Questa scheda si propone di documentare l’andamento della quota salari in Italia e in alcune economie avanzate negli ultimi quattro decenni. (1) La quota salari rappresenta la parte del reddito nazionale assegnata al fattore lavoro nell’ottica della distribuzione funzionale del reddito fra i fattori di produzione, quali capitale, lavoro e terra. Rappresenta perciò una delle componenti più importanti della distribuzione del reddito a livello aggregato e non individuale. In altri termini, non si sta guardando alla distribuzione personale dei redditi da lavoro e quindi ai salari medi individuali, ma piuttosto alla quota assegnata all’insieme dei lavoratori dipendenti.
IN DISCESA DAGLI ANNI NOVANTA
La quota del reddito nazionale assegnata all’insieme dei salari, stipendi e pensioni si ottiene dividendo il reddito medio da lavoro dipendente in termini reali per la produttività del lavoro ottenuta, a sua volta, dividendo il Pil al costo dei fattori per il numero totale degli occupati. Per ottenere i salari reali si divide il salario nominale mediamente percepito dai lavoratori dipendenti per il deflatore dei consumi delle famiglie. Quest’ultimo si ricava dividendo il consumo delle famiglie in termini nominali per quello in termini reali e fornisce un’approssimazione dell’andamento dei prezzi al consumo, quelli più importanti per le famiglie.
La figura 1 rappresenta tale quota come percentuale del Pil calcolata per un periodo di circa quarant’anni a partire dal 1970 su dati messi a disposizione della comunità scientifica da parte dell’Istat.
La figura evidenzia come la quota assegnata ai salari, alle pensioni e agli stipendi sia rimasta piuttosto stabile per circa due decenni, dal 1970 al 1990, a meno di oscillazioni cicliche. Nella prima metà degli anni Novanta, però, tale quota si è ridotta di circa 11 punti percentuali, una variazione notevole. È passata, infatti, dal 68 per cento in media del periodo dal 1970 ai primi anni Novanta fino al 57 per cento circa dalla seconda metà degli anni Novanta in poi. Si tratta di una vera e propria slavina che si ferma solo nei primi anni Duemila senza che vi sia in seguito alcun recupero.
Figura 1. Quota dei redditi da lavoro dipendente sul Pil in Italia
Fonte: propria elaborazione su dati della contabilità nazionale Istat.
SUCCEDE OVUNQUE
Il caso italiano non è isolato in Europa. Come nota Olivier Blanchard, qualcosa di simile è accaduto, ad esempio, anche alla Francia. (2) Blanchard osserva che in Oltralpe la quota salari è cresciuta di cinque punti percentuali dal 1970 al 1981. In seguito, però, e in particolare dal 1980 ai primi anni Duemila, è caduta di 12 punti percentuali, una percentuale simile a quella italiana. Da allora è restata stabile a quel livello.
Ma cosa è successo nelle altre economie avanzate? La caduta della quota del reddito assegnata ai lavoratori dipendenti tocca molte economie avanzate. A conferma di ciò, la figura 2 riporta la quota salari dell’Italia mettendola a confronto con quella della Francia, del Giappone, del Regno Unito e degli Stati Uniti. Si è utilizzata la stessa formula di sopra applicandola ai dati nazionali che l’Ocse ha reso confrontabili attraverso una serie di elaborazioni statistiche.
Il confronto fornito nella figura 2 restituisce alcuni risultati interessanti che si sottopongono alla riflessione comune:
a) la caduta della quota salari è comune a tutti i paesi avanzati considerati, forse con l’eccezione del Regno Unito, dove resta intorno al 70 per cento anche negli anni più recenti;
b) la caduta è abbastanza simile in termini percentuali in tutti i paesi considerati, al punto che alla fine del periodo le distanze fra paesi restano simili a quelle esistenti all’inizio del periodo. Di nuovo, il Regno Unito costituisce un’eccezione;
c) fin dagli anni Settanta, la quota del lavoro sul Pil in Italia è stata inferiore a quella di altre economie avanzate e vicina, invece, a quella degli Stati Uniti.
Figura 2. Quota salari sul Pil in alcuni paesi avanzati (1970-2010)
Fonte: Propria elaborazione su dati Ocse.
(1) Questa scheda presenta un risultato di un più ampio e dettagliato lavoro di ricerca: Pastore, F. (2010), “Assessing the Impact of Incomes Policy. The Italian Experience”, forthcoming in International Journal of Manpower, 31(7).
(2) Vedi la figura 14a a pagina 41 in Blanchard, O. (2006), “European Unemployment: The Evolution of Facts and Ideas”, Economic Policy, 21(45): 5-59.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Alex Santucci
L’articolo è corretto, ma lacunoso perchè omette di dire che sono state poste in essere quelle politiche di convergenza al nostro ingresso nell’Euro, la cui introduzione non ha impedito quelle mutazioni dei tassi di cambio reale.
Per cui, come previsto da Fleming, ma anche da Robert Mundell, tra i padri dell’euro, l’unico modo per ridurre gli squilibri in un’area monetaria, non potendo fare leva sulla moneta, la sola via percorribile è la deflazione salariale ovvero austerità, utili a raggiungere quella convergenza dei tassi inflattivi per colmare gli squilibri di competitività che devono salvaguardare i crediti tedeschi, ma questa è tutt’altra altra faccenda.