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L’università della conservazione

Introdurre elementi di competizione fra gli atenei, distribuire una parte delle risorse in base al merito, sottrarre potere alle corporazioni: sugli obiettivi della riforma dell’università esisteva fino a poco tempo fa un consenso molto ampio. Che sembra ora evaporare via via che l’attenzione si sposta sull’inadeguatezza o la contraddittorietà degli strumenti individuati per realizzarla e le parole d’ordine si fanno sempre più ideologiche. Se la riforma non sarà approvata, i propositi di modernizzazione saranno abbandonati e prevarrà la conservazione dello status quo.

 

Nel loro articolo “L’università dell’incertezza” su lavoce.info del 26 novembre, dopo avere richiamato diversi elementi negativi dell’’attuale politica del governo nei confronti dell’università, Daniele Checchi e Tullio Jappelli pongono la domanda retorica “se questo sia il contesto adeguato per introdurre riforme strutturali della portata di quelle proposte” dal disegno di legge Gelmini, nel frattempo approvato dalla Camera il 30 novembre.
Solitamente gli economisti discutono gli obiettivi delle politiche e la congruità degli strumenti per conseguirli. Se invece non citano neppure gli obiettivi, ma discutono solo il contesto in cui si inseriscono (rubando, si potrebbe dire con una battuta, il mestiere a politologi e sociologi), c’’è qualcosa che non quadra, come in gran parte del dibattito recente sulla riforma universitaria.

OBIETTIVI DELLA RIFORMA E RISORSE IN CAMPO

Un’’analisi non aprioristica della riforma dovrebbe distinguere fra tre aspetti: a) gli obiettivi e i principi a cui si ispira; b) gli strumenti e le risorse che vengono messi in gioco; c) le conseguenze dell’’approvazione o della mancata approvazione.
In sintesi, possiamo dire che sul primo aspetto vi è stata per lungo tempo una sostanziale convergenza di pareri positivi, di governo e opposizione ma anche delle università e del mondo delle imprese, così come della maggior parte dei commentatori. Sul secondo aspetto, invece, il governo è stato incalzato da un fronte anch’’esso molto ampio di critiche agli strumenti previsti e all’’insufficienza delle risorse messe in gioco. Mentre il terzo punto non ha ricevuto la dovuta attenzione.
Gli obiettivi generali della riforma erano quelli di introdurre meccanismi meritocratici e di reale competizione sia fra le università sia nel reclutamento, di evitare i conflitti di interesse che si creano quando la decisione sulla ripartizione delle risorse è demandata a organi composti da chi utilizza le risorse stesse, di consentire una differenziazione interna del sistema universitario per rispondere meglio alla domanda sociale. Tutti obiettivi comuni, va ricordato, ai processi di riforma già avvenuti negli altri paesi avanzati.
Gli strumenti e le risorse indicati dal governo sono adeguati al raggiungimento di questi obiettivi? Certamente no, e su questo le critiche provenienti da molti settori del mondo universitario, ma anche dalla politica e da molti commentatori, sono largamente condivisibili. Non si tratta solo della (peraltro cronica) inadeguatezza delle risorse finanziarie, ma anche dei ritardi nella valutazione, di un impianto normativo del Ddl che si basa sull’’autonomia delle università, ma la mortifica in un quadro di vincoli burocratici eccessivi, della denigrazione dei nostri atenei che ha preceduto e accompagnato l’’iter parlamentare quasi a giustificare l’’esigenza di una riforma, e di molti altri aspetti che hanno finito con il togliere legittimità al disegno di legge e con l’’offrire spunti alle proteste di piazza e all’’intransigenza dell’’opposizione.
Alcuni commentatori (come Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 30 novembre) hanno sottolineato la bontà degli obiettivi, trascurando il problema degli strumenti e delle risorse, mentre la maggior parte ha fatto il contrario. Via via che la protesta cresceva e l’’opposizione si radicalizzava, sempre più forte si è fatta la voce di chi ne sposa le ragioni enfatizzando gli elementi critici della riforma.

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IL CONSENSO PERDUTO

Ma qui diventa rilevante, anzi cruciale, il terzo aspetto, quello trascurato da tutti o quasi (se lo è posto Michele Salvati sul Corriere della Sera dell’’1 dicembre): quali le conseguenze di una mancata approvazione del Ddl nell’’altro ramo del Parlamento? Ci sarebbero in futuro, magari con un altro governo e con una maggiore condivisione delle proposte, le condizioni per approvare una legge migliore, capace di riproporre gli stessi obiettivi di premiare il merito e la competitività nelle università mediante la valutazione, di superare i conflitti di interesse coinvolgendo nelle decisioni i rappresentanti della società, ma potendo contare su strumenti meno contraddittori e su risorse più adeguate? Oppure ci si dovrebbe rassegnare, unici in Europa, all’’abbandono di quegli obiettivi di modernizzazione e di fatto alla conservazione dello status quo, con tutti i guasti che conosciamo?
Ci sono almeno tre elementi che fanno propendere per la seconda alternativa. In ordine crescente di importanza, il primo è che il consenso su quegli obiettivi, molto ampio fino a poco tempo fa, sembra evaporare via via che l’attenzione si sposta sull’’inadeguatezza o la contraddittorietà degli strumenti. Il già citato articolo di Checchi e Jappelli, che non dice mai “anche se non possono essere raggiunti in questo modo, gli obiettivi della riforma erano giusti”, è un piccolo indicatore di una tendenza molto più generale, che si rispecchia nel mutamento di enfasi e addirittura di linguaggio negli interventi recenti di molti riformatori della prima ora.
Il secondo elemento sono gli slogan che hanno finito con il prevalere nella protesta dei ricercatori e poi degli studenti: iniziata con sacrosante richieste di investire sulla ricerca e sul futuro, è stata sempre più dirottata su parole d’’ordine ideologiche quanto prive di fondamento, quali la lotta contro la privatizzazione dell’’università (che sarebbe implicita nell’’apertura dei cda ad alcuni rappresentanti esterni), o contro la precarizzazione (che sarebbe insita nel sistema di tenure track, che in tutto il mondo consente di verificare il merito prima di trasformare il reclutamento in un ruolo a vita).
Il clima culturale in cui dovrebbe ripartire il dibattito sulla riforma sarebbe dunque pesantemente condizionato da questi mutamenti nei valori e negli orizzonti in cui si muovono alcuni dei protagonisti e degli opinion leader. Il progressivo deteriorarsi della discussione, la logica di schieramento o di bottega che ha finito con il prevalere sul ragionamento pacato, fa prevedere che ci sarebbe una facile vittoria della palude della conservazione.
Il terzo e decisivo elemento è l’’evidente smottamento della precedente unità, fosse questa convinta o di facciata, fra i rettori e quindi fra le università italiane a sostegno del Ddl. D’’altronde, una riforma che intende introdurre elementi di competizione fra gli atenei, distribuire una parte delle risorse in base al merito, sottrarre potere alle corporazioni accademiche affidandolo a rappresentanti della società, non può andare bene sia alle università virtuose che a quelle meno competitive, ai settori fortemente innovatori come a quelli più conservatori. In una fase in cui le università erano costantemente denigrate dai media, in cui la riforma si presentava come moralizzazione di un sistema inefficiente e malato, il riflesso condizionato è stato di sostenere compattamente la riforma per mostrare di voler fare la propria parte. Il “metodo Boffo applicato all’’università”, come lo definisce Guido Martinetti, è stato odioso ma ha funzionato. Ma via via che il fuoco, amico o nemico, si è concentrato sui limiti, le contraddizioni, gli errori del Ddl, le università e le corporazioni meno pronte alla competizione, quelle che rischierebbero di più, si sono smarcate e hanno cominciato apertamente a “remare contro”. Salvo che non ci si auguri una ripresa del “metodo Boffo”, è ben difficile immaginare che l’’unità di posizioni fra gli atenei italiani possa essere recuperata. Certo, il favorire e l’’esplicitare una differenziazione interna può essere positivo per il sistema, ma ci sono forze politiche che avrebbero il coraggio di assumerlo come obiettivo e di pagarne i relativi costi?

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25 commenti

  1. Carmelo Mazza

    Ho trovato l’articolo affascinante. Mi ha colpito molto l’idea di approvare una legge perchè i principi che la muovono sono corretti anche se gli strumenti e le risorse non sono adeguati. Mi sono detto: ma questa non è un’impostazione ideologica? Oggi sembra di no. Oggi parlare di competizione e di "domanda sociale" non è ideologico per definizione. Con risultati in parte comici, specie quando si sostiene che la delegittimazione dell’università era l’unico modo per sostenere la necessità di una riforma. Ed infatti la riforma è arrivata, piena di strumenti inadeguati e, in quanto tale, inapplicabile. Ma sono così le riforme fatte per giusti principi: splendide sulla carta, assolutamente inapplicabili. E nel fare cambiamenti senza che gli strumenti siano concretamente applicabili che si annida la conservazione più insidiosa; quella dei riformisti economisti, per cui se la società non si adegua ai principi…allora è sbagliata la società. Sempre in modo non ideologico, per carità…

  2. Salvatore Zingale

    Mi complimento per l’articolo, specie per la necessaria distinzione tra obiettivi, strumenti e conseguenze. Il problema è che questi tre aspetti, come sa chiunque si occupi di progettazione o di ricerca scientifica, non possono essere scissi: l’uno condiziona gli altri. Questa è la cronica debolezza del ddl in questione, al di là di ogni presa di posizione ideologica. L’inadeguatezza degli strumenti (che deriva anche dalla testardaggine di un ministro incapace di ascoltare) è stata avvertita, seppure con le esagerazioni che qualsiasi reazione a una minaccia comporta. Una inadeguatezza che pone un baratro fra obiettivi e conseguenze. E’ in fondo il problema tipico di ogni intervento bellico, dove obiettivi nobili possono portare a conseguenze disumane. Qui mi sembra che stia il limite della progettualità politica tutta: è troppo politica, poco progettuale. Inoltre, per far finire il dominio del baronato, una via davvero modernizzatrice sarebbe stata quella di dare ai giovani e ai ricercatori più potere. Il potere di delineare il proprio futuro e le proprie carriere. Ma, se non erro, il Ddl prevede proprio il contrario.

  3. Giovanni Federico

    Il consenso è immediatamente evaporato non appena dall’enunciazione di obiettivi generici si è passati ad un provvedimento concreto, che, se approvato e applicato rigidamente, avrebbe forse avuto qualche probabilità di mettere in discussione il diritto naturale dei precari, dei ricercatori e dei professori associati a fare carriera ed il diritto naturale dei professori ordinari ad aiutare i propri allievi a fare carriera. In altre parole, il consenso è evaporato quando si è messo (molto vagamente e parzialmente, ed in maniera insufficiente) in dubbio il principio base: il vero scopo dell’università italiana è la riproduzione (allargata) del corpo docente.

  4. Emanuele

    Invece di parlare di obiettivi e strumenti sarebbe bene focalizzarsi sugli strumenti (scelti) e le probabili conseguenze. Domande: come funzionera’ un sistema di supposta distribuzione virtuosa dei fondi in assenza di (condivise) valutazioni sul virtuosismo degli atenei? Quali incentivi al virtuosismo arriveranno al livello dei singoli ricercatori e/o dei dipartimenti se la valutazione e’ fatta (in realta non e’ fatta) a livello di universita’? Come funzionera’ un sistema di tenure track senza la necessaria copertura finanziaria?

  5. pietro vereni

    Concordo in generale con l’articolo, con un ma. La legge in votazione non prevede alcuna tenure track (che sarebbe l’accantonamento dei fondi per il "tempo indeterminato" da utilizzare dopo il periodo di prova). La legge approvata alla Camera prevede che i ricercatori TD accedano a un concorso nazionale di abilitazione a associati, ma poi la possibilità di essere effettivamente assunti è tutta nelle disponibilità degli atenei. In pratica: se non ho gli agganci giusti (parlo in prima persona perché sono esattamente in questa condizione) semplicemente nel mio ateneo non verrà mai banditoun concorso da associato nel mio settore scientifico-disciplinare, per cui la mia abilitazione non varrà nulla e la qualità del mio lavoro è assolutamente ininfluente. Senza le usuali clientele i ricercatori a tempo determinato sono merce da rottamare ogni fine ciclo, visto che i tagli di Tremonti al turnover rendono i posti da associato una merce a disponibilità estremamente limitata. Perché si finge che questa sia tenure track?! Oggi la "conferma in ruolo" dei ricercatori "non confermati" è una tenure track, sarebbe bastato prendere sul serio questo passaggio.

  6. marco

    L’articolo è interessante e condivisibile, le osservazioni anche, resta il fatto che in attesa messianica di una riforma complessiva supremamente intelligente anche questa riformina finirà a breve su un binario morto. Alla futura riforma definitiva del 2035 o del 2054! Ma non sarebbe meglio fare ora qualche passo nella direzione giusta? Un vecchio proverbio recita "il meglio è nemico del bene" ed è un proverbio di straordinaria verità, sopratutto nella politica italiana.

  7. MarcoViola

    Proprio in questi giorni sto leggendo con avidità "Malata e denigrata", raccolta di interventi sul sistema universitario a cura di Regini: è dunque con curiosità che ho letto questo articolo, con perplessità e interesse che rispondo. Da due anni a questa parte ho dedicato gran parte della mia vita di studente a boicottare le manovre di questo governo, a partire dai tagli del 2008 sino alla recente riforma. L’ho fatto a fronte di una lettura critica delle leggi in oggetto e sto continuando a studiare il sistema di istruzione superiore: benché per alcuni la protesta sia ideologica (o peggio un "gioco"), per molti di noi c’è un impegno serio. Chi condivide le mie preoccupazioni è convinto che non basti fermare questa riforma: l’unversità è davvero malata, e non basta proteggerla da interventi "umilianti", occorre invertire la rotta e produrre un a riforma virtuosa. Alcuni di noi lottano proprio per questo: per una nuova idea di università. Mai come oggi l’attenzione pubblica è stata attenta a questo tema: spero che si riesca a sfruttare questa occasione per avviare un dibattito che fondi una riforma partecipata, anziché lasciare che tutti sfumi assieme alla noia dei media.

  8. Max

    Credo di no, io non mi porrei mai come obiettivo qualcosa di irraggiungibile, dati i mezzi a disposizione: se sono un calciatore dell’oratorio mi prefiggo di vincere il torneo dell’oratorio non i campionati mondiali. Sul tenure track, sia i ricercatori che i professori sono gia’ soggetti ad un periodo di prova (3 anni). Per incentivare la meritocrazia sarebbe bastato applicare correttamente la norma. Mentre prima un individuo poteva avere la certezza che dandosi da fare sarebbe stato confermato e non lasciato per strada, ora con il DDL Gelmini cio’ non e’ piu’ vero: uno studioso valido e che prendesse l’abilitazione nazionale potrebbe dover interrompere il rapporto con la propria universita’ perche’ questa non ha le risorse sufficienti a finanziarne la chiamata. Nella stessa situazione, data la scarsita’ generale di risorse, saranno presumibilmente gli atenei competitor e il ricercatore dovra’ cercare fortuna all’estero. In questo caso norme "alte" e condivisibili in assenza delle risorse necessarie produrranno effetti esattamente di segno opposto a quelli che si vorrebbero ottenere. All’estero il primo livello di tenure e’ da “assistant professor” e non da “associate professor”.

  9. aris blasetti

    Ormai e’ chiaro che la riforma dell’universita’ e’ stata affossata, spostando il voto al Senato a dopo il 14 dicembre si spera nella caduta inevitabile del governo e quindi di tutti i provvedimenti in cantiere proposti da detto governo. Per risultato per Fini e compagni. La vittoria della conservazione cui fa paura anche qualche piccolo cambiamento. Tutti a parole vogliono la meritocrazia, ma nei fatti la destra sostiene i baroni e la sinistra gli asini. Come sempre gli estremi si toccano e si alleano.

  10. Roberto Albano

    Leggendo l’articolo provo ambivalenza: da un lato simpatizzo con le argomentazioni di Regini, dall’altro ho dei dubbi. Provo a decodificarli: siamo davvero sicuri che sugli obiettivi (maggiore efficienza, meritocrazia, ecc.) ci sia ampio accordo non solo a parole (ah la desiderabilità sociale), soprattutto nell’Università? Non mi pare; in questo senso simpatizzo con l’articolo di Regini: bocciare questa riforma porta con se il rischio di affossare degli obiettivi giusti (poniamoci dal punto di vista di un cittadino), ancorché osteggiati da gran parte di studenti, ricercatori e professori che hanno stretto un patto scellerato (descritto da molti colleghi e ben noto all’opinione pubblica grazie alle varie inchieste fatte in questi anni). Però: fare una legge con grandi obiettivi e mezzi non adeguati, significa non rischio ma certezza di affossare quei principi. Penso che la strada giusta non sia la riforma epocale, ma dei piccoli concreti passi: cominciamo per es. a discutere e a concordare le regole e le sulla valutazione; poi una successiva legge sui concorsi e il reclutamento ecc. fino agli aspetti più complessi di architettura istituzionale.

  11. Franco

    Bella e interessante la discussione, ma mi pare che che, nella cd riforma Gelmini, si sia partiti purtroppo da una base sbagliata, che è proprio quella degli obiettivi. Quegli obiettivi, dichiaratamente largamente condivisi, non possono essere a base di una riforma proprio perchè dettati da necessità di porre rimedio ad una situazione ormai degenerata della funzione storica del concetto di università. I rimedi sono peggiori dei mali quando non si ha il coraggio di ammettere. l’abbandono surrettizio dei più alti gradi del sapere – cui hanno diritto di accedere i più capaci e meritevoli (docenti, ricercatori e allievi) in nome dell’occupazione ( sia essa interna al corpo docente e ricercante sia esterna nel sistema industriale imprenditoriale esistente). Si è dimenticato il progresso e la naturale selezione che, al di là di falsi concetti di competività e meritocrazie tra micragnose e mistificanti strutture parassitarie, è il solo obiettivo cui si deve tendere perchè i più alti gradi del sapere siano raggiunti da quanti sono capaci di elevare la civiltà di tutti.

  12. giggio

    Effettivamente sarebbe soddifacente se l’autore dell’articolo provasse a dare risposta ai quesiti sollevati dai commenti.

  13. Sergio Galeani

    Nella distinzione fra obiettivi e strumenti, andrebbe sottolineato il vero problema del ddl Gelmini: la contraddizione fra obiettivi dichiarati e le norme introdotte per attuarli. Leggendo il testo del ddl, è immediato vedere che: 1) principio: togliere potere ai "baroni"; norma introdotta: eliminazione o esautorazione degli organi elettivi, aumento dei poteri del consiglio di amministrazione e del rettore (ma i baroni stanno nei laboratori o negli organi di potere?); 2) principio: governance meritocratica; norma introdotta: a fronte del maggior potere dato a rettori e CdA, non è previsto che chi sbaglia nelle sue scelte paghi in prima persona (il rettore o il CdA che fanno scelte sbagliate -per incapacità o interesse personale- non pagano, ma paga per loro l’ateneo) 3) principio: selezioni meritocratiche; norma introdotta: falsa tenure track (nella vera tenure track, per assumere a tempo determinato l’università deve garantire la copertura economica per l’assunzione a tempo indeterminato, e quindi l’unico requisito per l’assunzione a tempo indeterminato è il merito; nel ddl invece non c’è obbligo di copertura economica, e l’assunzione è condizionata alla presenza di fondi).

  14. Mauro Vecchietti

    Brevemente.. l’articolo proposto pone l’attenzione su alcuni nodi cruciali. Attenzione però! 1) Se mancano i soldi si parla del nulla! 2) La governance (emendata alla Camera) inizia ad avere un senso..anche se molto (troppo) viene demandato allo Statuto interno delle Università. Magari bisognerebbe tutelare meglio alcune categorie deboli che portano avanti il lavoro accademico come i ricercatori e i dottorandi. 3) Le baronie rimarrebbero tutte! I concorsi nazionali dipendono da budget locali. Inoltre i professori delle stesse discipline si conoscono perfettamente ed è facile per loro accordarsi. Inoltre il fatto che, nella stessa università, non possano entrare parenti fino al quarto grado mi sembra una discriminazione anticostituzionale. 4) Le riforme, in generale, vanno condivise con le categorie. perché il Ministro non ha interpellato gli organi competenti? ad esempio il CNSU? 5) Perché non parliamo di abolire gli albi professionali? Altro che precarizzazione.. Mauro Vecchietti rapp. CDA alla "Carlo Bo" di Urbino rapp. al CNSU

  15. Giuseppe Caruso

    I temi di una riforma universitaria non possono essere trattati con gli slogan o attraverso il contributo emotivo cui certe trasmissioni spingono. A mio modo di vedere, il dato positivo è la condivisione degli obiettivi ossia il disegno di modernizzare l’università italiana secondo principi di meritocrazia, di finanziamento modulato sulla qualità della ricerca, sulla istituzione di strutture di valutazione composte da membri esterni al sistema. Se tanto è, di fronte ad una convergenza bipartisan sugli obiettivi, non sarebbe auspicabile un pacato confronto lontano dai riflettori, tra gli esperti di entrambi gli schieramenti, che produca uno schema di riforma da sottoporre al parlamento?

  16. Fabio Ranchetti

    Se, come pare evidente alle persone di buon senso (basta una semplice lettura del testo, e che una legge sull’università sia scritta in questo modo barbarico non è certo qualcosa di irrilevante), il ddl Tremonti-Gelmini non potrà essere comunque applicato per la mancanza dei fondi che servirebbero per applicare le sue norme, non vedo francamente come si possa pensare di continuare a difenderlo con l’argomentazione "meglio questo che nulla". Questa sì che è ideologia pura. Che una riforma confusa, contradditoria, non seria, e pertanto inapplicabile come "la Gelmini" sia meglio che nessuna riforma è, palesemente, insostenibile. Che rigettare tale "riforma" equivalga a precludersi la possibilità di una riforma più rigorosa e più condivisa mi sembra poi un non sequitur, quanto meno una conclusione non sufficientemente fondata. L’università italiana ha certamente bisogno di essere riformata, ma da una riforma seria, coerente e fattibile, priva di tutti quegli elementi di incertezza messi in evidenza dall’articolo di Checchi e Jappelli.

  17. Ivan

    Sono d’accordo con l’articolo. Aggungo che spesso in Italia, quando si prova a riformare qualcosa, si assiste a levate di scudi fatti di slogan pregiudiziali, senza senso e strumentali. "No ai tagli", "No alla privatizzazione", "Salviamo l’università pubblica". Questa secondo il mio parere è una maniera sbagliata di protestare, perchè non fa capire cosa ci sia di buono nella riforma e cosa invece debba essere rivisto. Prendere una riforma e rigettarla in tutto e per tutto, con gli stessi motti da sempre utilizzati, non è costruttivo e non fa capire l’intelligenza delle persone che stanno protestando. Così è fin troppo facile offrire il fianco alla strumentalizzazione tipica del "metodo Boffo". Un consiglio allo studente medio che protesta: leggi la riforma, bene, con il tuo cervello; cerca di capirne i pro e i contro, sia a livello ideologico che concreto, e infine fai una protesta più costruttiva e meno strumentalizzabile.

  18. Italiano

    Finalmente qualcuno che non si fa sopraffare da slogan e urla della piazza e dice che tutto sommato, da un punto di vista normativo, la Riforma Gelmini è una buona riforma. Anzi, considerata l’imminente caduta del Governo, "è stata". Non andrà in porto, e le cose rimarranno come stanno. Saranno contenti rettori, professori, ricercatori e studenti: si tengano questa pessima Università, ma ci risparmino in futuro qualsiasi ulteriore lamento in merito.

  19. az

    Un paio di considerazioni dal lato impresa (biotech) che lavora anche con l’università. Quel che sarebbe servito, secondo me: 1) preso atto del fallimento del 3+2, sopprimerlo, lasciando come lauree brevi quelli che un tempo erano i corsi delle vecchio scuole a fini speciali e poco più. Una laurea breve in chimica, biologia o ingegneria non serve a niente. 2) Decimare le miniuniversità venute su come funghi negli ultimi 15 anni. 3) Rendere più pesante la retribuzione dei dottorandi. 4) Istituire criteri bibliometrici basati sul fattore di impatto per allocare i fondi delle attività di ricerca. Poche pubblicazioni e di basso impatto = niente fondi. 5) Rivoluzionare i criteri per la fondazione delle spin-off, troppo spesso create sulla base di brevetti che hanno più a che fare con la ricerca di base che con le sue applicazioni Dati i prevalenti interessi di bottega che governano buona parte degli atenei, ritengo che l’università italiana conserverà il suo carattere di esamificio e cartificio ancora molto a lungo.

  20. Giovanni Scotto

    Tra le pieghe della "riforma Gelmini", all’art. 23, si annida un provvedimento demenziale. Purtroppo, sembra proprio che la paternità di questa idea sia del Partito Democratico: un modo interessante di fare opposizione creativa…

  21. Mauro Degli Esposti

    Ho letto questo interessante articolo ed alla fine son rimasto un po’ confuso – ‘and so what?’. Veniamo al sodo – se la Gelmini ed il governo avesse veramente come obiettivo valorizzare il merito, avrebbe dovuto accelerare, non ritardare come ha fatto la messa in opera dell’agenzia di valutazione ANVUR. Questa sarà cruciale per qualsiasi riforma dell’universita’ ma non parte da due anni. Per esempio, la deadline per candidarsi al suo comitato direttivo era il 15 settembre scorso; da tre mesi non si sa se e quando verranno scelti i candidati per dirigere l’agenzia e farla partire. Procedimento che è di esclusiva competenza del ministero e non avrebbe nulla a che fare con le difficoltà parlamentari del governo.

    • La redazione

      Sono del tutto d’accordo con Degli Esposti, e aggiungo che questo (insieme alla mancanza di investimenti) è esattamente uno dei punti su cui si dovrebbero concentrare le critiche all’azione del governo in tema di università, anziché cercare di buttare all’aria l’intera riforma. "Dite di voler valorizzare il merito? Benissimo, e allora fate partire l’ANVUR,
      altrimenti siete modernizzatori solo a parole". Purtroppo va aggiunto che i primi pasticci su questo li ha fatti il ministro Mussi, e questa è un’ulteriore ragione per cui temo che un altro governo non riuscirebbe a fare una riforma migliore e più avanzata…

  22. Sandro

    Sono uno studente medio(o meglio, lo ero fino a qualche mese fa). Sono 2 anni che analizzo col mio collettivo universitario le varie riforme universitarie dal 1999 in poi, la 133 e la bozza del Ddl Gelmini che uscì quasi un anno fa. E’ una riforma non buona, la classica italianata. Scritta dal ministero dell’economia e non da chi a cuore veramente la cultura e la formazione (certo, nei paesi seri un minsitero dell’economia ha a cuore questi temi, ma siamo pur sempre in Italia). La meritocrazia non la promuove e tantomeno mette la parola fine ai baronati. Molte procedure son lasciate indefinite. L’accesso alla carriera di professore corrisponde pari pari all’istituzionalizzazione delle mafie. Almeno col sistema dei concorsi pubblici un pò di oggettività c’era. Adesso hanno introdotto un sistema in linea con quello europeo che in Italia non può funzionare, per ragioni culturali. E l’ANVUR? Alla Gelmini non interessa. Mi sa che tanti "over 30" non hanno capito che gli studenti la riforma se la sono letta, hanno fatto il link con la 133 e si sono accorti che così si va poco lontano. Gli slogan servono solo per scaldare le piazze, come si è sempre fatto e sempre si farà.

  23. luca guerra

    Ho appreso di recente che il preside di una nota facoltà del nord – Italia, tiene la prima lezione del corso, e si ripresenta solo all termine, per gli esami, delegando a varie figure la propria attività di insegnamento. Questo malcostume è purtroppo molto diffuso e risale ad almeno 30 anni fa quando frequentavo un’altra facoltà. Se i professori facessero il loro mestiere, sarebbe già un gran passo in avanti e se le complicità che consentono questi comportamenti venissero meno sarebbe anche questo un notevole progresso. Questo è solo uno dei tanti mali che affliggono l’università italiana.

  24. Claudia

    Parole, parole, parole. Metodo Boffo per l’Università? Ma dove vive questa gente? Ma come si fa ad essere contrari a questa riforma? Mi sono laureata da poco in economia con 110 e lode in un ateneo del profondo sud. Nel corso della mia carriera da studentessa ho visto cose che voi non potete nemmeno immaginare. Sono incredibilmente delusa e se tornassi indietro, senza ombra di dubbio, non mi iscriverei. Criticità della mia facoltà: 1) i professori ordinari sono come i fantasmi. Si sa che ci sono ma nessuno li vede mai. Alcuni hanno uno stuolo di schiavetti (ricercatori), altri ne hanno uno soltanto. Ho visto alcuni di loro andare al bar a comprare cappuccino e brioche da portare al professore nel suo studio. Ho visto professori arrivare in facoltà (in centro città, non c’è mai parcheggio) e lasciare la macchina allo schiavetto (ricercatore) il quale aveva il compito di andare a cercare parcheggio….e magari tornare un’ora dopo a piedi. 2) Molti docenti ordinari sono dei "prestanome". Non svolgono alcuna attività didattica/di ricerca. Dei poveri cristi che dovrebbero prendere quel misero stipendio per fare ricerca finiscono per fare la didattica di 2/3 corsi.

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