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DEMOCRAZIE D’ARABIA

Le recenti proteste popolari hanno risvegliato il mondo arabo da un pluriennale torpore. Ma quali sono le prospettive della democrazia in Nord Africa e Medio Oriente? L’evidenza storica suggerisce che i paesi meno dipendenti dalle risorse naturali e caratterizzati da una distribuzione della ricchezza più eguale hanno maggiori possibilità di cambiare sistema politico in maniera poco violenta e di arrivare a democrazie caratterizzate da una più ampia tutela delle libertà individuali. E ciò non fa ben sperare per i paesi arabi oggi coinvolti nei conflitti più violenti.

 

L’esilio del presidente tunisino Ben Ali è un evento senza precedenti. Per la prima volta un leader arabo è stato costretto ad abbandonare il potere a causa di un sollevamento popolare di matrice non religiosa. L’evento ha dato il via a un effetto domino nella regione e ha portato alle dimissioni del presidente Mubarak in Egitto, a violente proteste in Bahrain, Algeria, Yemen e Siria, e allo scoppio di una sanguinosa guerra civile in Libia.

RADICI COMUNI

Un nuovo risveglio del mondo arabo è stato recentemente evocato da Laurence Pope sulle colonne del New York Times con riferimento al diffondersi di valori democratici nel Nord Africa e nel Medio Oriente. (1) Ma quali sono le reali prospettive per lo sviluppo di istituzioni realmente democratiche nella regione? L’evidenza storica suggerisce che la risposta può dipendere dalle modalità del processo di transizione democratica e, in particolare, dal livello di violenza che lo caratterizza.
Le proteste popolari nei diversi paesi arabi hanno radici comuni. Sono nutrite dallo scontento di vaste fasce di popolazione da troppo tempo escluse dal godimento di benefici politici ed economici. La rapida crescita demografica dell’ultimo decennio ha contribuito all’aumento della disoccupazione giovanile che, in molti paesi della regione, raggiunge ormai il 30 per cento. Le tensioni di fondo sono state acuite dalla recente crisi economica del 2008 e dall’aumento dei prezzi delle derrate alimentari.
Nonostante le comuni radici, i movimenti pro-democrazia del mondo arabo stanno dando frutti diversi. Mentre alcuni paesi appaiono avviati verso una transizione democratica rapida, ed essenzialmente pacifica, altri sono stati condotti verso vere e proprie guerre civili scatenate dai violenti tentativi di repressione attuati dalle elite al potere. La visione che la democratizzazione sia un prerequisito necessario per un miglioramento delle condizioni della popolazione è molto diffusa ed è stata spesso associata all’idea che quello che importa è, in ultima istanza, l’emergere della democrazia. In quest’ottica l’esistenza di percorsi molteplici di transizione è spesso interpretata come inevitabile ma, sostanzialmente, ininfluente. Dal punto di vista teorico, tuttavia, i modi del cambiamento di regime possono essere cruciali nel determinare la qualità delle emergenti istituzioni democratiche. (2) Lo studio delle democratizzazioni (da lui) definite della "terza ondata", ha portato Huntington a concludere che l’emergere di democrazie senza un reale rispetto dei diritti civili sia più probabile in seguito a transizioni violente. (3)

DATI SULLE TRANSIZIONI

Il Peace Research Institute di Oslo e la Freedom House forniscono dati utili a misurare il livello di violenza associato alle transizioni democratiche nel periodo 1970-2003. (4) I dati possono essere utilizzati per studiare empiricamente le determinanti e le conseguenze dello scenario di democratizzazione. Per quanto concerne le cause all’origine dei differenti tipi di transizione democratica, l’evidenza empirica suggerisce che livelli più elevati di disuguaglianza economica (pre-transizione) e una maggiore importanza delle risorse naturali, sono associati a una più alta probabilità di violenza nel corso del cambio di regime. L’impatto della violenza nel processo di transizione sulla qualità delle democrazie emergenti in termini di protezione delle libertà civili può essere identificato sfruttando l’informazione sul cambiamento di regime in ogni paese nel tempo. (5)
La figura 1 illustra il risultato di quest’analisi mostrando l’evoluzione del valore medio dell’indice di tutela delle libertà civili nel corso del decennio precedente e di quello successivo a un episodio di democratizzazione. (6) Valori più bassi dell’indice stanno a indicare una maggiore tutela delle libertà civili. La figura distingue fra i paesi che hanno avuto una transizione pacifica e quelli che invece sono arrivati alla democrazia dopo un conflitto violento. Un episodio di democratizzazione non violenta è seguito (in media) da un miglioramento di circa un punto e mezzo del valore dell’indice sulla tutela delle libertà civili. I cambiamenti di regime violenti portano a miglioramenti significativamente meno marcati. L’effetto della violenza appare persistente ed è significativo anche dopo un decennio.

Figura 1. Effetti della violenza durante la transizione democratica sulla tutele dei diritti civili.
Fonte: Cervellati, Fortunato e Sunde (2011)

 

In sintesi, l’evidenza ricavata dalla terza ondata di democratizzazione suggerisce che i paesi meno dipendenti dalle risorse naturali e caratterizzati da una distribuzione della ricchezza più eguale abbiano maggiori possibilità di cambiare sistema politico in maniera poco violenta e di portare a democrazie caratterizzate da una più ampia tutela delle libertà individuali. Se si prende seriamente l’esperienza della terza ondata di democratizzazione è lecito aspettarsi prospettive peggiori per i paesi arabi attualmente coinvolti nei conflitti più violenti.

 

(1) Pope, Laurence (2011), “The Second Arab Awakening”, New York Times, February 18.
(2) Teorie che enfatizzano il ruolo dello scenario di transizione per le caratteristiche delle democrazie sono state proposte da Cervellati Matteo, Fortunato, Piergiuseppe e Uwe Sunde (2007), “Consensual and Conflictual Democratization, Rule of Law, and Development” DP6328, CEPR London e (2011), “Democratization, Violence, and the Quality of Democracies”, DP5555, IZA Bonn.
(3) Huntington, Samuel Phillips (1993), “The Third Wave: Democratization in the Late Twentieth Century”, University of Oklahoma Press, Oklahoma.
(4) Freedom House (2005): How Freedom is Won: From Civic Resistance to Durable Democracy, Karatnycky Adrian (ed.), New York.
(5) Tecnicamente l’effetto causale della democratizzazione può essere identificato con un modello estendendo la strategia empirica proposta da Elias Papaioannou Gregorios Siourounis (“Democratisation and growth” VoxEU.org, 25 October 2008) alla considerazione del tipo di transizione democratica in termini di livelli di violenza.
(6) L’indice prende valore da 1 a 7, ove 1 rappresenta il valore più elevato di libertà e 7 il più basso. I dati sono disponibili per il periodo 1972-2003. I valori dell’indice riportati in figura rappresentano le differenze rispetto al valore medio pre- e post- transizione.

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LA RISPOSTA AI COMMENTI

  1. cinzia q

    Interessante analisi, ma si sottovaluta l’aspetto religioso. Finché questi Paesi continueranno a sottomettersi ad un regime religioso (in cui predominano, in maniera estremista, i sunniti dell’Arabia Saudita) e a non scindere l’Islam dalla politica e dall’economia, saranno Paesi destinati a soccombere.

  2. boaz

    Nel fratempo il nuovo ministro degli esteri egiziano ha già annunciato la ripresa dei rapporti e coperazione streaata con l’Iran, in effetti gli egiziani hanno permesso il passaggio di due navi da guerra iraniane nel canale di Suez . Quindi dall’egitto ce d’aspettare il peggio per non menzionare i fratelli mussulmani e la tendenza religiosa degli egiziani. In Siria non va molto meglio, l’Iran stà dietro la porta, in Libano si rafforza giorno per giorno la maggioranza islamica di Hizballah con le sue tendenze faziose ed agressive . La Libia promette il peggio., Turchia è sulla medesima strada con regime che richiama l’Iran, ostile ad Israele che organizzaera a Maggio un altra "Flotilla2 per provocare nuovo stato di tensione nel medioriente, Già nel mese scorso Israele ha intercettato una nave carica di missili con la destinazione Gaza. Altro cher democrazie… routine arabe

  3. massimo tosatto

    C’è un aspetto comune nelle crisi degli ultimi anni, da quella economica del 2007 alla sollevazione dei paesi arabi: gli enti mondiali che hanno il compito osservare e prevedere ci dicono in continuazione che tali situazioni "non erano prevedibili". Posto che potremmo dire invece che qualcuno ha fatto male il proprio lavoro, viene il sospetto che il problema stia molto nei committenti. Dopo contratti miliardari firmati con Libia e Tunisia, chi aveva convenienza a dire che quei regimi, all’apparenza garanti di stabilità, galleggiavano invece su un magma in surriscaldamento, pronto a trovare una via d’uscita in un cono vulcanico di rivolta popolare? Inoltre, si agita lo spettro di Al Qaeda e del terrorismo, quando a ben vedere sono questi dittatori destituiti ad aver giocato con l’Occidente il rimpiattino del persecutore di terroristi e con il Medio Oriente dei garanti della religione, a seconda delle convenienze. Il caso della Libia è ancora più interessante. La popolazione libica è per il quasi 90% concentrata nelle città e ancora agitiamo spauracchi delle tribù quando, è molto probabile, i legami tribali sono molto attenuati e sopravvivono solo per Gheddafi e i suoi. Insomma, è un mondo molto diverso da quello che ci hanno raccontato, per cui le categorie che utilizziamo di solito non valgono. Ci vorrebbe qualcuno che abbia reali interessi a spiegarci che cosa succede, ma è sempre difficile leggere tra le righe delle convenienze di giornale e degli investitori nelle varie fonti di informazione. C’è, credo, una grande impreparazione soprattutto da parte dei nostri politici, impegnati a limitare solo l’immigrazione, ma del tutto incapaci di prendere una direzione, a farci capire cosa vogliono fare e a proporre una strategia di lungo periodo, cosa che invece gli arabi ribelli si aspettano da noi, proprio perché a noi guardano per il loro futuro e non ai terroristi o fondamentalisti. Infine, giusto una nota sul discorso di Obama di quasi due anni fa alla nazione araba. Un discorso più importante di quanto si creda, che forse ha agito da fiammifero di un miccia pronta ad accendersi da tempo.

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