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QUANDO L’UGUAGLIANZA NON VA A SCUOLA

Un’analisi dei test di ingresso alla facoltà di economia dell’università di Torino evidenzia come i risultati degli studenti varino in funzione del tipo di scuola di provenienza: liceo o istituto tecnico oppure scuola pubblica o privata. Ma non solo: anche a parità di percorso seguito, si registrano differenze tra le singole scuole superiori frequentate. È necessario dunque potenziare l’applicazione di strumenti di valutazione standardizzati dell’apprendimento degli studenti per identificare le differenze qualitative fra scuole. E forse pensare a una gestione regionale dell’istruzione.

La recente pubblicazione delle prime analisi sul test Pisa 2009 ha riproposto il tema della performance della scuola italiana. (1) Come sempre dal 2000 (anno del primo test Pisa) le competenze acquisite dai quindicenni italiani nella lettura, in matematica e nelle scienze sono sotto la media dei paesi partecipanti all’indagine, sebbene si siano registrati dei miglioramenti rispetto al passato. Dall’indagine emerge anche l’elevata variabilità dei risultati, sia tra regioni (con una migliore performance degli studenti del Centro-Nord) che all’interno di esse, così come tra tipi di scuole (i licei meglio degli altri istituti) e tra scuole pubbliche e scuole private (con le prime che presentano le performance migliori).

COSA DICE IL TEST D’INGRESSO

Il tema della variabilità introduce quello – per nulla univoco – dell’uguaglianza e del ruolo che può giocare su questo terreno la spesa pubblica in istruzione. Focalizzando l’analisi sull’istruzione superiore, una scuola equa dovrebbe, in una prima accezione più restrittiva, garantire a tutti gli studenti eguali opportunità di apprendimento, indipendentemente dal loro background socio-economico, dalla loro abilità e dal tipo di indirizzo scelto (licei o istituti tecnici). Una versione più edulcorata riconosce invece che le abilità individuali possano portare a differenze di performance degli studenti, così che le medesime opportunità dovrebbero essere garantite indipendentemente dal background famigliare e dal tipo di percorso. (2) Poiché tuttavia nel nostro paese i percorsi della scuola superiore sono estremamente differenziati ed è molto difficile che il milieu di provenienza dello studente non conti, una versione ancora più attenuata di equità prevede che gli studenti abbiano almeno le stesse opportunità di apprendimento, a parità di abilità, di percorso scolastico e di condizioni socio-economiche della famiglia di origine.
I risultati del test di ingresso alla facoltà di economia dell’università di Torino, un test standardizzato e a carattere generale sostenuto da circa tremila studenti torinesi tra gli anni accademici 2006/2007 e 2009/2010, ci hanno permesso di analizzare, su una realtà geografica molto specifica (il comune di Torino) come la performance degli studenti possa variare in funzione non solo del tipo di scuola di provenienza (liceo vs istituti tecnici e/o scuola pubblica vs scuola privata), ma anche del singolo istituto superiore frequentato. In particolare, l’uso di un campione dal ristretto ambito geografico e focalizzato su studenti già alla fine degli studi secondari ha permesso di fornire un’evidenza complementare rispetto a quella dei dati Pisa, sebbene il nostro campione, a differenza di quello dell’indagine Ocse, non si possa considerare casuale e quindi i risultati debbano essere presi con cautela.
In primo luogo, si conferma la notevole influenza sulla performance del test indotta dal tipo di percorso secondario superiore. Il conseguimento di una maturità liceale piuttosto che tecnica o professionale determina infatti un sostanziale miglioramento della performance (si veda la figura 1). Poiché gli studenti non sono assegnati in maniera casuale alle varie scuole, non è chiaro quanto questo effetto sia dovuto ad autoselezione degli studenti migliori nei licei classici o scientifici o al trattamento scolastico ricevuto. Tuttavia, si noti come i risultati siano ottenuti condizionando al reddito delle famiglie, il che dovrebbe eliminare parte dell’effetto di autoselezione. (3)
Vi è un altro risultato che emerge dall’analisi e che riveste maggiore importanza per la questione dell’equità della scuola pubblica italiana: a parità di tipo di percorso frequentato (liceo o istituto tecnico), alcuni istituti sono caratterizzati da risultati migliori di altri. Ad esempio, nel caso dei licei scientifici, gli studenti del liceo B fanno meglio di quelli del liceo C di ben 10 punti, mentre per gli istituti tecnici gli studenti dell’istituto F fanno meglio di quelli del G di 8 punti. Si evidenzia pertanto una stratificazione delle scuole per risultato al test, come mostra la figura 2, su un’area dove i costi di trasporto non dovrebbero influenzare la scelta della scuola e comportare – da parte delle famiglie – la scelta della miglior opportunità. Anche in questo caso, i risultati sono ottenuti controllando per il reddito della famiglia di provenienza ed evitando pertanto possibili distorsioni derivanti da stratificazione degli studenti più ricchi nei licei pubblici migliori. In ogni caso, le differenze sono talmente marcate da escludere che non siano frutto di una sistematica differenza di istruzione ricevuta.

MEGLIO LA GESTIONE LOCALE?

Sono almeno due i suggerimenti che derivano da questi risultati.
Il primo è la necessità di potenziare l’applicazione di strumenti di valutazione standardizzati dell’apprendimento degli studenti per identificare le differenze qualitative fra scuole. Un esempio in questo senso è fornito dall’Invalsi che dal 2006/2007 provvede a una valutazione sistematica del sistema di istruzione del nostro paese. Solo potenziando la valutazione e diffondendo i relativi risultati, infatti, si potranno, da un lato, mettere in moto meccanismi di scelta consapevole da parte delle famiglie e, dall’altro, provare a migliorare la performance delle scuole peggiori allineandole con quelle delle migliori.
Il secondo riguarda il dibattito sul decentramento dell’istruzione: la centralizzazione della politica dell’istruzione non ha portato ai risultati sperati dal punto di vista dell’eguaglianza delle opportunità. Modelli alternativi, dove – a differenza del nostro paese – l’istruzione è gestita a livello regionale sono naturalmente possibili e non è detto che conducano a risultati peggiori. Per esempio, in Spagna, un paese molto simile al nostro per background culturale e dove l’istruzione è gestita a livello regionale, il test Pisa mostra una più contenuta variabilità dei risultati fra scuole rispetto all’Italia. Rigorose analisi quantitative che valutino il ruolo svolto dal livello di governo nella gestione della politica di istruzione sull’equità dei risultati scolastici sono, pertanto, auspicabili.

(1) Disponibili sul sito dell’Invalsi, Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione, http://www.invalsi.it/invalsi/ri/pisa2009.php?page=pisa2009_it_00.
(2) Il tema degli effetti negativi del “tracking” (cioè l’obbligo di scelta, sulla base delle capacità e delle aspettative degli studenti e/o delle loro famiglie, tra curricula distinti fortemente differenziati) sul livello medio e sulla variabilità dell’apprendimento è oggetto di ampia letteratura. Si veda per esempio il commento di Daniele Checchi alla riforma Gelmini del 2009 disponibile a https://www.lavoce.info/articoli/-scuola_universita/pagina1001171.html.
(3) L’analisi mostra quanto sia importante, purtroppo, l’effetto reddito per la performance nel test. Passando dal 25mo al 75mo percentile della distribuzione si registra un aumento di circa 2 punti, che equivale a oltre il 5 per cento del risultato medio. Tale effetto gioca un ruolo importante anche nel confronto tra scuole pubbliche e private, essendo queste ultime caratterizzate da studenti mediamente più abbienti. Tenendo conto dell’effetto reddito, oltre che per tipo di istituto, la superiorità delle scuole pubbliche si attesta a più del 10 per cento del risultato medio.

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LA SOLITUDINE DELL’IMPRENDITORE

  1. Paola Pavese

    Le prove INVALSI sono collegate all’istituzione di un’Anagrafe Nazionale degli Studenti. Il fine pare essere dunque quello di verificare, non solo le capacità formative dei singoli istituti, ma le performance pregresse di ogni singolo studente. Questo sistema pare essere dunque orientato ad una più agevole selezione della classe dirigente del futuro, che molto difficilmete in Italia si sgancerà dalla provenienza di classe, visto la scarsissima mobilità sociale strutturale della nostra società. Rafforzare le valutazione standardizzate, non credo quindi che porterà ad una politica volta ad una maggire omogeneità dell’offerta formativa, semmai avverrà il contrario.

  2. Guido Polles

    Salve, vorrei fare un commento a proposito dei suggerimenti finali. Penso che valutare il livello di apprendimento e distribuire i risultati non possa avere altro effetto se non quello di peggiorare la situazione di variabilità, come allo stesso modo la gestione decentralizzata, portando agli istituti migliori più studenti, studenti migliori e probabilmente anche con estrazione sociale più elevata. Allo stesso modo otterrebbero i migliori professori. Stesso discorso per la decentralizzazione regionale, dove a una peggiore amministrazione corrisponderebbe una peggiore scuola senza apprezzabili vantaggi, a mio avviso.

  3. Chiara Fabbri

    Non mi trovo totalmente d’accordo con le proposte formulate, in particolare per le materie "umanistiche" ritengo che l’eccessiva propensione all’adozione di prove standardizzate peggiori la qualità dell’insegnamento, che viene orientato esclusivamente al superamento delle prove piuttosto che all’apprendimento della materia. In particolare, trovo che l’eccessiva enfasi data alle prove standardizzate penalizzi lo sviluppo delle capacità espositive, richiesto da forme più tradizionali ma meno misurabili di prove come l’elaborato scritto e l’interrogazione orale. Ho visto professori di filosofia somministrare a liceali test a risposta multipla per valutare la comprensione del pensiero di Platone, francamente mi sembra un metodo troppo povero.

  4. sandro

    La pubblicazione "ufficiale" dei nomi degli istituti sarebbe gradita (quale è il liceo scientifico C che fa peggio delll’istituto tecnico F? E il tecnico F è lo "storico" istituto per ragionieri della città o è stato superato da altri?) . Concordo col commento precedente che la pubblicità dei nomi degli istituti sposterebbe un certo numero di iscrizioni (creando vari problemi alle scuole che perdono allievi o non sono in grado di accettare nuovi studenti) ma sarebbe più "democratica" del passa-parola fra chi è "del giro". Insegno a Torino e periodicamente (circa una volta all’anno) devo fornire ad amici e conoscenti la "classifica" delle scuole superiori, sinceramente preferirei che le classifiche fossero ufficiali e disponibili a tutti.

  5. Maurizio Daici

    Condivido l’idea di regionalizzare l’organizzazione scolastica, sul modello offerto dalla sanità. Si tratta di lasciare allo Stato la definizione dei contenuti minimi/obbligatori dei programmi di studio (gli obiettivi educativi correlati ai diversi titoli di studio), i requisiti per l’accesso all’insegnamento e poco altro che serve a delineare il sistema scolastico nazionale. Si assegna, invece, alle Regioni la gestione del sistema: definizione degli organici e reclutamento del personale docente, amministraivo e tecnico; offerta formativa e arricchimento dei programmi nazionali secondo le necessità regionali (ad esempio, perché ridurre l’insegnamento del tedesco in regioni confinanti con l’Austria, come la mia, il FVG, per effetto di "tagli" sul bilancio statale?); edilizia scolastica e dotazioni strumentali per la didattica. Non credo che ci siano altre possibilità per avere una scuola efficiente e non credo si debba temere per la qualità del sistema nazionale nel suo complesso, che la gestione ministeriale non sembra proprio assicurare.

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