essere applicato da alcune universita’ compresa la mia (Insubria).
giorgio capon
Occorre anche contenere il fenomeno della fuga dei cervelli all’estero – limitando eventualmente nelle varie specialità le borse a concorso – in base a un piano/programmazione su scala nazionale capace di offrire ai dottorandi ragionevoli prospettive di assorbimento nella ricerca pubblica o privata o nelle attivita’/industrie ad alta qualificazione. Nelle aree metropolitane dove sono presenti piu’ universita’ bisognerebbe evitare la duplicazione di corsi di dottorato.
giuseppe saccomandi
Giusto. Il problema del dottorato è un problema principale nell’incasinata situazione
accademica italica. L’articolo è molto interessante. Credo che soprattutto per le materie scientifiche come la Matematica e la Fisica, si dovrebbe avere il coraggio di concentrare i dottorati in un piccolo numero di sedi offrendo ai dottorandi alloggi a prezzi favoriti.
Solo in questo modo è possibile dare ai corsi di dottorato uno status di eccellenza non auto-referenziale. La cosa si potrebbe fare da subito, perché le singole università possono erogare con le attuali risorse le borse ai propri laureati che riescono ad iscriversi ad uno dei dottorati “centralizzati”. In questo caso il punto 10 dell’articolo, che ritengono un poco strano, potrebbe cadere. Faccio presente che nel caso in una sede le borse non venissero tutte utilizzate queste potrebbe confluire in un fondo per assegni post-doc.
Matteo, dottorando di Ingegneria, Università di Padova
I recenti aumenti della borsa di studio non sono stati accompagnati da un ragionamento sull’attività dei dottorandi. L’attività di ricerca parte in ritardo e rimane ancorata talvolta ad un livello medio basso perchè non c’è supervisione e il lassismo non è punito. Il problema può essere risolto promuovendo la qualità della ricerca ed eliminando i concorsi che sono spesso falsati dalle comissioni interne. I soldi che vengono distribuiti a caso ai vari gruppi di ricerca potrebbero essere distribuiti in base alla qualità, certificata da commissioni esterne. I professori si sceglierebbero così le persone più in gamba e cercherebbero di formare gruppi numerosi ed omogenei dotandosi più facilmente di strumenti costosi. Impedendo ai dottorandi di diventare ricercatori presso il proprio ateneo si rischia di buttare via una parte del know-how del gruppo che invece merita di essere capitalizzato. Piuttosto si potrebbe rendere obbligatorio un periodo all’estero durante il dottorato oppure durante il post-doc. Attualmente il reddito aggiuntivo che un dottorando può ottenere da attività esterne è pari annualmente alla borsa di studio.
Guido Abbattista
Caro Peracchi, le questioni che poni sono della massima importanza. Le tue premesse sono condivisibili. Anche la tua diagnosi è in parte da condividere (valutazione esterna, incidenza dottorati su FFO, incentivi fiscali a contributi esterni). Alcune cose però già esistono (riconoscimento didattica, tasse frequenza, integrazioni borse, misure anti-in-breeding). Tuttavia, personalmente evidenzierei altri aspetti: frammentazione eccessiva di sedi, mancanza di condivisione su modalità e contenuti della formazione; eccesso di localismo formativo (non solo per mancanza risorse); inesistenza di limiti di età, scarso peso titolo, non comparabilità con programmi dottorali europei. Per quanto impopolare, rifletterei molto seriamente sull’abolizione delle borse di Stato a favore di libertà di iscrizione su progetti ricerca accettati con tasse elevate e, a parte, bandi per borse varie. Cordialmente.
PAOLO.TREVISAN
La misura 6 penalizza i dottorandi sottraendo almeno un triennio di copertura previdenziale. La misura 10 rischia di penalizzare gli atenei e far scappare i migliori. Inutili i limiti ai redditi extra, vista la pochezza di certe borse. Se il governo liberalizza il cumulo perfino con le pensioni non vedo come possano gli atenei bloccare il cumulo con le borse. Piuttosto si potrebbe rendere il dottorato propedeutico come tirocinio formativo al concorso per ricercatore, ma va chiarito la spendibilità del titolo in contesto sia universitario che extra accademico. Bene che non via siano limiti di età. La ricerca è un lusso, ed in certi ambiti molto tecnici e professionali si potrebbe perfino giovare di forze esterne al mondo accademico. Non capisco a che pro limitare i posti alle borse erogabili. Su programmi di ricerca approvati dall’ateneo si potrebbe pensare a dottorati a frequenza libera senza numero chiuso, anche con rinuncia alla borsa. Del resto almeno per i dipendenti pubblici, che possono godere della aspettativa retribuita, la borsa è un intralcio, mentre all’ateneo un dottorando in più sarebbe a costo zero.
sgl
LSE: mi sono laureato nel 1960. I ns. finals furono spediti ad un’università diversa, parificata, poi restituiti all’LSE per una valutazione interna d’insieme. I ns. nomi non apparivano sugli scritti; eravamo un numero. Non c’è alcun bisogno di farsi carico di commissioni estere. Basterebbe essere obbietivi ed indipendenti.
PS sono ammessi candidati che sono stati ‘fuori corso’ durante gli studi di laurea?
Massimo Redaelli
Ho letto superficialmente, ma mi sembra che sia tutto ragionevole. Tranne una cosa: perché mai vietare a un ex-dottorando di una università di fare lì un concorso? Mi sembra che siamo alle solite: invece di fare regole serie per i concorsi, che filtrino i candidati non meritevoli, mettiamo una regola assurda che toglie una possibilità accettabilissima. Se un dottorando ha lavorato tre anni con un docente, s’è trovato bene, il docente s’è trovato bene con lui, e al concorso fa una bella figura, vorrei capire perché mai dovrebbe rischiare di andare in un gruppo di ricerca che non conosce e in cui potrebbe non trovarsi bene, quando potrebbe tranquillamente starsene dove sa già di essere produttivo…
paolo viappiani
Vorrei replicare a chi criticava il punto 10. In quasi tutto il mondo occidentale (dalla Svizzera agli USA e al Canda) e’ cosi’, non si fa carriera nel posto dove hai fatto il PhD, per ovvie ragioni di trasparenza. In altri casi e’ possibile ritornare nell’Universita’ del PhD solo dopo aver fatto un tot di anni presso una sede diversa. In realta’ spesso non c’e’ nessuna legge, ma basta la cattiva luce che darebbe all’istituto il fatto di scegliere il proprio staff internamente, senza aprirsi all’esterno. Anche il CV di chi diventa Prof nella stessa universita’ verrebbe guardato male. Potrei sbagliarmi ma a me sembra che in Italia certi meccanismi si possano importare solo con un bel divieto categorico.
Marco Zamboni
Sono d’accordo sull’impostazione dell’articolo, tuttavia dissento sul punto 10 del decalogo. Non penso che il divieto per legge sia una soluzione al problema del favoritismo dei candidati locali, piuttosto vedo con interesse la riforma dei meccanismi di reclutamento dei concorsi da ricercatore, come diceva bene Stefano Di Colli.. Oltre ai motivi già indicati nei commenti precedenti, ritengo che tale divieto porrebbe delle complicazioni insensate a tutti quegli studenti dei dottorati di ricerca che nascono dalla collaborazione di più atenei. Ad esempio nel mio caso di sono 4 sedi (Università di Milano, Università di Pavia, Cattolica di Milano e Politecnico) che si collocano in buone posizioni sia per la qualità della didattica, sia per la qualità della ricerca nei settori disciplinari del dottorato. Perchè mai dovrei essere "discriminato per legge"?
Gianluca Marcotullio
Non mi trovo d’accordo come alcuni dei punti. Frequento un dottorato in Olanda dove credo che le cose siano organizzate molto bene ma sinceramente non riscontro nessuna delle dieci regole menzionate qui. Si riceve uno salario inquadrato in un regolare contratto di impiego di 4 anni, con tanto di ferie, orario di lavoro e contributi pensionistici. Nessun obbligo particolare sui corsi da seguire. Per l’alloggio si provvede da soli. Il tema della tesi viene stabilito dal professore che bandisce la posizione, se ne fa promotore e provvede contemporaneamente a trovare i finanziamenti (per il salario e tutti i costi correlati) per l’intera durata del progetto, vengano o no dal ministero. Il titolo viene concesso una volta che la tesi viene accettata e giudicata da un comitato composto anche da professori stranieri esperti nel campo. Nessun vincolo all’assunzione del dottore. Solitamente il lavoro contenuto nella tesi è stato (deve esserlo) già pubblicato su giornali e/o agli atti di conferenze di rilievo internazionale. Solitamente i dottorandi stessi sono quell’anello di giunzione che manca in Italia tra l’industria e l’università e lavorano a cavallo tra le due.
pietro
Il decalogo è interessante anche se ho talune perplessità sui punti 6 e 10. Inoltre il problema è a monte: spesso sono i professori che propongono il dottorato agli studenti, anzicché essere i migliori o comunque gli studenti volenterosi a proporsi. E’ una gara fittizia, ma questo nelle Università ahimé è una cosa conclamata!
Renzino l'Europeo
Desidero segnalare il decalogo europeo per i dottorati ("Principi di Salisburgo"), come formulato nel contesto del "Processo di Bologna" per la realizzazione dello Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore: – versione breve http://www.eua.be/eua/jsp/en/upload/Salzburg_Conclusions.1108990538850.pdf – versione estesa http://www.eua.be/eua/jsp/en/upload/Salzburg_Report_final.1129817011146.pdf Numerose altre riflessioni (sempre di respiro europeo) sono poi raccolte in: – EUA (2005): Doctoral Programmes for the European Knowledge Society, http://www.eua.be/eua/jsp/en/upload/Doctoral_Programmes_Project_ Report.1129278878120.pdf – EUA (2007): Doctoral Programmes in Europes Universities, http://www.eua.be/fileadmin/user_upload/files/Publications/Doctoral_ Programmes_in_Europe_s_Universities.pdf Naturalmente vi sarebbero molti altri commenti da fare sulla situazione italiana, ma per il momento mi astengo – e consiglio il confronto europeo e internazionale come base per ogni discussione. RR
frank
Il punto numero 10 è molto carino soprattutto perchè ai corsi di dottorato delll’università del proponente è quasi impossibile accedere senza prima aver fatto un master a pagamento nella stessa facoltà.
silvia
Ho conseguito il dottorato nell’unica (?) università in Italia dove il punto 10 è attualmente fra le regole. Non credo che l’unica ratio della regola sia quella di garantire la trasparenza dei concorsi da ricercatore. Mi chiedo: come ci possono essere progressi significativi nella ricerca se nei primi anni di carriera uno studioso continua ad interagire con gli stessi professori-insegnanti? Probabilmente richiedere un "ampliamento degli orizzonti" non è così insensato. Niente impedirebbe poi ai migliori di tornare all’ovile dopo qualche anno… sempre che nel frattempo non si sia trovato qualcosa di meglio, o sempre che nel frattempo l’ovile non abbia trovato inquilini migliori.
Marco Tonti
Da quel che so in molti paesi non esistono concorsi per dottrandi, professori, ricercatori. Il coordinatore del corso o del gruppo di ricerca valuta la persona che ha davanti (sulla base possibilmente di elementi concreti, ma non esclusivamente) e si prende la _responsabilità_ della sua assunzione. Il primo effetto positivo sarebbe quello di eliminare l’ipocrisia dei concorsi pilotati italiani (in certi casi è una buona cosa: se io professore voglio una certa figura che possa contribuire con sue competenze specifiche perché non devo cercarla e invitarla? Sarebbe certo un miglioramento della produttività di tutto il gruppo). In secondo luogo nessuno a quel punto potrebbe nascondersi dietro alla legge. Se un "barone" piazza suo figlio all’università può sempe dire "ha fatto un concorso". Ma se è lui ad avere la responsabilità in prima persona, non potrebbe poi fingere di non saperne nulla (al limite mettere norme per escludere i parenti dalla scelta). In terzo luogo lascerebbe la libertà di allestire i propri gruppi di ricerca come ritenuto meglio. Non sempre il "migliore" , è il Migliore per un certo ruolo.
enrico
E’ inutile metterci a paragonare il sistema italiano con i sistemi stranieri. All’estero non c’è la forte esigenza di "moralizzazione" dell’universita’ (come di altri settori della pubblica amministrazione), che invece e’ in Italia sotto gli occhi di tutti. Io ho fatto phd e sto facendo il postdoc in UK (nella stessa università), dove la norma del punto 10 non è in vigore. Cio’ nonostante credo che in Italia bisognerebbe proprio partire dal divieto di fare il ricercatore dove hai fatto il phd. Anzi, forzando un po’ la mano, si potrebbe anche pensare di applicare lo stesso criterio per laurea-phd. La ricerca si nutre anche con la mobilita’ delle giovani menti. Chi ha paura di muoversi dal proprio ateneo non è fatto per la ricerca (famiglia da mantenere o meno…) Un’altro punto. Qui in UK è ben chiaro che lo studente di dottorato deve intraprendere una ricerca autonoma ed originale. Alla fine del secondo anno gli viene chiesto di esporre i propri risultati in un colloquio orale, che se fallisce sancisce la fine del dottorato. Perché in Italia tutti i dottorati finiscono brillantemente dopo 3 anni ? in UK non e’ inusuale metterci 4 anni (con l’ultimo anno a proprie spese).
giovanni azzone
Il testo dell’articolo presenta, nelle premesse, due inesattezze rilevanti: 1) Gli indicatori ministeriali per la ripartizione del fondo di finanziamento ordinario (Ffo) alle università ignorano lesistenza degli studenti di dottorato. Fanno riferimento soltanto agli studenti del triennio di base, trascurando anche quelli del biennio specialistico. E’ falso, Gli indicatori considerano anche gli iscritti alla laurea specialstica 2) Nonostante si parli di autonomia delle università, l’ammontare annuo delle borse di dottorato è fissato dal parlamento, senza alcuna considerazione della situazione di bilancio degli atenei. E’ falso. Il Miur fissa il valore della borsa ministeriale che può essere integrato dagli Atenei con risorse proprie (e alcuni Atenei già lo fanno) Giovanni Azzone Vicepresidente CNVSU
Tommaso Argentini
5. Le università sono già libere di determinare l’ammontare annuo della borsa di studio. Infatti da noi (Politecnico di Milano) c’è un incremento dipartimentale di circa 3000 euro all’anno 6. Rimane il fatto che pagando i contributi si accumula un periodo lavorativo per la pensione (poco in termine di contributi, ma 3 anni in termine di tempo). Sarebbe meglio proporre che i contributi sono interamente a carico degli atenei. 10. Sono totalmente contrario su questo punto. E’ assurdo che uno non possa per legge lavorare in un gruppo di ricerca, magari giudicato eccellente a livello internazionale, solo perché ho studiato lì! Piuttosto che si facciano delle selezioni durissime
sara
Non sono d’accordo con chi dice che le università straniere non reclutano il personale fra coloro che conseguono il PhD nella stessa università. Mentre penso che sia sbagliato e ingiusto questo modo di fare, anche perché spesso si accede al dottorato perché in qualche modo hanno promesso il posto al candidato che vince, non è vero che all’estero non è cosi e le università si aprono all’esterno reclutando sempre da fuori e non fra gli stessi dottori che formano loro stessi. Guardate questa: http://www.lse.ac.uk/collections/ESOCLab/whosWho.htm, il cv dell’associate director. Non è una cosa molto italiana?
Raffaele Saggio
Segnalo l’intervista al Prof. Peracchi riguardo proprio la riforma del Dottorato e altri punti nevralgici riguardanti l’attività di ricerca in Italia.
Spartaco
Sacrosanto. Ma è pura ipocrisia se non si fa lo stesso anche per i passaggi ricercatore->associato e associato->ordinario.