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L’IMPAREGGIABILE SAMUELSON

Paul Samuelson è stato un pensatore unico. Nessuno ha dato alla scienza economica tante idee fondamentali nei più diversi campi. Ma particolarmente attuale appare oggi il suo contributo alla politica economica. Fondato sulle buone politiche macroeconomiche. Un insegnamento spesso dimenticato da economisti troppo presi dalla bellezza della matematica dei mercati perfetti. E che per questo trascurano il mondo reale. Al quale invece Samuelson è rimasto sempre profondamente ancorato.

Ci sono stati i ricci e ci sono state le volpi. E poi c’è stato Paul Samuelson.
Il riferimento è naturalmente alla famosa distinzione tra pensatori di Isaiah Berlin: le volpi, che sanno molte cose, e i ricci, che ne sanno una sola grande. Ciò che ha fatto di Samuelson un pensatore economico unico, come nessun altro passato o presente, è stato il fatto che sapeva, e ci ha insegnato, molte grandi cose. Nessun economista ha mai avuto così tante idee fondamentali.
Con un piccolo aiuto di Google Scholar, ho compilato una lista di alcune grandi idee di Samuelson. Dico “alcune” perché non sono sicuro che l’elenco sia completo. Ma in ogni caso ecco otto (otto!) intuizioni fondamentali, ognuna delle quali ha dato luogo a una vasta e continua letteratura.

OTTO PIETRE MILIARI

Preferenze rivelate: negli anni Trenta ci fu una rivoluzione nella teoria del consumo perché gli economisti si resero conto che nelle scelte di consumo c’era molto di più dell’utilità marginale decrescente. Ma è stato Samuelson a insegnarci quante deduzioni si possono trarre dalla semplice affermazione che ciò che le persone scelgono dev’essere qualcosa che preferiscono a qualcos’altro che potrebbero permettersi, ma che non scelgono.
Economia del benessere: che cosa significa affermare che un risultato economico è migliore di un altro? Prima di Samuelson era un concetto vago e molta era la confusione su come si dovesse pensare la distribuzione del reddito. Samuelson ci ha insegnato come usare il concetto di redistribuzione del reddito dal punto di vista di un osservatore etico per dar conto del concetto di benessere sociale. E ci ha perciò insegnato i limiti di quel concetto nel mondo reale, dove non esiste un simile osservatore e la redistribuzione generalmente non avviene.
Vantaggi del commercio: che cosa significa dire che il commercio internazionale porta benefici? Quali sono i limiti di questa asserzione? Il punto di partenza è l’analisi di Samuelson dei vantaggi che derivano dal commercio, un’analisi che fa leva sia sulle preferenze rivelate sia sul concetto di benessere. Tutto quello che è venuto dopo, dall’analisi sulle distorsioni di Bhagwati e Johnson al concetto di vantaggio comparato generalizzato di Deardorff, si basa su quell’intuizione.
Beni pubblici: perché alcuni beni e servizi devono essere forniti dallo Stato? Che cosa rende alcuni beni, e soltanto alcuni, adatti ai mercati privati? È tutto scritto in Pure theory of public expenditure di Samuelson, del 1954.
Teoria della proporzione dei fattori: ogni volta che parliamo di risorse e di vantaggio comparato, ogni volta che ci preoccupiamo degli effetti del commercio sulla distribuzione del reddito, ci rifacciamo al lavoro di Samuelson degli anni Quaranta e Cinquanta: prese le vaghe e confuse idee di Ohlin e Heckscher e le trasformò in un modello raffinato che ha definito la teoria del commercio per una generazione e che resta un elemento chiave della sintesi attuale.
Tassi di cambio e bilancia dei pagamenti. Faccio qui una breve digressione nella mia storia personale: chi lavora nel commercio internazionale tende per lo più a perdere il filo quando il discorso cade su tassi di cambio e bilancia dei pagamenti. Come mi è capitato di dire, chi si occupa di commercio reale ha della macroeconomia internazionale la stessa opinione che ha del voodoo e i macroeconomisti internazionali tendono a considerare il commercio reale come noioso e irrilevante (e quando sono di cattivo umore penso che siano vere entrambe le cose). Ma a salvarmi da tutto questo è stata la lettura del lavoro di Dornbusch, Fischer e Samuelson del 1977 sul commercio ricardiano. Un lavoro che tra le altre cose mostrava come tutto si tenga tra commercio e macroeconomia, tassi di cambio e bilancia dei pagamenti, la possibilità di trarre vantaggi dal commercio, ma anche la possibilità che ne derivi disoccupazione.
Più tardi mi sono reso conto che Samuelson aveva compreso tutto ciò già molto tempo prima, ma l’eleganza del modello di Dornbusch, Fischer e Samuelson è stata certamente d’aiuto per l’affermazione di questi concetti. Ecco che cosa scriveva Samuelson nel suo lavoro del 1964 Theoretical notes on trade problems: “Senza piena occupazione e con un prodotto interno netto sub-ottimale, tutti i deprecati argomenti mercantilisti si rivelano validi”. E proseguiva citando l’appendice dell’ultima edizione del suo Economics, “mettendo in rilievo i veri problemi che la sopravvalutazione solleva per gli apologeti del libero commercio”. La soluzione, naturalmente, era nel mettere fine alla sopravvalutazione e non nell’imporre restrizioni al commercio. Samuelson aveva capito che le buone politiche macroeconomiche sono un pre-requisito delle buone politiche microeconomiche. Ma su questo torneremo fra poco.
Generazioni sovrapposte: il suo modello dei prestiti fra generazioni sovrapposte, del 1958, è il paradigma di pensiero per tutto, dalla previdenza sociale al debito delle famiglie. È difficile immaginare la macroeconomia senza quel modello.
Finanza a percorso casuale: la dimostrazione di Samuelson che gli investimenti a lunga scadenza implicano fluttuazioni casuali dei prezzi è il punto di partenza di molta della finanza moderna.

LA POLITICA ECONOMICA

Come ho già detto, sono sicuro che c’è dell’altro. Ma va ricordato che già da sola ciascuna di queste idee sarebbe stata sufficiente per fare di Samuelson un grande economista. Nessuno, ma proprio nessuno, ha fatto così tanto. Come ci è riuscito? Perché era il più intelligente di tutti, ovviamente. Ma aggiungerei anche per due aspetti del suo carattere che hanno dato forza alla sua ricerca intellettuale.
Il primo era la sua allegria. Leggendo Samuelson non si ricava l’impressione di un serissimo studioso intento a scrivere i suoi ponderosi lavori, ma ci si immagina un uomo che si divertiva con le idee, tanto che talvolta l’allegria si trasforma in ispirate sciocchezze. Basta leggere la nota 9 del suo paper sulle generazioni sovrapposte: “Sicuramente, quale frase che inizia con la parola “sicuramente” può avere legittimamente alla fine un punto di domanda? Tuttavia, un paradosso è più che sufficiente per un solo articolo…”. Mi sembra chiaro che la sua allegria ha liberato la sua immaginazione ed ha alimentato la sua creatività.
E tuttavia, allo stesso tempo, è sempre rimasto profondamente ancorato alla realtà. Nessuna torre d’avorio accademica per Samuelson, è sempre stato profondamente interessato agli avvenimenti e alla politica, giocava con i mercati, non ha mai lasciato che le sue teorie avessero il sopravvento sulla realtà delle cose.
E ciò mi porta al suo più importante contributo di politica economica: la sintesi keynesiana. Samuelson è stato intellettualmente un figlio della grande depressione: è diventato intellettualmente maturo in un periodo di disoccupazione di massa, i suoi manuali hanno fatto conoscere il pensiero keynasiano a un pubblico più vasto e non ha mai dimenticato che i mercati possono funzionare terribilmente male. E allora che utilizzo si può fare nel mondo reale della teoria economica sulle virtù del mercato?
La risposta di Samuelson è stata che occorre dare la precedenza alle buone politiche macroeconomiche. Le politiche monetarie e fiscali devono essere utilizzate per assicurare più o meno il pieno impiego (come ho sottolineato altrove, Samuelson si rendeva conto dei limiti della politica monetaria in un modo che appare oggi incredibilmente preveggente) e i tassi di cambio devono essere aggiustati per assicurare la competitività. Soltanto a quel punto le virtù del mercato possono entrare in gioco.
Troppi economisti hanno dimenticato questa lezione, mentre si immergevano nella elegante matematica dei mercati perfetti. Ma il realismo di Samuelson, la sua consapevolezza che i mercati sono una grande cosa, ma devono essere affiancati dall’attivismo del governo, mai come oggi ci appare nella sua importanza.
Rendiamo onore a Paul Anthony Samuelson, l’economista ineguagliabile: non c’è mai stato, né mai ci sarà, qualcuno alla sua altezza.

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LA RISPOSTA AI COMMENTI

  1. Roberto Marchesi - Dallas, Texas

    Concordo pienamente con la bella sintesi offertaci da Krugman (e da voi) sul ricordo dell’opera di Samuelson e sulla reale portata dell’iperpragmatismo liberista in economia, spinto fino ai deleteri eccessi dei giorni nostri (che Krugman ha efficacemente sintetizzato in poche righe). Tuttavia mi sembra che al giorno d’oggi questa crisi e le crescenti potenzialità del mercato asiatico pongano alle potenze economiche preesistenti (cioè noi) un quesito molto serio su come risolvere il problema creato da un mercato troppo libero: dobbiamo essergli fedeli a costo di perdere la supremazia, o dobbiamo fare qualcosa (che inevitabilmente riduce questa libertà) per conservarla?

  2. Alessandro Casile

    Da studente di giurisprudenza degli anni ’80 ho amato l’economia grazie anche al manuale di Paul Samuelson, che ho riletto qualche tempo fa. Ricordo una sua frase, che mi è stata richiamata in mente dal pensiero che alcuni politici hanno espresso di recente in maniera molto meno elegante, a proposito della crisi attuale: un economista è colui che ti spiegherà domani, perché quello che aveva previsto ieri, non si è verificato oggi.

  3. Paolo Loi

    Concordo su tutto. Samuelson è stato il più grande. Ha capito con larghissimo anticipo (20 anni) anche che Paul Krugman avrebbe vinto il premio Nobel.

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