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ITALIA IN CONTROTENDENZA SUGLI AIUTI ALLO SVILUPPO

La Banca Mondiale chiede ai paesi industrializzati di destinare lo 0,7 per cento dei pacchetti anticrisi per interventi a sostegno di infrastrutture e welfare nei paesi in via di sviluppo più esposti. E alcune nazioni aumentano di conseguenza gli stanziamenti. Non l’Italia, dove la progressiva riduzione delle risorse rischia di togliere alla struttura di cooperazione qualsiasi incentivo a riformarsi. Soprattutto, manca un impegno politico esplicito e coerente. Sugli aiuti allo sviluppo, l’Italia agisce come una economia piccola o in transizione, non da presidente del G8.

Alla fine del 2008, tutti i paesi industrializzati avevano riconfermato, in sede Nazioni Unite e Ocse, l’impegno a un progressivo aumento dei volumi d’aiuto i paesi in via di sviluppo, per non aggravare la fuga di capitali da economie vulnerabili e già in difficoltà. Con l’inizio del 2009 l’unanimità Ocse è svanita.

CHI AUMENTA E CHI DIMINUISCE L’AIUTO

La Banca Mondiale ha chiesto ai paesi industrializzati di destinare lo 0,7 per cento delle risorse stanziate dai provvedimenti nazionali anticrisi per interventi a sostegno di infrastrutture e welfare di base nei 43 paesi in via di sviluppo più esposti alla crisi. (1)
Svizzera, Spagna, Giappone e Germania aumenteranno l’aiuto con somme tra i 100 e 500 milioni di euro. Il Giappone prevede di incrementare del 50 per cento gli aiuti destinati al Sud-Est asiatico, il governo svizzero punta allo stesso incremento e la Spagna aumenterà i prestiti a Pvs, a condizione però che la realizzazione degli interventi sia affidata a imprese spagnole. Anche Francia e Regno Unito hanno confermato un progressivo aumento della percentuale di aiuto sul Pil. Infine, la prima finanziaria della presidenza Obama chiederà al Congresso una crescita del 10 per cento degli aiuti ai paesi in via di sviluppo.
Altri paesi europei, soprattutto le economie di piccole dimensioni o emergenti, iniziano invece a tagliare gli aiuti. Il governo irlandese li ha decurtati del 10 per cento, ma vi destinana ancora lo 0,53 per cento del suo Pil. La Repubblica Ceca sta considerando una significativa riduzione, mentre la Lituania ha completamente azzerato gli aiuti.
Già a fine settembre, ben prima delle piccole economie europee, l’Italia ha tagliato del 56 per cento gli stanziamenti della cooperazione allo sviluppo gestiti dal ministero degli Esteri, dimezzandone l’incidenza sul bilancio dello Stato, che ha continuato a crescere del 3 per cento. Nell’anno della presidenza italiana del G8, si stima che nel 2009 l’aiuto pubblico allo sviluppo del nostro paese potrebbe raggiungere al massimo 1,7 miliardi circa di euro, lo 0,11- 0,12 per cento del Pil, quasi dimezzandosi rispetto ai livelli già insufficienti del 2008. (2) Si tratta di risorse limitate, frutto di scelte politiche più vicine a quelle di economie europee molto piccole o in transizione che a quelle di un membro del G7.
Riconoscendo apertamente le proprie debolezze finanziarie, e per giustificarsi di fronte all’opinione pubblica internazionale, la cooperazione italiana ha dichiarato di volere puntare sul miglioramento della qualità dell’aiuto, attraverso una maggiore concentrazione degli interventi.

POCHI AIUTI E TANTI PAESI

Secondo la nuova programmazione triennale (2009-2011), all’Africa sub-sahariana sarà destinato il 50 per cento dell’aiuto bilaterale, seguita dall’area “Mediterraneo-Balcani” e America Latina. Le nuove quote geografiche programmate non riflettono le tendenze consolidate nel 2006-2007: in quel periodo l’area “Balcani, Mediterraneo e Medio Oriente” ha ricevuto il 45 per cento degli esborsi, al netto del debito, contro il 25 per cento previsto per il prossimo triennio. (3) Unito alla contrazione delle risorse finanziarie complessive, tutto ciò si dovrebbe tradurre in una sostanziale riduzione dell’impegno finanziario italiano assoluto nell’area.
La programmazione triennale indica 58 paesi quali potenziali candidati a ricevere l’aiuto pubblico allo sviluppo del nostro paese: una riduzione significativa rispetto alle 94 nazioni del 2007. Lo sforzo di concentrazione replica processi simili in atto in altri paesi europei, anche se la lista italiana resta ben più lunga. Nel 2007 la Spagna ha indicato 52 possibili paesi partner; la Svezia ha stabilito una lista di 33 partner, mentre la Finlandia si limita a otto.
Tuttavia, la cooperazione italiana non chiarisce quali siano stati i criteri per la selezione dei paesi prioritari del suo intervento. Secondo uno studio pubblicato dall’istituto di ricerca delle Nazioni Unite per lo sviluppo economico, la nostra cooperazione sembra concentrarsi su paesi piccoli, con una distribuzione dei redditi più egualitaria, maggiori libertà civili e bassa mortalità infantile. (4)  Secondo uno studio della cooperazione francese, invece, l’Italia non utilizzerebbe alcun criterio selettivo nella scelta dei partner. (5)
Si abbozza anche una strategia di selezione e concentrazione dell’impegno verso le organizzazioni multilaterali: erano circa cinquanta quelle che nel 2008 hanno beneficiato di contributi italiani. Tra i criteri per la selezione, figura l’“italianità” della sede dell’organismo internazionale. Sembra una contraddizione in termini, ma è così. Avere la sede in Italia è considerata condizione sufficiente perché l’organizzazione rappresenti un vantaggio comparato per la nostra cooperazione. La programmazione non fa alcun riferimento all’opportunità di valutare l’efficacia delle singole organizzazioni multilaterali in modo oggettivo, come invece fanno altri paesi Ocse.

SE MANCA LA COERENZA

La cooperazione italiana dichiara di voler contribuire a garantire l’efficacia dell’intero processo di sviluppo. (6) Ma nella programmazione non si fa alcun riferimento alla necessità di assicurare la coerenza delle politiche di relazioni esterne dell’Italia, commerciali o migratorie ad esempio, con gli obiettivi di sviluppo dei paesi partner, come invece si sono impegnati a fare tutti gli Stati membri dell’Unione nel 2005.
L’Italia non si è ancora dotata di uno strumento di coordinamento tra le differenti agende ministeriali. Ma soprattutto manca un chiaro ed esplicito impegno politico a far sì che in caso di conflitto di scopo tra le differenti politiche, gli obiettivi di sviluppo siano considerati prioritari.
Proprio a causa di questa lacuna, alcune recenti scelte di politica estera e interna sembrano già compromettere il precedente tentativo di miglioramento della qualità geografica della cooperazione, evidenziando il deficit di coerenza e coordinamento istituzionale.
La firma del trattato Italia-Libia prevede un esborso annuale di 200 milioni circa per finanziare interventi, classificabili come aiuto, per venticinque anni: così, però l’area “Balcani-Mediterraneo”  sorpassa nuovamente l’Africa sub-sahariana. Contemporaneamente, il disegno di legge “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile” prevede di rendere più semplice avviare, realizzare e, implicitamente, favorire interventi di cooperazione in quei paesi che abbiano sottoscritto accordi di rimpatrio o di collaborazione nella gestione dei flussi dell’immigrazione clandestina. E che non necessariamente fanno parte dei 58 paesi prioritari.
La sfida per migliorare efficacia e qualità dell’aiuto non può essere affrontata come opzione di ripiego a fronte della scarsità dei fondi disponibili. Anzi, la progressiva riduzione delle risorse finanziarie rischia di togliere alla struttura di cooperazione qualsiasi incentivo per riformarsi, investendo nel futuro. Senza il pieno coinvolgimento delle leadership ministeriali, qualsiasi dichiarazione sul miglioramento dell’efficacia è molto probabilmente destinata a produrre risultati non duraturi e a palesarsi in modo imbarazzante come un semplice esercizio di pubbliche relazioni per distrarre l’opinione pubblica internazionale dai suoi problemi quantitativi. Il dato più evidente in questo momento è che, rispetto alle quantità d’aiuto, l’Italia agisce da economia piccola o in transizione, non da presidente del G8.

Postilla dell’autore

A fine marzo sono usciti i nuovi dati OCSE sull’aiuto per l’anno 2008.
Secondo il l DPEF 2008/2011, il rapporto APS/PIL del nostro Paese doveva essere lo 0,33% nel 2008 e invece si attesta allo 0,20%, l’ultimo paese nell’Europa dei 15 assieme alla Grecia, un punto percentuale in più rispetto al 2007.
Le quote di Aiuto Pubblico allo Sviluppo continuano a essere falsate dalla contabilizzazione della cancellazione del debito dei Paesi in via di sviluppo; per il 2008, al netto delle cancellazioni, si è passati dallo 0,16% del 2007 allo 0,15% di APS/PIL. In termini reali, c’è stata una riduzione di 100 milioni di dollari sui valori per l’APS nel periodo 2007-2008.
Prendendo in considerazione gli impegni di aumento presi più volte nel passato e poi disattesi, si tratta di ormai di un buco stimabile in 3 miliardi di dollari per il 2008. I dai DAC continuano ad essere un pessimo biglietto da visita per il Paese che quest’anno è alla guida del G8 e mettono in dubbio il contributo dell’Italia per arginare gli effetti della crisi globale nei paesi a basso reddito.

(1) Banca Mondiale, Crisis hitting poor hard in developing world, febbraio 2009.
(2) Le stime sono della Direzione generale cooperazione allo sviluppo, Linee guida triennali 2009-2011, dicembre 2008. Nel rapporto Aps/Pil, gli scarsi stanziamenti d’aiuto vengono limitatamente compensati dalla contrazione dell’economia nazionale. Infine, il Dpef 2008-2011, prevedeva di raggiungere lo 0,33 per cento del Pil nel 2008 e lo 0,42 per cento nel 2009.
(3) Elaborazione database Dac, 2009.
(4) Isopi, Mavrotas, Aid allocations and aid effectiveness, Wider, gennaio 2006.
(5) Amprou, Aid selectivity according to augmented criteria, World Economy, 2007.
(6) Direzione generale cooperazione allo sviluppo, Linee guida triennali 2009-2011, dicembre 2008.

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LA RISPOSTA AI COMMENTI

  1. F

    Ormai è da diversi anni che l’Italia non rispetta gli impegni riguardanti gli aiuti allo sviluppo. Data la presidenza G8 credo che il governo, come spesso fa, adotterà una strategia d’immagine mettendo sul piatto una somma piuttosto consistente. Ma sarà solo una tantum per poi tornare a bassissimi livelli che ci "distinguono" normalmente (e soprattutto per il 2008-2009).

  2. carlo

    L’Italia non ha ne’ una politica di cooperazione allo sviluppo ne’ una politica estera. Con D’Alema alla Farnesina una qualche logica si era cercato di stabilirla e seguirla, una posizione più neutrale sul conflitto Israele Palestina, un’apertura nei confronti dei paesi islamici, Iran compreso, una condanna, ma senza eccessiva ipocrisia, dei paesi che non rispettano i diritti umani. Con Berlusconi e Frattini sembra di essere ritornati su posizioni pro-atlantiche pre-Obama -con Obama il modo di far politica estera degli Stati Uniti un po’ è cambiato- eccetto per ciò che riguarda i rapporti con la Russia, che il Capo considera essenziali. Che la politica di cooperazione allo sviluppo non abbia nord non deve perciò sorprendere. Non ce l’ha neanche la politica estera.

  3. mauriziosbrana

    Non tutto il male viene per nuocere. Visto quello che non si è riusciti a far migliorare in tutti questi anni per i Paesi in via di sviluppo (fin qui soprattutto si è ‘aiutato’ solo la classe al potere nei diversi Paesi, nonchè, collateralmente, le banche dei Paradisi Fiscali, ove sono state riallocate le risorse pervenute!). E poi non si capisce il perchè dell’arrivo sempre più consistente dei ‘clandestini’. Viva la solita ipocrisia!

  4. ugo pica ciamarra

    La sua analisi e’ condivisibile e mi compiaccio del fatto che sia riuscito a comprendere il pessimo italiano delle linee-guida della cooperazione italiana allo sviluppo. A mio avviso, comunque, il punto di maggiore debolezza della cooperazione italiana e’ nella mancanza di linee guida chiare e non ambigue, oltre che di denari come lei sottolinea. L’Italia e’ probabilmente uno dei pochi paesi industrializzati che non ha un ‘white paper’, un ‘position paper’ che espliciti chiaramente obiettivi e strumenti della cooperazione (veda i siti DFID, AFD, USAID, AUSAID, DANIDA, GTZ etc. per un confronto). Le attuali linee guida sulla riduzione della poverta’ sono cosi’ generiche da essere imbarazzanti, per non parlare del fatto che il documeto scaricabile dal sito della cooperazione allo sviluppo, ufficialmente ‘in via di revisione’, e’ datato ottobre 1999. Non sarebbe male un breve articolo che mostrasse questa lacuna.

  5. marco

    Mi pare che ci siano numerosi esempi di aiuto allo sviluppo finito in mani sbagliatissime…Non sarebbe bene che gli aiuti venissero piuttosto decisi e coordinati da agenzie (dell’ ONU, FMI, ..) e che gruppi ristretti di paesi sviluppati "prendessero in carico" collegialmente la pianificazione e la responsabilità degli aiuti a singoli paesi o piccoli gruppi di paesi con problematiche simili? Si eviterebbero duplicazioni di aiuti e il controllo migliore eviterebbe la dispersione degli aiuti stessi e la loro appropriazione da parte di classi dirigenti corrotte.

  6. Marco

    Gli aiuti allo sviluppo "aiutano" aziende e ONG dei paesi donatori, e che si riportano i soldi a casa, oppure ingrassano i conti correnti segreti di presidentini e dittatorucoli di ogni continente ed etnia. Dunque meglio tagliarli. E dato che ci siamo meglio condoniamo i debiti, tanto i paesi riceventi che sprecano gli aiuti non li possono ripagare e quelli che li ripagano devono sacrificare risorse che altrimenti potrebbero investire. Poi, ovviamente, basta prestiti. Però apriamo le frontiere ai prodotti dei paesi poveri, ed aiutiamoli così veramente ad aiutare sé stessi, e beneficieremmo anche noi di prodotti meno cari, alla faccia delle lobbies di agricoltori, tessili, ecc nostrani.

  7. AM

    L’analisi è in gran parte condivisibile, ma evidentemente è datata ante terremoto. Ora le priorità per l’Italia sono necessariamente mutate. Tuttavia, anche importi ridotti possono essere erogati in un contesto di maggiore chiarezza nei criteri di allocazione e monitorando attentamente l’efficacia e l’efficienza degli interventi.

  8. Tognetti Samuele

    L’Italia ha ridotto i fondi per la cooperazione in base a delle esigenze nazionali. Altri paesi aumentano gli aiuti in base alle esigenze nazionali, bilancio permettendo. La logica con cui viene implementata la cooperazione internazionale risponde al "nazionalismo metodologico" di matrice Beckiana. Il vero problema e’ che la logica cosmopolita, che dovrebbe ispirare almeno la cooperazione, e’ completamente negletta. Basti pensare che gli aiuti allo sviluppo (per sua natura di lungo respiro) vengono implementati attraverso i "progetti", i quali, a loro volta, sono temporalmente legati alla durata di un governo. Il piu’ delle volte i progetti vengono lanciati in Paesi che sono sotto osservazione per avvenimenti che catalizzano l’attenzione dei media internazionali (guerre in primis). Anche la vaghezza delle linee guida italiane risponde perfettamente alle esigenze frammentate e mutevoli di politica interna. Nazionalismo metodologico implementato con "pratica casereccia".

  9. Marco Cavallero

    Siamo il paese che usa il FSE per pagare la cassa integrazione della crisi e ci stupiamo che non rispettiamo nessun impegno con il terzo mondo? Non rispettiamo nemmeno i nostri poveri e dovremmo farlo per la cooperazione? Questo paese oggi è tristemente noto per la sua posizione antisociale e anticooperativa. L’ultimo scandalo sul 5 per mille e la guerra tra poveri è indice della sensibilità di questo governo.

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