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PER LA RICERCA RISORSE SCARSE E POCO COMPETIVIVE

I problemi dell’università italiana non dipendono solo dai tagli al Fondo di finanziamento ordinario decisi dal governo. Altrettanto importanti sono le risorse, pubbliche e private, destinate a finanziare le attività di ricerca. Il confronto con l’Inghilterra fa emergere come siano particolarmente scarse in Italia. E come quelle che pur esistono vengano allocate in gran parte con procedure non competitive.

Una delle ragioni più importanti dell’opposizione alle politiche per l’università del governo Berlusconi è il taglio delle risorse destinate a sostenere formazione e ricerca. L’attenzione è soprattutto agli effetti della legge 133 sul Fondo di finanziamento ordinario, che provvede le risorse fondamentali per il funzionamento degli atenei. Un problema altrettanto importante è la scarsità di risorse disponibili per finanziare le attività di ricerca. Non è solo un problema di quantità. Per i suoi effetti incentivanti, decisivo è il modo come i fondi vengono distribuiti alle università. Per avere un’idea del problema, può essere utile un confronto con l’Inghilterra, uno dei sistemi universitari e della ricerca migliori al mondo. (1)

IL CONFRONTO CON L’INGHILTERRA

Le differenze tra i due paesi sono rilevanti, sia sul piano dei valori complessivi che per ente erogatore e modalità di erogazione (tabella 1). Per una stima quantitativa, è utile il riferimento al finanziamento pubblico corrente nei due sistemi: i fondi disponibili per la ricerca equivalgono in media al 50 per cento dei Recurrent Grants (Rgs) in Inghilterra, contro appena il 21 per cento in rapporto al Ffo in Italia. (2) Dai dati emerge inoltre il profondo divario nel peso dei finanziamenti erogati con bandi aperti e competitivi e con valutazioni peer review: il 67 per cento del totale in Inghilterra, contro una stima per l’Italia che oscilla tra il 20 e il 29 per cento.
Tutto ciò si riflette nella forte correlazione tra i finanziamenti alla ricerca e la qualità degli atenei inglesi nelle principali classifiche internazionali. È quanto emerge dalla figura 1, che mostra la relazione tra l’ordinamento Heaact, basato su indicatori bibliometrici, e il peso in rapporto ai Rgs dei fondi complessivi per la ricerca. La correlazione è ancora più forte con i fondi assegnati su base competitiva (non riportata). Si noti che anche una quota significativa del finanziamento ordinario (i Recurrent Grants per la ricerca), pari in media al 22 per cento, viene distribuito agli atenei sulla base di un’attenta e indipendente valutazione della qualità della ricerca, secondo standard internazionali (Rae, Research Assessment Exercise, l’ultimo è del 2008).
In Italia invece ci sono molte meno risorse e il peso dei fondi competitivi è decisamente più limitato. Dei fondi ministeriali, solo le risorse destinate ai Prin e ai Firb possono essere ricondotte chiaramente a bandi aperti e competitivi. Il loro peso è tuttavia trascurabile: il 7,4 per cento sul totale. Si tratta di 111 milioni di euro ppp, appena l’8 per cento della cifra stanziata in Inghilterra dai Research Councils (1,4 miliardi in euro ppp). (3) Aggiungendo a queste risorse i fondi che provengono dalla Comunità europea si arriva al 20,7 per cento del totale. A questa cifra, con maggiore cautela, si possono sommare i finanziamenti che provengono da altri ministeri, enti di ricerca e istituzioni sociali private (che includono istituzioni filantropiche e fondazioni bancarie). Nel complesso, una stima attendibile per l’Italia della quota del finanziamento alla ricerca riconducibile a procedure competitive va da un minimo del 21 per cento (solo Prin-Firb e fondi Unione Europea) a un massimo del 29 per cento del totale. Si tratta di cifre sensibilmente inferiori a quelle inglesi. Si noti che anche la quota del 7 per cento del Ffo che di recente è stata redistribuita sulla base di una valutazione di qualità è di molto inferiore a quella inglese, con scarsi effetti incentivanti.

I FONDI “LOCALI”

Questi dati illustrano chiaramente come nelle università italiane il grosso delle entrate per finanziare la ricerca provenga da fonti che distribuiscono le risorse in maniera non competitiva o al massimo localmente competitiva. Si tratta soprattutto di consulenze e attività conto terzi (vendita di beni e servizi), importanti per il trasferimento tecnologico, ma che non possono essere considerate attività di frontiera e che in Inghilterra non vengono neanche incluse nella ricerca. Va aggiunto il sostegno degli enti e delle amministrazioni locali, che hanno come obiettivo prioritario lo sviluppo dei territori. Un ruolo di rilievo è svolto dalle fondazioni bancarie, anch’esse però limitate nella loro azione ai territori e atenei di riferimento. Tutte queste risorse sono importanti per sostenere le attività di ricerca e per contribuire allo sviluppo locale, ma i meccanismi di allocazione non necessariamente premiano la ricerca di migliore qualità e spesso privilegiano la capacità di contrattazione o di pressione di gruppi di ricercatori autoreferenziali.
Il risultato è che larga parte dei finanziamenti per la ricerca in Italia viene assegnato agli atenei indipendentemente dalla qualità del loro lavoro e dei loro ricercatori. Èciò che emerge dalle figure 2 e 3, che illustrano la relazione tra l’ordinamento Heeact relativo all’Italia, i fondi complessivi alla ricerca e il totale dei fondi competitivi. A differenza di quanto visto per l’Inghilterra, i finanziamenti non appaiono nel loro complesso correlati alla qualità degli atenei (figura 2), mentre nel caso dei fondi competitivi la correlazione c’è, ma è debole e la dispersione elevata (figura 3).
In conclusione, per rafforzare il proprio ruolo nello spazio europeo e internazionale della ricerca e per fare emergere un gruppo di atenei davvero competitivi e attrattivi a livello internazionale, l’università italiana ha bisogno, in primo luogo, di molte più risorse, soprattutto pubbliche, per finanziare la ricerca di base, ma ha anche bisogno di risorse private. È poi fondamentale che una parte rilevante dei fondi venga distribuita in maniera trasparente, aperta e competitiva. Sistemi di questo tipo indirizzano le risorse verso le strutture che meglio possono valorizzarle e rappresentano un forte incentivo per la qualità della ricerca e per politiche di sviluppo e reclutamento orientate a valorizzare il merito.

(1) I dati sono stati elaborati sulla base dei bilanci consolidati degli atenei italiani e inglesi. L’anno di riferimento è il 2007/08. Si veda Sergio Paba, “Il finanziamento dell’università italiana. Un confronto con l’Inghilterra usando i bilanci degli atenei”, Materiali di Discussione, Dipartimento di Economia Politica, Università di Modena e Reggio Emilia, n. 622, Dicembre 2009. Paper presentato alla 51° Riunione scientifica annuale della Società Italiana degli Economisti, Catania 15-16 ottobre 2010.
(2) Se si valutano correttamente gli studenti fuori-corso, non esistono apprezzabili differenze tra i due sistemi nel finanziamento pubblico ordinario per studente equivalente a parità di potere d’acquisto.
(3) I 111 milioni di euro risultano nei bilanci dei 58 atenei statali considerati.

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  1. Marco Viola

    Il testo è molto interessante, e mi permetto solo di sollevare un dubbio in merito alla nota 2: "Se si valutano correttamente gli studenti fuori-corso, non esistono apprezzabili differenze tra i due sistemi nel finanziamento pubblico ordinario per studente equivalente a parità di potere d’acquisto." Quest’affermazione andrebbe corroborata con un preciso riferimento alla fonte: se come sospetto il testo di riferimento è il libro di Roberto Perotti (L’università truccata, 2008), che sostiene che in Italia si spenda di più per studente che in qualsiasi altro paese al mondo, vanno segnalate le numerose criticità al suo sistema di conteggio: vedi "I ricercatori non crescono sugli alberi", Labini e Zapperi 2010 oppure L’università malata e denigrata, Regini e altri 2009.

  2. Andrea M.

    Non credo che la proposta dell’autore verrà accolta a breve dalla politica. Da un lato, l’attuale governo ha varato un programma pluriennale di tagli al FFO delle Università, dall’altro la legge 240/2010 ha stabilito che la quota di FFO assegnata in base alla valutazione ANVUR non potrà superare il 10%. Il fondo di finanziamento ordinario viene speso al 80-90% per gli stipendi dei dipendenti, mentre le risorse ministeriali per la ricerca (per sviluppare progetti, acquistare strumentazioni, pagare borse di studio, ecc.. ) arrivano sopratutto dai finanziamenti PRIN e FIRB che sono assegnati in base a procedure competitive. Si potrebbe rafforzare questi programmi di finanziamento con maggiori risorse (magari recuperate dai tagli al FFO) e migliorare il sistema di gestione/valutazione dei progetti affinché sia più trasparente ed efficiente. Ad esempio, si potrebbe evitare che il PRIN 2009 sia bandito a Marzo 2010 e che ci vogliano 6 mesi solo per designare la commissione di garanzia. Se si distribuisce risorse in base alla valutazione di progetti presentati e i risultati ottenuti si potrebbe introdurre anche meccanismi di premio/punizione dei Dipartimenti e quindi delle Università.

  3. bob

    ma ci rendiamo conto di quante sedi Universitarie ci sono in Italia? La gran parte inutili e dispendiose. Inoltre la ricerca ha una giustificazione se ha un fine. Con un Paese deindustrializzato come il nostro quali sbocchi hanno i ricercatori e le loro ricerche? La Facoltà di Comunicazione è quella più gettonata, dove insegna Maurizio Costanzo, tanto per capirci.

  4. Stefano

    Che intende per "valutare correttamente" il numero dei fuoricorso? Se i fuoricorso (come ad Ingegneria) alla fine si laureano, ovvero se tutti vanno fuoricorso (in media due anni ai miei tempi) vuol dire che semplicemente la durata degli studi è (quasi) sempre maggiore di quella statutaria. I fuori corso che vedo io seguono i loro corsi e poi fanno i loro esami, non vengono a ripeterli "n" volte (ad Ingegneria di bocciature negli ultimi due anni se ne vedono ben poche; e comunque se si presentassero a ripetizione sarebbero un onere aggiuntivo, altro che studente equivalente a tempo pieno). Insomma perché dovrebbero "valere" meno di uno nel conteggio?

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