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RIFORMA DELL’UNIVERSITÀ: LA SELEZIONE DEL DOCENTE

La proposta di legge per la riforma dell’università prevede un’ampia delega al Governo che dovrà poi emanare molti regolamenti attuativi. Delle sue tre parti – governance degli atenei, qualità del sistema universitario, progressioni delle carriere dei docenti – cominciamo a esaminare la terza. Il suo un impianto dirigistico la espone a un forte rischio di manipolazione. La carriera accademica non appare particolarmente allettante per i giovani. E le nuove norme entreranno in vigore solo alla fine della legislatura. Troppo tempo per una riforma tanto urgente.

La legge delega in materia universitaria presentata il 27 ottobre scorso è divisa in tre parti. La prima affronta i temi della cosiddetta governance degli atenei, la seconda la qualità del sistema universitario, la terza le progressioni delle carriere del personale docente. Affrontiamo qui i temi relativi alla terza parte, rimandando un’analisi delle altre a prossimi interventi. La legge, se approvata nell’attuale formulazione, prevede un’ampia delega al Governo che dovrà poi emanare molti regolamenti attuativi. Potrà inoltre essere modificata nel corso del dibattito parlamentare che, al contrario delle ottimistiche previsioni del ministro Gelmini, si annuncia complesso.

L’ITALIA ANCORA FUORI DALLA RICERCA

Una previsione realistica è che la parte della legge relativa alle carriere dei docenti universitari sarà applicata solo dal 2012; prevediamo un anno per il percorso parlamentare di approvazione della legge e un altro per emanare statuti e regolamenti, per disegnare i nuovi dipartimenti e avviare le procedure concorsuali. L’esperienza del decreto legge del novembre 2009 (poche righe, ma ancora in parte non applicato) lascia poche speranze circa l’efficienza della macchina amministrativa del ministero. Una prima considerazione è che la scelta di una riforma radicale e non incrementale comporta anche che per alcuni anni l’Italia continuerà a non competere nello scenario internazionale della ricerca. Cosa accadrà nel frattempo alle migliaia di persone già nei ruoli non è dato sapere. Vediamo se almeno a regime le cose andranno meglio.
La riforma prevede che in futuro la posizione  dei ricercatori sia temporanea, con contratti di tre anni (eventualmente rinnovabili per altri tre) a cui potrà seguire una conferma nel ruolo di professore associato. Ciò avverrà in seguito al conseguimento di un giudizio di idoneità espresso da una commissione nazionale di abilitazione e al superamento di un concorso locale con una commissione espressa dal dipartimento che ha bandito il posto e composta dai professori della materia. Chi oggi sceglie di tentare la carriera accademica in Italia sa che per i prossimi due o tre anni non cambierà nulla, perché l’unico varco ancora aperto è il concorso per ricercatore a tempo indeterminato previsto dal decreto dell’ex-ministro Mussi. Chi invece compirà questa scelta dopo il 2012 troverà un percorso diverso, di cui tuttavia è difficile anticipare con precisione i contorni, viste le caratteristiche della riforma. Come vedremo, la riforma ha un’impronta fortemente “dirigista”; sarà il ministero o, per suo tramite, l’autorità per la valutazione (ANVUR), a fissare gli standard di abilitazione nazionale, la composizione delle commissioni, i passaggi di carriera e gli aumenti di stipendio.
Sappiamo però già da ora che sotto il profilo economico il percorso sarà poco attraente per coloro che hanno opportunità all’estero e per stranieri che volessero lavorare in Italia. La legge prevede un premio retributivo per i nuovi ricercatori a tempo determinato in misura “pari al 20% in più rispetto alla retribuzione di un ricercatore a tempo indeterminato” (comma 8 dell’art. 12 del titolo III). Profili di reddito più incerti dovrebbero essere adeguatamente compensati; ci sembra invece che il modesto incremento stipendiale rappresenti un impoverimento della posizione dei ricercatori.

CHE COSA C’È DI BUONO NELLA PROPOSTA DI LEGGE

Veniamo dunque alla proposta di legge. Un primo aspetto positivo è che i protagonisti del reclutamento saranno i dipartimenti, piuttosto che le facoltà, garantendo almeno in linea di principio una maggiore omogeneità e trasparenza del processo decisionale. Un secondo merito della proposta di legge è il riconoscimento esplicito che i ricercatori non hanno diritto ad un “posto a vita”, allineando l’Italia all’esperienza internazionale ed evitando di creare aspettative da parte di persone che non hanno le capacità di proseguire la carriera universitaria. Qui sarà importante che i tempi previsti dalla legge siano rigorosamente rispettati. Un’eventuale bocciatura al giudizio d’idoneità (per esempio al quarto anno di contratto) comporta la sospensione, per due anni, della possibilità di tentare un nuovo concorso. Il candidato potrà riprovare nel corso del sesto anno di contratto, ma se l’esame di abilitazione non si tiene davvero ogni anno, una bocciatura o un ritardo nei concorsi potrebbe significare l’ingresso nella precarietà. Sembrerebbe un punto di minore importanza, ma pochi sarebbero disposti a scommettere su un flusso di concorsi regolari amministrati centralmente.

LE RISORSE DEGLI ATENEI

Altrettanto certa deve essere la situazione finanziaria delle università, per programmare per tempo le carriere degli eventuali candidati dichiarati idonei dalla commissione nazionale. Altrimenti si correrà il rischio di candidati idonei che non possono entrare in ruolo per mancanza di risorse. Se vi fosse un vero “job market” tra università, si potrebbe immaginare che alcuni ricercatori utilizzeranno l’idoneità in altre università, magari di rango inferiore. La legge prevede, infatti, che le immissioni nei ruoli dovranno contemplare anche una quota di ingressi dall’esterno, forzando così la mobilità tra sedi. In carenza di fondi, ciò non si tradurrà necessariamente in maggiori opportunità per ricercatori “abilitati” ma esclusi dalle università che hanno esaurito le quote riservate agli interni.

UN MODO BIZZARRO DI COMPORRE LE COMMISSIONI

Anche se la riforma delle carriere è animata da buone intenzioni, l’applicazione prevista dalla legge presenta più di una perplessità. In primo luogo, appare bizzarro affidare la formazione delle commissioni di abilitazione (ad associato e ordinario) ad un sorteggio di cinque componenti. Anche escludendo dalle commissioni i docenti che non abbiano superato lo standard minimo previsto dalla legge (avere esercitato attività di ricerca nel triennio precedente, cfr. art. 5 – comma 4), i valori medi nazionali non saranno particolarmente elevati. La valutazione sarà quindi lasciata ad una commissione con competenze molto variabili e non prevedibili in anticipo. La procedura del sorteggio, unica a quanto ne sappiamo nel panorama internazionale, potrà forse ridurre il potere di qualche lobby accademica, ma ne premierà altre favorite dal caso e potrebbe avere effetti disastrosi in alcuni raggruppamenti. Oltre ai bassi salari, saranno quindi l’incertezza e l’assenza di garanzie sulla qualità delle decisioni delle commissioni che renderanno poco appetibile una carriera accademica in Italia.
Un secondo aspetto da considerare è l’importanza della selezione nazionale rispetto a quella locale. In Italia già da molti anni ricercatori, associati e ordinari sono valutati, al termine del primo triennio, da una commissione nazionale. Risultato: il candidato riceve quasi sempre un giudizio positivo ed è immesso nei ruoli (a vita). A nostra memoria, i casi di ricercatori, associati e ordinari che non sono stati confermati dalle commissioni nazionali si contano sulle dita di una sola mano. L’abilitazione nazionale prevista dalla riforma è molto simile all’attuale ”conferma in ruolo”, con la differenza, per i nuovi ricercatori, che l’abilitazione si tiene dopo sei anni (e non tre) e che la commissione è sorteggiata (attualmente nominata dal CUN). Date le esperienze del passato e i mille trucchi noti ai professori universitari per aggirare vecchie e nuove norme, è probabile che ottenere l’abilitazione nazionale non sarà particolarmente difficile (1).
Un terzo aspetto critico è l’esclusione dei giovani dai processi valutativi nazionali per il conseguimento dell’abilitazione e persino delle commissioni di dipartimento (art. 9, comma 2: “una commissione di almeno cinque membri con il compito di procedere alla selezione e composta da tutti i professori ordinari della struttura”). La gestione del processo di selezione sarà quindi assolta esclusivamente dagli ordinari, a conferma che nel nostro paese gli anziani sono l’élite, e i giovani devono attendere il loro turno. Chi abbia trascorso qualche tempo in un dipartimento straniero sa che spesso proprio i giovani (associati e ricercatori da noi) sono i più interessati e coinvolti nel processo di reclutamento; sono loro, molto più di anziani professori in declino, che potranno collaborare con i nuovi colleghi sul fronte della ricerca.
Infine, la legge prevede la partecipazione alle commissioni nazionali di “studiosi e di esperti di pari livello in servizio presso università di un Paese aderente all’OCSE”. Sarebbe interessante sapere come si pensa di convincere uno studioso straniero di primo piano a partecipare stabilmente ad una commissione nazionale che prevede l’esame, ogni anno, di decine di domande. Il carico di lavoro sarà notevole, perché la legge prevede che i commissari italiani potranno chiedere un congedo per partecipare alle commissioni  (art. 8, comma 3: “i commissari in servizio presso atenei italiani possono, a richiesta, essere parzialmente esentati dalla ordinaria attività didattica), facoltà ovviamente preclusa a un docente straniero.E ci domandiamo anche perché non si sia previsto l’obbligo, nelle procedure di selezione locale, di lettere di valutazione del candidato da parte di docenti stranieri esperti nel campo, così come avviene a livello internazionale quando si tratta di attribuire una “tenure”.

UN MIX INDIGESTO DI AUTONOMIA E CENTRALISMO

Complessivamente ci sembra quindi che il disegno di legge delega non rappresenti, nella parte riguardante le carriere, una soluzione particolarmente innovativa ed efficace del problema della selezione dei docenti universitari in Italia. I tempi lunghi di attuazione rischiano inoltre di allontanare dall’accademia italiana un‘intera generazione e di perpetuare forme di precariato. Dato l’approccio dirigista che ispira la riforma, sarebbe stato più coerente, semplice e trasparente un ritorno al concorso unico nazionale. Noi però abbiamo una visione diversa; preferiremmo che fossero i singoli dipartimenti responsabili del reclutamento, individuando in autonomia tempi e modalità delle assunzioni, che docenti e dipartimenti fossero valutati, e che alla valutazione seguissero forti incentivi e penalizzazioni. Nel tentativo di mediare tra autonomia e centralismo, la legge rischia di sommare i difetti di entrambi i sistemi.

(1)Una parte innovativa della legge – quella di maggiore interesse per i giovani e l’apertura internazionale – riguarda una quota di assegni di ricerca che saranno banditi a livello nazionale, ed in cui i vincitori potranno scegliere  l’università dove svolgere la propria attività. Ma non è chiaro quale sarà la quota di risorse destinata a questo canale di reclutamento. È del tutto evidente che se la quota di assegni sarà modesta, il provvedimento sarà inefficace.

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32 commenti

  1. Paolo

    Se i "tagli" decisi da Tremonti rimarranno, nessuna riforma sara’ possibile: L’Università rischia di collassare molto prima dell’attuazione di qualsiasi riforma.

  2. Nico Trenti

    Ma siamo sicuri che i ricercatori a tempo determinato non comporteranno più la creazione di "code" come sostenuto nell’articolo? E’ in realtà probabile che accada il contrario: 1) Non è prevista l’abilitazione nazionale per i ricercatori a tempo determinato, ma l’unico criterio è la selezione locale. 2) Questo porterà ad un alto numero di dottori di ricerca locali che inizieranno a collaborare con il dipartimento di turno con questa forma contrattuale a termine. 3) Essere ricercatori a TD rappresenterà un canale molto appetibile perché al termine del secondo triennio è consentita la chiamata diretta (di fatto di questo si tratta perchè un concorso con docenti del dipartimento equivale alla chiamata) previo conseguimento di un’abilitazione nazionale che non potrà che essere low profile. Quindi trascorsi sei anni si creeranno forti pressioni per la stabilizzazione, e per chi non ce la farà al primo colpo inizieranno le solite strategie per sbarcare il lunario in attesa del "posto".

  3. Leonardo Vignoli

    L’analisi proposta mi trova sostanzialmente d’accordo. Mi stupisce peraltro il mancato rimando alla legge 133 che determina tagli estremamente significativi al FFO e trovo stucchevole il continuo riferimento a "se i finanziamenti saranno sufficienti…" quale corollario di diversi commenti alle innovazioni portate dal nuovo dl (vedi disponibilità economica dei dipartimenti per bandire concorsi o assumere per chiamata diretta i ricercatori 3+3, o anche il bando nazionale di una quota assegni di ricerca). In mia opinione, se non viene emendata la legge 133 in merito ai tagli al FFO non ha senso promuovere alcuna riforma universitaria, e forse neppure commentarne…

  4. donatella del piero

    Buona sera ho letto il vostro articolo e mi soffermo sulla parte che riguarda i ricercatori. possibile che non cogliate nella norma dell’idoneità una perfetta "ope legis" e un invito a "sii bravo/a e taci" o peggio sii bello/a e taci? Quel taci ci sta sempre. Possiblile che non cogliate che le manovre poco trasparenti delle facoltà sono comunque giostrate su più persone e discipline, mentre i dipartimenti sono monocratici o quasi? Possibile che non si colga l’ anomalia operata parcellizzando le sedi delle scelte (dipartimenti) , privilegiando tale parcellizzazione ad un confronto più ampio in una facoltà che per forza deve avere una visione un po’ più ampia rispetto alla ricerchina o ricercona di moda? E per inciso non avete mai sentito: quello lo abbiamo rovinato o quello l’abbiamo dovuto promuovere, quello non passerà mai? Che cosa in questa riforma bypassa tali sconvenienze? Forse il fatto che non c’è la conferma in ruolo per associati e ordinari?

  5. Davide

    1. dal ddl scompare la giusta idea, ventilata nei mesi scorsi, di attingere i ricercatori da una lista di idonei nazionali formata sulla base di titoli e pubblicazioni. Altro che riforma basata sul merito: così contineranno a passare i soliti noti, magari senza pubblicazioni o al primo anno di dottorato. 2. Se uno ottiene l’idoneità ad associato ma non viene "chiamato", oppure non la ottiene, a 35-38 anni come si ricicla nel mondo del lavoro? Il ddl non lo dice, ma si rischia di buttare in strada gente con dottorati e esperienze che nel mercato del lavoro privato in Italia vengono considerati meno di zero. Magari si potrebbre pensare di dirottare i non idonei nella scuola secondaria, ma con le leggi attuali persone che hanno fatto anni di esperienza all’università, ai fini dell’insegnamento superiore sono considerati poco più di neolaureati. Alla faccia del merito, tutto cambia e niente cambia, gattopardescamente.

  6. Silvano Presciuttini

    Mi pare che l’articolo non coglie l’aspetto principale del d.d.l. sulle carriere, che secondo me è l’abolizione della figura del ricercatore di ruolo, o meglio, per come essa si è configurata nel tempo, della terza fascia docente. La riforma riprende un antico modello (esattamente databile al 1977) su cui governo e opposizione trovarono l’intesa, e che prevedeva un periodo di "precariato" post-laurea di 6-8 anni, con eventuale sbocco concorsuale nel ruolo docente; quest’ultimo era diviso in due fasce di pari numerosità di organico. Questo modello si scontrò con la realtà di allora, che vedeva un gran numero di precari già inseriti a vario titolo nel mondo universitario, e che non si capiva che fine avrebbero fatto; all’atto pratico fu creato per loro il ruolo del ricercatore, che nel tempo è diventato il ruolo di accesso alla docenza. In fondo, dunque, nulla di nuovo sotto il sole: si ripropone uno schema ideale, che appartiene all’immaginario degli ideologi sia di destra che di sinistra, il quale, ora come allora, non tiene conto della realtà e del buon senso (io lo capisco nel giro di sei mesi se un mio giovane collaboratore è candidabile o no alla carriera universitaria).

  7. Sagliano Salvatore Antonio

    Mi chiedo se la ripartizione del FFO sulla base di parametri di merito, già prevista dalla riforma, non inciderà – per forza di cose – anche sulla selezione del docente. I difetti tipici dell’autonomia, o di questo mix tra autonomia e centralismo, non verranno mediati dalla necessità di intercettare i candidati più capaci, per ottenere più risorse, in seguito al prevedibile miglioramento della qualità della ricerca e della didattica? Mi chiedo questo perché mi sembra che nell’articolo non si faccia alcun riferimento a questa relazione.

  8. D Moro

    Un tempo non molto lontano la carriera universitaria iniziava con il dottorato (precario) poi si diventava ricercatore, associato e se eri ammanicato potevi pure diventare ordinario. Praticamente non si era piu’ precari a 30-35 anni. Poi hanno aggiunto i post-doct, poi gli assegni di ricerca , adesso vogliono rendere precario anche il posto da ricercatore. Il risultato sarà :”una vita da precario” . Ora io non voglio entrare nel merito se sia giusta o meno la figura del ricercatore a termine. Ma volevo domandarmi: Con quale diritto la generazione degli ordinari, che sta scrivendo questa riforma, si fa giudice della nostra generazione? Con quale diritto questa generazione di anziani ci condanna al precariato? …..…..E sfortunatamente questo discorso non vale solo a livello accademico.

  9. Mauro Degli Esposti

    Concordo cone molte delle valutazioni fatte sul DDL di riforma e le sue implicazioni pratiche. Il profilo globale di riforma risulta molto gattopardesco e nel breve-medio periodo fara’ danni e peggiorera’ le cose ulteriormente, come molti oramai credono. Per un approfondimento di questa opinione suggerisco di leggere pagina, citata anche in un articolo di ieri su La Stampa

  10. pb

    Trovo eccessiva la speranza che gli AA sembrano riporre nei dipartimenti. La – supposta e tutta da verificare, soprattutto fra le varie discipline (non esiste solo economia…) – maggiore omogeneità dei dipartimenti non necessariamente implica una maggiore adesione alla ricerca del meglio, ma sovente solo una maggiore concordanza di interessi e camarille… In quanto alla possibilità che i dipartimenti possano essere incentivati a reclutare "i migliori" in quanto i fondi arriverebbero in base al "merito" non mi sembra che al momento rappresenti un tale deterrente in grado di incentivare comportamenti virtuosi. La retorica del "chi individua cos’è il meglio? Quali criteri sono validi per individuare il meglio?" la conosciamo bene, purtroppo… E in dipartimenti più ampi o pluridisciplinari si finirebbe inevitabilmente a non poter comparare fra diversi "meglio" … con ciò rivitalizzando le solite logiche di scambio. Ma forse io sono troppo pessimista, chissà?

  11. gres

    Diciamoci ottimisti (contro ogni evidenza) e immaginiamo che la riforma sia approvata così com’è, i decreti attuativi siano rispettosi degli intendimenti del governo, ecc. Il problema resta uno: come posso pensare alla pianificazione del sistema universitario se gli atenei non sanno ad anno accademico inoltrato su quali risorse potranno contare (come è accaduto quest’anno)? Come faccio a dire a un ricercatore a tempo determinato bravo "Non ti preoccupare fai sei anni qui da noi e poi ti daremo un posto da associato", se i dipartimenti sono in lotta per accaparrarsi i due o tre posti messi a disposizione ogni due o tre anni dalle facoltà (in genere distribuendo i posti a pioggia)? Indovinello. In queste condizioni quali saranno i ricercatori che rimarranno nell’università? Opzione 1: Gino figlio del primario del Policlinico/del docente di turno/compagno del club di tennis/ecc. Opzione 2: Pino, figlio del tramviere. Su chi scommettete?

  12. renzo

    Le risorse scarse sono un problema, ma è peggio che siano sprecate le poche che ci sono. Dov’è, in questa riforma che è ancora una gran scatola vuota, il meccanismo che punisce chi fa assunzioni sbagliate o al contrario premia quelle giuste? Penso che dovrebbero chiudere quei dipartimenti che sono incapaci di definire dei parametri di qualità, allineati a standard internazionali, sulla base dei quali si giudica il lavoro di ricercatori e professori. Altrimenti sono sempre tutti bravi e todos caballeros. Se solo si fosse abolito il valore legale del titolo di studio quanti effetti positivi a catena nel medio-periodo con un solo provvedimento!

  13. francesco ballio

    L’analisi di Checchi e Jappelli sulla proposta di legge (parte relativa al reclutamento) è ampiamente condivisibile. Lavorando nel mondo universitario da circa 15 anni mi sono però trovato costantemente di fronte ad un’impasse nelle critiche sul sistema: è facile e sensato muovere critiche alle proposte di riforma, più difficile fare proposte coerenti ed attuabili che migliorino effettivamente lo status quo. Ripeto: condivido l’analisi, sarei curioso ed interessato a leggere una proposta alternativa e/o correttiva del criticabile disegno di legge.

  14. simone

    In Italia ogni riforma dovrebbe partire dall’ipotesi della disonestà. Un ricercatore a tempo determinato sarà immediatamente ricattabile dal barone locale: già adesso molti ricercatori devono fare lezione al posto degli ordinari, che accadrà quando non ci sarà più il paracadute del posto fisso? Ma soprattutto, chi giocherà la propria carriera alla roulette delle finanziarie? Se sono un bravissimo ricercatore, ma è tempo di crisi, perderò ogni speranza di lavoro nell’università. Lo so che è già la situazione del lavoro nel settore privato, ma può una nazione perdere le menti migliori perché per due o tre anni c’e’ una crisi economica?

  15. giuseppe faricella

    Dipendesse da me, io – da profano – farei una riforma molto più semplice: 1) concorso unico nazionale per ricercatori, per associati e per ordinari più assegnazione delle sedi in base alle graduatorie 2) riduzione del numero dei settori disciplinari 3) 5,6 settori didattici per laurea, spalmati sui tre o sui due anni (come alle superiori) e tenuti da gruppi di docenti coordinati (cattedre collettive) 4) obbligo di una certa percentuale di reclutamento per le facoltà tecniche (economia, giurisprudenza, ingegneria, architettura…) di personale con esperienze professionali o aziendali. PS: in Italia abbiamo un’istruzione superiore ancora orientata a formare elite (come negli anni 30 o 50), mentre una università di massa deve preparare bravi impiegati, non aspiranti dirigenti frustrati dalla realtà del mercato del lavoro: insomma, meno "corporate governance" e dispute giuridico/dottrinali, più contabilità e software gestionali…

  16. elforma

    La riforma mi sembra un enunciato di principi condivisibili ma le cui proposte di implementazione non vanno nella direzione di adeguare le università italiane agli standard e usi dei sistemi più virtuosi. Proporrei di analizzare come selezionano il personale le 20 migliori università Europee e si noterà la distanza rispetto alle proposte della riforma. Da un lato si vuole (a parole) creare un sistema "competitivo" e aperto alla internazionalizzazione e dall’altro si ripropongono complicate alchimie concorsuali centralistiche. La tenure track può essere un buon sistema se da un lato vi è un flusso adeguato di risorse per dare una prospettiva reale ai meritevoli e dall’altro si stimola la crescita di un sistema economico capace di apprezzare e quindi assorbire chi pur giudicato non idoneo alla carriera accademica ha comunque accumulato competenze importanti. Altrimenti si andrà alla prossima ope-legis.

  17. marco

    Solo con il concorso nazionale si potrà avere un minimo di meritocrazia, i concorsi locali sono valutati da membri interni delle università, che danno come al solito il posto all’amico anziché al più meritevole. Poche storie…..solo il concorso nazionale con commissione superpartes, garantisce equità e meritocrazia. Quali dipartimenti? di che parliamo? Di lobby arroccate nelle università? Sarebbe ora di togliere potere a questi soggetti e ridare speranza a chi come me deve lavorare all’estero per campare

  18. fscarpa58

    Non è esatto che "Ciò [passaggio ad associato] avverrà in seguito al conseguimento di un giudizio di idoneità espresso da una commissione nazionale di abilitazione e al superamento di un concorso locale con una commissione espressa dal dipartimento che ha bandito il posto e composta dai professori della materia. " L’80% dei posti di ruolo di associato saranno coperti per chiamata diretta. Inoltre, tale chiamata sarà escusivamte riservata ai nuovi ricercatori 3+3 che diventeranno professori senza essere mai stati soggetti ad una valutazione conparativa ne’ ad una prova scritta o orale. I 20.000 ricercatori a tempo indeterminato evidentemente rappresentano una barriera formidabile per l’accesso dei figli e nipoti di qualche centinaio di ordinari ai ruoli che contano. Occorreva una legge che li bloccasse per sempre.

  19. Giuseppe Losappio, Professiore Associato diritto penale - Bari

    Domanda: sulla base di quali parametri trasparenti e verificabili, una commissione composta da professori del dipartimento potrà scegliere tra due o più idonei? Non lo so, capisco soltanto che quando il legislatore si occupa dei docenti universitari finisce per cedere alla tentazione dell’alambicco, al gusto delle stranezze, dell’eccentrico. Penserebbe mai qualcuno ad un concorso per uditore giudiziario in cui dopo la idoneità nazionale, una commissione composta dai magistrati – che so’ – della Corte di Appello rivaluta i candidati idonei per decretare chi sarà assunto? Suona assurdo, no? A me pare che l’alternativa sia secca: o la commissione nazionale formula una classifica degli idonei, oppure le università possono "chiamare" gli idonei secondo le loro esigenze. Insomma, bisogna che si decida a che livello fare selezione: se quello nazionale sarà rigoroso quella locale sarà impossibile oltre che inutile (come si sceglierà tra due o più candidati meritevolissimi); se la selezione nazionale non sarà rigorosa, la "vera" selezione si farà a livello locale, con livelli di trasparenza minori rispetto al passato.

  20. R. Russo

    Penso che per estirpare il mal costume dei sistemi di concorso italiani occorra rendere le università autonome nelle scelte, ma con conseguenze penalizzanti se i reclutati non sono all’altezza di parametri che siano associati ad incentivi economici per le università. In UK, ad esempio, si scelgono i migliori candidati che si reputi possano accrescere il livello di ricerca a cui sono associati incentivi economici di rilievo per le università stesse. Occorre ‘toccare le università nel portafoglio’ se si vuole che interessi di parte vengano rimossi.

  21. Giuseppe Esposito

    Caro Giuseppe Faricella, i tuoi principi delineerebbero la riforma ideale (a parte forse qualche perplessità, ma solo sul punto 3). Il guaio è che gli accademici – purtroppo anche quelli che stendono i disegni di legge – non si chiedono in che modo l’Università possa aiutare la collettività, ma come la collettività possa aiutare l’Università.

  22. Alessandro Figà Talamanca

    Prevedo che nei primi cinque anni di applicazione della legge tutte le risorse derivanti dai pensionamenti saranno spese per promuovere almeno 3/4 degli attuali ricercatori a professore associato. Non sarà una promozione ingiusta, dal momento che almeno 3/4 degli attuali ricercatori raggiungono il livello medio di competenza dei professori associati del loro settore, sono cioè attivi in ricerche di routine pubblicate su riviste internazionali. E’ però la conseguenza di una scelta politica che avrebbe potuto essere evitata: due sole fasce di docenza. E’ una scelta auspicata da molti professori, perché aumenta la discrezionalità dei "capi" nella scelta degli "allievi" da assumere o promuovere, come confermato dal DDL che prevede un concorso locale per ricercatore a tempo determinato ed una "chiamata" non competitiva per la sua promozione ad associato. La verifica dell’abilitazione nazionale sarà comunque blanda perché i settori che avranno meno abilitati avranno meno posti. La competizione sarà dunque al ribasso.

  23. paolo

    Noto una diffusa benevolenza nei confronti di questa riforma, ma mi limito a osservare che gli scopi dichiarati erano a) la lotta ai cosiddetti "baroni" e b) il miglioramento della qualità dei nostri atenei. Ma nessuno rileva che si è andati in direzione esattamente opposta? Gli ordinari hanno ora un potere ben superiore a prima visto che senza concorso si sceglieranno i collaboratori (ricercatori a tempo determinato) e che dopo sei anni sempre senza concorso il dipartimento, cioè i baroni che contano, sceglieranno chi tenersi di questi ricercatori facendoli diventare associati (degli altri non è dato sapere). I tagli in compenso restano, salvo quel che magnanimammente verrà riservato agli atenei dopo la spartizione delle risorse che arriveranno dallo scudo fiscale (tanti altri ministeri ci hanno già messo le mani sopra mi pare). Non discuto l’ingresso dei privati nella governance che potrebbe anche funzionare se non fosse che qui non siamo negli USA e le imprese non sanno neppure cosa sia un dottorato.

  24. Bianca Randi

    Lavoro da quasi vent’anni dentro una delle "eccellenze italiane" nel campo della fisica. Ho lavorato molto all’estero, ho ricevuto varie offerte per posti prestigiosi in università straniere: M.I.T, Stanford, Pordue University. Mi sento di affermare con assoluta sicurezza che questa idea dei ricercatori a scadenza è una gigantesca cazzata. E penso di aver usato il giusto aggettivo. Chi pensa che sia una buona idea quella di formare persone per 10 anni per poi mandarle via è sicuramente qualcuno che non capisce granchè di come funziona la vera ricerca scientifica. Non ho mai visto un ricercatore italiano, confermato o precario, che dopo dieci anni di attività sia da "buttare" come prentenderebbe questa legge assurda. La verità sui ricercatori precari, ed intendo con questo termine indicare tutte quelle persone che terminato il dottorato di ricerca continuano a lavorare con assegni, cococo e borse varie, è che sono nella stragrande maggioranza dei casi persone validissime e preziose. In Italia ci sono tanti ricercatori precari per il semplice fatto che la ricerca è pesantemente sottofinanziata. Sono precari non perchè manchi il lavoro da fare, ma perchè mancano i soldi.

  25. Marcello Romagnoli

    Il reclutamento deve avvenire su base meritocratica, deve esere basata su una verifica periodica e oggettiva, che duri per tutto il percorso lavorativo. Le mie proposte sono le seguenti. 1) Eliminazione dei concorsi e chiamata diretta degli atenei. 2) Valutazione continua ed oggettiva dell’assunto mediante parametri quali: a) valutazione da parte degli studenti; b) valutazione della produzione scientifica e brevettuale mediante nr. pubblicazioni e impact factor o altro indice accettato internazionalmente; c) nr. di contratti europei o con aziende ottenuti. In base ad una valutazione ogni 5 anni si può salire di carriera e stipendio, scendere o essere licenziati. 3) In caso di licenziamento o di decurtazione di stipendio la cifra ritorna al Ministero e l’ateneo la perde. Una classifica pubblica dei docenti/ricercatori e degli atenei sulla base di questi punti dovrebbe essere messa su internet. Su questa si basa il finanziamento degli atenei. Nel transitorio solo chi accetta questo nuovo regime può assumere cariche dentro all’ateneo.

  26. Alessandro Figà Talamanca

    Non sono un sostenitore del DDL Gelmini, ma vorrei rispondere alla dott.ssa Randi. Non credo che la fisica italiana sia sottofinanziata. Una decina d’anni fa calcolai che fisica e astrofisica assorbivano due terzi delle spese statali per la ricerca di base. La dott.ssa Randi ha dati di confronto internazionale sui finanziamenti della fisica? La fisica italiana risulta finanziata meno di quella francese o inglese? Da almeno 40 anni tuttavia l’università italiana produce un numero di eccellenti laureati in Fisica, in grado di inserirsi in attività di ricerca, superiore alle capacità di assorbimento del sistema ricerca. Poiché non è possibile un’espansione senza limiti, per molti di essi ci sono due alternative: l’emigrazione oppure il riciclaggio in altri mestieri dove, ad esempio, l’abitudine a raffinate modellizzazioni matematiche possa essere messe a frutto. Purtroppo chi riesce a inseririsi non è sempre il migliore, perché anche nella fisica prevale ormai il sistema delle file d’attesa che è la negazione di un mercato aperto nel reclutamento, un sistema che sarà forse peggiorato dal nuovo DDL.

  27. Bianca Randi

    Purtroppo anche i dati di bilancio dell’INFN e dell’INAF(dopo l’accorporazione) parlano chiaro. Rispetto a dieci anni fa i finanziamenti complessivi sono stati ridotti, sono cresciute per inflazione le spese vive per il personale e per l’ordinaria manutenzione e si è di conseguenza pesantemente ridotta la quota disponibile per finanziare i progetti di ricerca. Nel mio gruppo ci occupiamo sia di alte energie che di ricerca tecnologica. Il bilancio per quanto riguarda gli ultimi 15 anni è il seguente: 22 dottorati, 15 sono all’estero a fare ricerca (tra cui 4 al CERN, 3 a Berkeley, 2 a Pordue Universtity, 1 a Santa Barbara, 1 MaxPlank, 1 Siemens, 1 Philips) 2 lavorano nel privato in Italia, 2 hanno un’assegno universitario (per ora), 1 è insegnante presso un ITIS. Una sola persona è diventato a 42 anni ricercatore presso l’INFN. Le posso assicurare che non siamo in fase di espansione, ma siamo sicuramente in fase di contrazione.

  28. cassandra

    I prossimi anni saranno all’insegna del caos più totale per effettto della guerra concorsuale che si svilupperà per effetto della riforma (se passerà così com’è). Ma chi può davvero credere che i ricercatori di oggi, magari con 15-20 anni di anzianità, saranno disposti ad accettare che tra 6 anni un attuale dottorando gli passi davanti accedendo direttamente alla seconda fascia con la chiamata diretta? Allo stesso tempo ve li vedete gli associati di oggi di 55-60 anni accettare di condividere la fascia con un poco più che imberbe trentenne? Ma suvvia, ci saranno tali e tante pressioni corporative che o cambierà la quota riservata ai ricercatori a TD nell’accesso alla seconda fascia (80%), oppure regnerà il caos con assalti all’arma bianca. Chissà se ordinari e associati si muoveranno su questo?

  29. Tecnico Universitario

    L’università ha una struttura per certi versi arcaica: esiste il personale docente, che costituisce “la classe nobile”, e i tecnici amministrativi che costituiscono “le maestranze di supporto” (per cervi versi la plebe del sistema). Sono due i motivi che rendono molti dipartimenti italiani non competitivi sotto il profilo della ricerca: la esiguità dei fondi e la non valorizzazione dei tecnici. Soprattutto manca la figura del tecnologo universitario. Per fare ricerca in tutti quei settori che utilizzano la tecnologie moderne servono persone con un notevole know-how tecnico che gli studenti e giovani ricercatori, per quanto brillanti, non possiedono. Dove mancano tecnici validi i risultati sono spesso assai scadenti. Ma i tecnici universitari guadagnano 1300 euro al mese e spesso non hanno alcuna concreta possibilità di carriera. Le università fanno ben poco per la formazione permanente e per la valorizzazione del personale tecnico.

  30. Giuseppe Esposito

    Vorrei aggiungere a quanto detto da Tecnico Universitario che moltissimi tecnici fanno anche ricerca, peraltro con risultati molto apprezzabili. Inoltre, in molti interventi si lamenta un sovrannumero di tecnici-amministrativi negli Atenei, a cui fa da contraltare la carenza di ricercatori. Ci si aspetterebbe, perciò, che le Università festeggiassero ogni transizione tra un ruolo e l’altro. E invece, inspiegabilmente, questi passaggi (oltretutto a costo prossimo allo zero) sono fortemente ostacolati. A quando concorsi veramente aperti a tutti, dove più che al curriculum si guardi alla produzione scientifica?

  31. alida alabiso

    Non tutte le conferme sono scontate. Il mio caso mi vede coinvolta in una conferma ad ordinario che va avanti dal 2001 e non si è ancora conclusa. Sono stata dichiarata idonea ad ordinario (ero un ricercatore dal 1980) nel 2000 con 5 giudizi favorevoli su 5. Chiamata dalla mia facoltà presso la Sapienza (2001), finiti i tre anni di straordinariato la commissione per la conferma, entrando nel merito delle mie pubblicazioni,mi ha bocciato. Dopo la proroga di due anni data dal CUN, anche la seconda commissione, con le stesse motivazioni mi bocciava. Ho fatto ricorso al Consiglio di Stato, che mi ha dato ragione, affermando che non rientra nei compiti della commissione di conferma entrare nel merito delle pubblicazioni. Altra commissione, che avrebbe dovuto applicare le disposizioni del Consiglio di Stato, ed altra bocciatura, sempre con le stesse motivazioni. A questo punto cosa proporre per la conferma in ruolo, tranne la sua abolizione?

  32. daniele adami dansuisse

    Invito tutti a leggere l’articolo di Helmut Schmidt : “CARA sig.a MERKEL BASTA TATTICISMI DI PARTITO, BERLINO SIA SOLIDALE” pubblicato oggi on-line sul SOLE24ore. CARA MERKEL bene come SCHMIDT (che era canceliere in guerra fredda) non ero mai riuscito a dirlo. E’ l’ultima campanella per l’adunata poi (senza risposta adeguata) il nulla ! Leggetelo perchè è il punto di svolta epocale: percorrere le soluzioni proposte o abdicare fulmineamente al nostro stile di vita !

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