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E SULL’UNIVERSITA’ DATI CONTRO PREGIUDIZI

Una delle ricorrenti accuse contro l’università italiana riguarda la proliferazione dell’offerta formativa negli ultimi anni. Che sarebbe legata a interessi corporativi dei docenti. Non mancano le azioni clientelari, ma per lo più è il risultato di un’illusione ottica: l’introduzione del 3+2 ha spezzato il ciclo unico, portando come minimo a un apparente raddoppio del numero di corsi di studio. E corrisponde anche al tentativo di individuare percorsi più mirati al mercato del lavoro. Processi virtuosi, almeno nelle intenzioni, che hanno interessato tutti i paesi europei.

Nel suo articolo su lavoce.info, Alfonso Fuggetta afferma che “quando si parla di riforma dell’università emergono continuamente affermazioni presentate come verità scontate e che invece alla prova dei fatti non lo sono” e fornisce esempi probanti. Molti altri esempi di accuse all’università italiana, che vengono fortemente ridimensionate quando la si confronti con quella degli altri paesi europei, sono contenute in un pamphlet curato da chi scrive e dai suoi collaboratori, L’università malata e denigrata. Un confronto con l’Europa (si può trovare una sintesi e una selezione di tabelle e grafici sul sito www.unimi.it/news/34640.htm).

NUMERO DELLE SEDI E DEI CORSI

Una di queste accuse ricorrenti riguarda la proliferazione dell’offerta formativa negli ultimi anni, da molti ritenuta eccessivamente gonfiata da interessi corporativi dei docenti a moltiplicare i corsi di laurea e quindi le cattedre, oltre che da interessi clientelari del ceto politico locale che hanno portato a una diffusione di sedi universitarie decentrate.
Sulle sedi decentrate non disponiamo di dati comparati, che ci dicano se l’attuale distribuzione dell’offerta universitaria su ben 246 comuni italiani sia in linea o meno con gli altri paesi europei. (1) Possiamo solo rilevare che molte delle sedi decentrate sono state effettivamente volute dalle élite politiche locali per ragioni di consenso elettorale, anche se alcune hanno poi efficacemente contribuito allo sviluppo economico territoriale, oltreché a portare il tasso di iscritti all’università italiana nella media dei paesi dell’Ocse. E possiamo aggiungere che non ha certamente aiutato a contrastare la deleteria politica di “portare l’università sotto casa” la grave carenza di residenze universitarie in Italia, disponibili per solo il 2 per cento degli studenti, contro il 7 per cento in Francia, il 10 per cento in Germania o il 17per cento in Svezia. (2)
Le fonti nazionali consentono invece di comparare i dati sul numero di atenei e sul numero di corsi di studio attivati in diversi paesi europei, che mostrano la pretestuosità, o quantomeno la parzialità, della polemica sulla proliferazione eccessiva dell’offerta formativa e di molti toni scandalistici al riguardo.
Nonostante si sia recentemente consentita l’istituzione di alcune università telematiche e di altri piccoli atenei presumibilmente privi di requisiti minimi di qualità, il numero complessivo di università in Italia, che lo si calcoli per milione di abitanti o per milione di studenti, è all’incirca in linea con quello dei maggiori paesi europei e assai inferiore a quello degli Stati Uniti. Inoltre sappiamo che in Italia, diversamente da molti altri paesi, non esiste un consistente settore di istruzione terziaria vocational, cioè professionalizzante, accanto a quello strettamente universitario. Se oltre agli atenei veri e propri contiamo anche gli altri istituti di istruzione terziaria, come le Grandes Ecoles francesi, le Fachhochschule tedesche o le Hogescholen olandesi, il loro numero in Italia risulta larghissimamente inferiore a quello degli altri principali paesi, come si può vedere dalle prime due righe della tabella che segue.

Tabella. Numero di università e di altri istituti di istruzione terziaria e numero di corsi di studio attivati (ingrandisci la tabella)

Fonti per il n. di istituti e n. di corsi di studio: per l’Italia: Miur; per la Francia: Mesr; per la Germania: Statistisches Bundesamt; per i Paesi Bassi: ministero dell’Istruzione (Minocw); per la Spagna: ministero della Scienza e dell’innovazione (Micinn); per il Regno Unito: Unistats e Department for innovation, Universities and skills.
Fonti per il n. di studenti: Eurostat per tutti i paesi
Nota: il numero di corsi di studio ogni 1000 studenti è sottostimato in Francia, Spagna e Regno Unito. Nella prima mancano infatti i dati sui corsi nelle Grandes Ecoles, nella seconda sui corsi negli atenei privati. Per il Regno Unito vengono forniti i dati sul n. di aree disciplinari insegnate nelle varie sedi, ma ciascuna area si articola in un numero variabile di programmes, che, consultando i siti di alcuni atenei, abbiamo stimato in una media di 7 per il I livello e 12 per il II livello [tra parentesi quadra riportiamo la stima del numero di programmes].
Per maggiori dettagli si rinvia a http://www.unimi.it/img/news/Universita_malata_e_denigrata.pdf

 

Quanto alla vituperata “esplosione dei corsi di laurea (…) balzati in un lustro da 2.444 a 5.500” (La Repubblica del 22 novembre 2008), le due righe inferiori della tabella (con i chiarimenti forniti in nota) sono altrettanto eloquenti. Che cosa dovremmo dire degli 8.955 corsi di studio presenti oggi nelle università tedesche, a cui si aggiungono i 3.747 delle Fachhochschule? Che cosa del fatto che l’Olanda, il paese che possiede forse il miglior sistema universitario europeo (tutti i ranking internazionali includono tra l’84 e il 92 per cento delle sue università nelle top 500), presenta una media di 75.9 corsi di studio per ateneo contro la media italiana di 68.5? E che dire del fatto che, sempre in questo paese, vi sono novantasei corsi di laurea con meno di sedici iscritti, dodici dei quali con un solo iscritto e altri quattordici con due iscritti? (3)
Certamente si può rispondere che anche in quei paesi si è affermata una logica perversa. E certamente è stato così in molte facoltà italiane. Ma in realtà, nella maggioranza dei casi, l’espansione dell’offerta formativa è in larga misura l’effetto di un’illusione ottica da un lato e di buoni propositi coronati da successo dall’altro.

UN’ILLUSIONE OTTICA

L’illusione ottica è dovuta innanzitutto al fatto che l’introduzione del 3+2 ha spezzato il precedente ciclo unico portando come minimo a un apparente raddoppio del numero di corsi di studio, apparente perché si tratta di corsi più brevi dei precedenti. Tanto è vero che, in tutti i paesi che hanno aderito alle riforme concordate nel cosiddetto “processo di Bologna”, il numero dei corsi è rapidamente aumentato; e questo numero sarebbe certamente più elevato se paesi come la Germania o la Spagna non avessero introdotto la riforma del 3+2 assai più tardi dell’Italia. In secondo luogo, l’illusione ottica è dovuta al fatto che molti dei nuovi corsi di laurea e di laurea specialistica istituiti a seguito della riforma non sono molto diversi dagli “indirizzi” in cui si articolavano i vecchi corsi di laurea, che però non venivano conteggiati separatamente.
Ma l’espansione dell’offerta formativa non è solo l’effetto di questa duplice illusione ottica. Èstata anche l’esito di buoni propositi coronati da successo. Infatti, il processo di Bologna non ha significato solo l’introduzione dei due (in seguito tre) cicli di studio: almeno nelle intenzioni, ha comportato un tentativo di riprogettare l’offerta formativa in senso più student-centred, cioè più orientato alle esigenze di apprendimento degli studenti ai fini del loro successivo inserimento nel mondo del lavoro. In tutta Europa, si sono moltiplicate le raccomandazioni a indicare negli “obiettivi formativi” dei corsi di studio i “risultati di apprendimento attesi” e a individuare gli “sbocchi professionali anche con riferimento alle classificazioni nazionali e internazionali”. Questo ha indotto molte facoltà italiane a proporre corsi di studio meno generici dei precedenti, molto più articolati e più mirati a specifici segmenti del mercato del lavoro.
Basti un solo esempio al riguardo. Al momento dell’applicazione della riforma degli ordinamenti didattici, nel 2001, chi scrive era preside della più grande facoltà di Scienze politiche italiana, che con il vecchio ordinamento aveva un unico corso di laurea, suddiviso in cinque “indirizzi” e diciotto “piani di studio”. Con la riforma, quell’unico corso di laurea venne scorporato in sei corsi di primo livello, quasi tutti corrispondenti ai vecchi indirizzi, più un corso interfacoltà, cui vennero in seguito aggiunti dieci corsi di secondo livello. Apparentemente, una proliferazione spropositata dell’offerta formativa. In realtà, un tentativo di individuare percorsi e sbocchi occupazionali più mirati ai diversi segmenti del mercato del lavoro di quanto non fossero i precedenti “indirizzi”, che ha comportato una più razionale organizzazione degli studi e solo in parte minore un aumento dell’organico. Gli effetti per la facoltà sono stati da un lato il forte aumento di iscritti, il 12,47 per cento fra il 2000 e il 2005, attirati fra l’altro da corsi di studio meno generici e più diversificati; dall’altro un maggiore impegno didattico dei docenti, che non sono più titolari di un unico corso ma insegnano in media due-tre corsi ciascuno.
È possibile che questa attenzione alla employability dei laureati si sia rivelata eccessiva, o basata su presupposti errati, o abbia addirittura condotto a risultati controproducenti. Su questo il dibattito è aperto in tutti i paesi europei, ma senza i toni scandalistici e accusatori che invece costituiscono il leit-motiv del discorso pubblico in Italia.
Come per altri aspetti relativi all’università italiana, la proliferazione dell’offerta didattica è stata in parte l’esito di esagerazioni o addirittura di operazioni clientelari; ma in parte maggiore è stata un risultato fisiologico di processi virtuosi, quantomeno nelle intenzioni, che hanno riguardato tutti i paesi europei. I dati comparati che abbiamo presentato richiederebbero una valutazione equilibrata, non certo i pregiudizi, la disinformazione e la tendenziosità che purtroppo imperano nel dibattito sull’università italiana.

(1) Cnvsu, Nono rapporto sullo stato del sistema universitario, dicembre 2008.
(2) Si veda in proposito Biggeri e Catalano, L’efficacia delle politiche di sostegno agli studenti universitari, Il Mulino 2006.
(3) Ministero olandese dell’Istruzione, Kennis in Kaart 2007, p. 91.

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FACCE DI PARAFFINA

16 commenti

  1. Aram Megighian

    Finalmente qualche numero chiaro. Un chiaro problema è che tutto ciò che si dice e si scrive sull’Università al di fuori dell’ambiente universitario stesso è completamente asservito alla demagogia di stampo politico. E’ ovvio per chi lavora all’interno dell’Università che vi sono dei problemi; ma è altrettanto ovvio che si cerchi di risolverli da fuori con uno spirito distruttivo piuttosto che costruttivo. I dati Eurostat sulla ricerca e sullo sviluppo parlano da soli, evidenziando uno scarso (rispetto ai top europei) finanziamento. Si fa presto a dire poi che si deve premiare chi fa ricerca. Inoltre, se l’Università deve preparare buoni studenti, deve anche avere buoni docenti, cosa che non sempre è legata a ottimi ricercatori. Dove si trova menzione sul premiare il merito didattico nelle varie riforme presentate? A maggior ragione, considerando che, come detto nell’articolo, un docente insegna in più di un corso (tanti dimenticano appunto i carichi didattici). Infine, l’eterno problema: concorrenza tra università vuol dire, a mio parere, abolizione del valore legale del titolo di studio. Abolendolo si premiano i laureati provenienti da Università di valore, molto più di oggi.

  2. Sagliano Salvatore Antonio

    Nel vostro articolo non si parla di 2 dati importantissimi: il primo, pubblicato più di una volta dal sole24ore, è che dal 2000 al 2007 i docenti sono aumentati del 32%, a fronte di un aumento degli studenti di gran lunga minore (definito nel vostro articolo); il secondo è che nei fatti si verifica spesso una ridondanza di materie e contenuti nel corso specialistico, già previsti in quello triennale. Oltretutto non vedo nella differenzazione dei corsi (spesso minima, si tratta di pochi esami) un aspetto di notevole importanza: il lavoro realmente si apprende sul campo, tramite l’esperienza. E poi mi sembra che la presenza degli esami a scelta dia già allo studente una certa discrezionalità su come orientare i propri studi. L’università è una fase di passaggio, non credo esista la necessità di sopportare tale spesa per queste ragioni.

  3. giuseppe saccomandi

    Credo che i vostri dati non rendano giustizia della situazione perché da qualche anno gli Atenei mascherano l’orgia di corsi di laurea aperti nel primo periodo della riforma, aprendo più curricula nello stesso corso di laurea. Dovete misurare i CFU offerti e fare i CFU pro capite per ogni docente presente nell’organico di ogni ateneo. In questo modo ne scoprirete delle belle. I docenti universitari italiani in alcune facoltà arrivano anche ad erogare 50 CFU annui! Tanto per raccontare una bella storia nel primo periodo dopo la riforma a Lecce si offrivano due corsi di laurea in filosofia (stessa classe di laurea) uno grazie alla facoltà di lettere e filosofia, uno grazie a scienza dell’educazione!

  4. Luca Guerra

    Sicuramente quanto asserito dall’autore è vero, ma è anche altrettanto vero che i dati vengono poi interpretati, cosicché quanto per qualcuno è positivo per altri risulta discutibile o negativo. Ciò premesso, il sapore dell’articolo è quello di una difesa d’ufficio, che non considera i soldi del contribuente con il dovuto rispetto, per cui non valuta come la diffusione sul territorio dei centri universitari costituiscano ulteriori centri di spesa per le università e quindi per il contribuente, chiamato a pagare tale stato di cose.

  5. Aram Megighian

    A mio parere, vi sono commenti che sono una dimostrazione di come prevalga spesso, pur nel rispetto di opinioni differenti, una notevole demogogia. Si citano i ripetuti articoli del Sole 24 ore come fossero gli unici dati disponibili. Nell’articolo di Regini, invece, i dati citati sono di fonte ministeriale, e quindi, a mio parere, gli unici su cui bisogna sedersi a ragionare. E risulta che abbiamo meno docenti della Germania (considerando 80 milioni di abitanti contro 60 milioni circa, direi che siamo forse un po’ più bassi). Quindi non c’è una pletora di docenti. Se questi sono validi, è un altro paio di maniche (vedi cioè concorsi). Inoltre, obietto pienamente con il discorso esperienza. Ci si dovrebbe semmai chiedere se il mondo industriale italiano è all’altezza di accogliere i nuovi laureati specialistici e non. In una tabella dello studio citato, risulta che abbiamo un terzo dei laureati in scienze e tecnologia della Germania. Dove dovrebbero andare a fare esperienza i nostri laureati? Nelle competitive e avanzate imprese italiane?

  6. Alessandro Puzielli

    Egregio professore, se ho ben capito il 3+2 dovrebbe solo formalizzare come corsi quelli che prima erano specializzazioni ed indirizzi. In tal caso la riforma è consistita principalmente nell’anticipare una scelta formativa. Prima però si avevano le basi di una scienza per decidere dove indirizzare gli studi (con una certa età): ora si deve scegliere senza quelle basi e prima di quell’età. Io non vedo vantaggio ma solo confusione ulteriore. Scegliere se studiare fisica applicata o ingegneria fisica è per un diciottenne una questione di lana caprina anche perchè non ha strumenti culturali per eventualmente capire dove ha sbagliato. Inoltre questa formalizzazione ha richiesto un alleggerimento delle materie base (analisi matematica, p.e.) per affrontare i corsi superiori: "Ecco a voi un Ingegnere che studia la teoria del caos senza conoscere l’integrazione per sostituzione": prima era una barzelletta, ora è una realtà. Sinceramente non capisco dove il mondo del lavoro ci abbia guadagnato a regime.

  7. Alessandro Figà Talamanca

    Secondo i dati dell’ufficio statistica del MIUR i docenti di ruolo delle università italiane erano 51953 nel 2000 e 61929 nel 2007. L’aumento percentuale non è quindi del 30%, ma del 19%. Inoltre circa 3000 nuovi ricercatori e/o professori associati furono imposti da una leggina bipartisan che ha sostanzialmente obbligato le università a far passare nel ruolo dei ricercatori (e per alcuni privilegiati in quello degli associati) tutti i tecnici laureati, a loro vola frutto di assegnazioni mirate da parte del Ministero, che a suo tempo, scavalcarono gli organi accademici. A Roma "Sapienza" l’aumento del numero dei docenti si è verificato solo per Medicina. L’insieme delle altre facoltà ha subito invece una (modesta) diminuzione.

  8. Mauro Calcagno

    Quando si paragonano i dati sulle universita’ americane e italiane i termini di comparazione sono differenti. Si comparano "apples and oranges". Il concetto che tutte le universita’, da Camerino a Milano, abbiano la stessa funzione – alta ricerca e didattica di medio o basso livello, comunque mai valutata – non e’ quello che governa gli atenei americani, sia privati che pubblici. Per citare solo alcuni casi in una grande varieta’ di offerta, essi vanno da entita’ come Harvard in cui e’ premiata l’alta ricerca e la didattica e’ a livello medio, a liberal art colleges dove il bilanciamento fra i due puo’ arrivare a un basso livello di ricerca e uno alto attribuito della didattica, a scuole statali dove, come nel sistema Univ. of California il modello e’ Harvard o dove, come nel sistema CalState, il modello e’ una sorta di liberal art college economico di massa e l’insegnamento e’ prioritario. In ognuno di questi sistemi si assumono docenti su basi professionali diverse e con diverse retribuzioni; le facolta’ variano e il rapporto con il territorio e’ sempre diverso. In Italia le universita’ sono tutte "Harvard", i docenti tutti grandi ricercatori e con identica, bassa retribuzione.

  9. giuseppe faricella

    Io credo che la riforma del 3+2 sia stata una buona riforma. Quello di cui avremmo bisogno adesso è: da un lato, di una più severa selezione degli studenti al passaggio da triennale a specialistica (che tenga conto di voti e tempo impiegato); dall’altro, di una maggior concentrazione e di un maggior coordinamento delle attività di ricerca (ma non di quelle di didattica!) intorno a pochi poli regionali, secondo configurazioni – per dirla in termini di logistica – "hub’n’spokes". Le attività di trasmissione del sapere devono essere diffuse sul territorio, mentre le attività di produzione dello stesso vanno concentrate in pochi nodi. E’ una questione di economie di scala e di efficienza distributiva.

  10. armando plaia

    Se parliamo di processi virtuosi a proposito di indirizzi o curricula dobbiamo considerare il sistema dei crediti. Il (credito in quanto) peso specifico di una materia ha senso in un sistema flessibile, in cui è lo studente a scegliere il suo curriculum: ciò peraltro arricchisce l’offerta formativa senza necessità di creare un corso di laurea che irrigidisce il percorso. Che senso ha invece pesare le materie in un sistema rigido in cui il piano di studi è in larga parte precostituito? Se aggiungiamo che il credito dell’università di Palermo di fatto non corrisponde a quello dell’università di Torino e a fortiori a quello dell’università di Dublino, la misura perde anche la sua funzione di strumento di confronto e dialogo tra facoltà e atenei diversi. Il sistema rimane rigido rispetto al percorso scelto, e le alternative vengono inutilmente burocratizzate con percorsi alternativi e farraginosi chiamati corsi di laurea. L’offerta formativa si misura invece sulla flessibilità di un percorso, in larga parte creato da llo studente, che può rimanere unico (e che il mondo del lavoro vaglierà) non invece su una pluralità di curricula che si danno in rigida alternatività.

  11. Filippo Sartor

    Finalmente un articolo controcorrente sulle riforme in atto neglio ultimi anni nelle università italiane. E’ soprattutto una visione e dati europei che aiutano a comprendere meglio il contesto entro cui la riforma del 3+2 si sta collocando. Senza voler fare la difesa incondizionata del Processo di Bologna, credo che aver spezzato il ciclo unico degli studi universitari possa essere un importante opportunità sia per gli studenti che per il mercato del lavoro italiano. Inoltre permette alla nostra università di confrontarsi meglio sia con i sistemi universitari dell’Europa continentale ma anche con il sistema anglosassone e americano. I risultati di questi primi anni, spesso deludenti, dovrebbero invitarci ad insistere, non a tornare indietro. Insistere nello sviluppare la differenziazione del nostro sistema di istruzione superiore (includendo anche studi vocational) e nel promuovere una cultura radicata dei tre cicli (che a mio avviso non devono essere necessariamante 3+2+3 ma questo è un altro tema) che coinvolga in modo più partecipato i docenti, gli studenti e il mercato del lavoro. Ci vorrà del tempo, ma non credo sia possibile tornare indietro.

  12. Marco Santambrogio

    Che l’università italiana abbia qualche problema, non sarò certo io a negarlo. Ma davvero non capisco perché si consideri un problema l’aumento dei corsi di studi. A Lecce ci sono due corsi di filosofia. E allora? A parte il fatto che c’erano anche prima – la facoltà di Magistero è sempre stata una brutta copia di quella di Lettere – che cosa c’è di male? L’importante è che in entrambi i corsi ci sia un numero proporzionato di studenti e di docenti e la didattica sia di buona qualità. Chi si sta dando un gran da fare per ridurre il numero dei corsi è il ministero, che ha introdotto meccanismi complicatissimi: garanti, accreditamento, rapporti cervellotici tra le quantità di docenti delle varie fasce e così via. Ma non ho capito a quale scopo. Se si volessero evitare gli sprechi, distribuire meglio i docenti e migliorare la didattica, sarebbe più semplice (a) favorire la mobilità degli studenti e (b) valutare seriamente la qualità dei corsi, rendendo pubblici i risultati delle valutazioni. Prima o poi gli studenti diserterebbero i corsi inutili e mal fatti. Quelli andrebbero semplicemente chiusi.

  13. amsicora

    Nessuna disponibilità ad accettare le critiche ed a riconoscere i propri errori. L’impressione è quella di una casta che intende perpetuare i propri privilegi a spese dei contribuenti.

  14. Enrico

    Mi sono laureato in Ing.Informatica a Padova e facevo parte delle ultime matricole che hanno seguito il vecchio ordinamento. ho assistito personalmente al passaggio e la mia impressione é sempre stata che per Ingegneria (e probabilmente per tutte le materie scientifiche) il 3+2 è una fesseria. il livello di insegnamento si é abbassato drasticamente e i voti alzati di riflesso. Per sfornare ingegneri vendibili nel mercato del lavoro in 3 anni si sono tralasciate le basi matematiche, i nuovi corsi saltavano regolarmente le dimostrazioni dei teoremi per problemi di tempo riducendosi a una serie di fatti calati dall’alto da tenere a memoria. un tempo gli Ingegneri italiani erano ricercati in tutta europa, temo che ci siamo abbassati al loro livello. riguardo le materie umanistiche non mi pronuncio, non avendo esperienza nel campo.

  15. Michele Costabile

    Bravo Regini! Era ora che qualcuno scavasse fra le macerie del provincialismo che occlude la mente prima ancora degli occhi. Del resto il tenore di molti commenti dimostra come anche una platea, che si suppone "selezionata", come quella dei lettori de La Voce soffra di spesse occlusioni: da chi crede che le universita’ in Italia siano diverse dagli USA perche’ da noi il valore legale "impone" un valore reale di omogeneita’ dell’oferta, a chi si ostina a immaginare una laurea "Ford T Nera" (il postfordismo della conoscenza e’un truismo, e forse per questo molti non riescono a coglierlo), da chi ignora il concetto di sperimentazione e selezione quali fasi dei cicli evolutivi (ah se almeno chi si occupa di universita’ avesse letto una vulgata su Darwin!) – anche in Olanda alcuni prodotti universitari vengono lanciati, falliscono e vengono ritirati dal mercato 😉 – senza sperimentazione non ci sarebbe evoluzione. Senza parlare di chi continua a ignorare l’emergere (in tutto il mondo!) dei cicli di istruzione postsecondaria (gli ingegneri che qualcuno continua a sognare esistono ancora…dopo il Master o il dottorato ;-). 1, 100, 1000 Regini!!

  16. Marcello Romagnoli

    Anche io sono daccordo con Regioni, contrariamente a quello che l’oggetto della email farebbe pensare. Occorre vedere i dati con obbiettività ricordandoci che se occorrono dei tagli, la scuola e la ricerca è l’ultimo posto dove tagliare. Ricordo che quando vennero fuori i dati Ocse sulla scuola l’Italia spendeva una percentuale del PIL molto inferiore alla media e, come si dice, non si fanno i matrimoni con i fichi secchi. poi se qualcuno mi dice che occorre spendere meglio sono in piena sintonia, ma sempre fichi secchi sono. Andai a guardare anche il numero di studenti per insegnante confrontando la media italiana, vicino a 20 studenti/docente e quella delle prime 100 università del mondo per qualità, molto inferiore e aggirantesi attorno a 10 studenti/docente. E’ vero anche qui che vale il discorso del pollo di Trilussa, ma è anche ovvio che il dato è incontrovertibile e che nessuna analisi può inficiarlo (vevo preso il dato di studente equivalente che pesa i fuoricorso). La realtà è che l’italia è terra di conquista, lo siamo stati dalla caduta dell’impero romano, e più è debole più è facile conquistarla.

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