Le recenti linee guida del CdM e la risposta della CRUI prefigurano cambiamenti alla governance d’ateneo e va perciò compiuta un’analisi scientifica della situazione nazionale. Superando il mero dibattito sulla accountability, si deve studiare l’efficacia delle forme di governo.
Negli ultimi decenni 3 fattori hanno messo in discussione il tradizionale modello di governance degli atenei, non solo in Italia. Alla spinta democratica prodotta dall’università di massa è seguita una pressione efficientista in conseguenza della saturazione dei modelli di welfare degli stati europei, seguita dal progressivo spostamento verso il mercato che ha reso gli atenei più sensibili alla domanda esterna. Queste pressioni hanno prodotto 3 effetti sull’università: a) crisi di legittimità dovuta allo scemare di fiducia nella società; b) mutamento della missione da culturale a più utilitaristica; c) trasferimento di poteri dal centro alla periferia.

IL CASO ITALIANO

Il caso italiano si complica a causa di una legiferazione che fin dalla L.168/89 (autonomia universitaria) è stata discontinua e incoerente: da un lato conferisce piena autonomia (normativa, organizzativa, contabile), dall’altra impone alcuni organi di governo e numerosi paletti contabili. L’errore più grande è d’aver approvato il sistema di finanziamento (il budget d’Ateneo, L.537/93) 4 anni dopo l’introduzione dell’autonomia statutaria. Oltre metà degli atenei hanno approvato lo statuto prima del ’93, alcuni organi di governo si sono così caricati di responsabilità per cui non erano stati concepiti. L’impianto di governance imposto dal legislatore nell‘89 sembrerebbe funzionare: il senato accademico come centro delle politiche scientifiche, il CdA di quelle gestionali e il rettore quale garante dell’equilibrio fra i due. Confrontando questo modello con best practice e teorie di governance emergono 4 ordini di problemi:

1)     mancata separazione fra gestore e controllore: il rettore è presidente e AD, diventa cioè amministratore unico (sconsigliato in dottrina per dimensioni d’un ateneo) senza averne l’autorità (elettività della carica).
2)     Mancata unione delle 3 funzioni di governo (strategico, ambientale, controllo) in un organo esecutivo: la strategia è definita dal senato (piano di sviluppo triennale), il CdA assume responsabilità economica su decisioni altrui.
3)     Organi di governo pletorici tendenti al conflitto fra interessi contrapposti: i membri rappresentano categorie, non funzioni, e quindi interessi particolari
4)     Mancato controllo sulle risorse umane, poiché condizioni contrattuali dei docenti sono determinate a livello centrale

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ERRORI ED ESPERIENZE POSITIVE

Agli errori del legislatore si sono sommati quelli degli atenei, ma esistono esperienze positive. Con l’autonomia statutaria si sono configurati 3 diversi modelli di governance nelle università italiane: il sistema bicamerale perfetto, il modello a senato preminente e quello a CdA preminente.
La maggioranza degli atenei ha scelto modelli aderenti alla riforma, modificando però la composizione degli organi. Molti atenei l’hanno ampliata tanto da uniformare i due organi eoptato per la doppia competenza: ad ogni decisione un organo ha potere deliberativo e l’altro consultivo. Si è instaurata così una sorta di bicameralismo perfetto che rallenta i processi decisionali e ne rende incerti gli esiti.
Alcuni atenei statali (Venezia, Tor Vergata, Torino) hanno invece configurato il CdA in modo atipico ammettendo solo specialisti esterni per meglio governare gli aspetti economici. Il contributo di un CdA simile è qualitativamente migliore, ma si consuma così la cesura definitiva fra CdA e senato, a netto favore di quest’ultimo che ha potere strategico.
Il terzo modello emergente è quello di Trento e degli atenei non statali, dove il CdA è univoco organo di governo con potere d’indirizzo e di controllo. Il rettore è nominato dal CdA, nel quale però sono spesso previsti docenti. Fra i modelli italiani questo è l’unico dotato delle caratteristiche irrinunciabili per un governo efficace: chiarezza nei ruoli fra organi, univocità nell’attribuzione delle responsabilità, unità di comando in un organo esecutivo.

COINVOLGIMENTO AMPIO

È restrittivo affrontare il tema della governance d’ateneo nei termini della giusta alchimia fra organi. Il problema si estende a tutti gli attori che contribuiscono all’ateneo e da esso ottengono ricompense, poiché l’obiettivo è il contemperamento degli interessi. Stabiliti organi e meccanismi di governo bisogna dunque definire i soggetti con diritto a partecipare alla governance.
Classificando la governance degli atenei rispetto alla tipologia (interni o esterni) ed alla varietà (monopolio o pluralità) dei soggetti con potere sostanziale, si possono individuare 4 modelli. Nel caso di sistema bicamerale o senato preminente, la governance è di tipo accademico, poiché solo i docenti determinano le decisioni. Con CdA prevalente la governance è fiduciaria, perché coinvolge altri soggetti interni (studenti, PTA) ed esterni. Nella maggioranza degli atenei il governo è accademico, per via del contributo critico apportato dai docenti. Ma non va sottovalutato l’apporto degli studenti (finanziario), del PTA (conoscenza specifica) e della comunità locale (appoggio logistico). A fronte del loro contributo, andrebbero coinvolti fattivamente nelle decisioni.
Chiarezza di ruoli, responsabilità univoche, unità di comando, contemperamento degli interessi, coinvolgimento ampio. Queste le poche regole che possono garantire una governance d‘ateneo efficace. Le intenzioni del governo e le attese della CRUI, tuttavia, non mettono mano all’ambiguità del sistema bicamerale che regge i nostri atenei.

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