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ALL’UNIVERSITÀ COL PRESTITO D’ONORE? NO, GRAZIE

 Le tasse universitarie italiane sono troppo basse. E il problema è particolarmente impellente in un contesto di costante riduzione del Fondo di finanziamento ordinario. Ma un innalzamento significativo finanziato tramite indebitamento è da evitare. Soprattutto perché rischia di vanificare il frutto migliore della riforma del 3+2: l’accesso generalizzato all’università. Meglio allora decidere un moderato e generalizzato aumento delle tasse. Dovrebbe essere ben accolto anche dagli studenti di famiglie più povere perché serve a far contribuire di più chi più ha.

Il tema delle tasse universitarie in Italia torna spesso nel dibattito politico ma è un tema poco apprezzatto dall’opinione pubblica. Lo ha ben documentato l’Istat all’ultimo festival dell’Economia di Trento in  un sondaggio svolto su un campione di mille persone in occasione del nostro dibattito dal titolo ” E’ giusto alzare le tasse universitarie”. Così come i presenti in sala, la maggior parte degli intervistati ha dato una risposta negativa a questa domanda.

PRESTITI D’ONORE E AVVERSIONE AL RISCHIO

La recente proposta avanzata da Andrea Ichino e Daniele Terlizzese solleva nuovamente il problema della contribuzione degli studenti al finanziamento dell’università italiana. (2) Tre ci sembrano i punti di forza della loro proposta:

1) l’università italiana è sotto finanziata in confronto agli altri paesi Oecd, e in queste condizioni non può offrire formazione di qualità, non potendo competere nel mercato internazionale della docenza;
2) l’attuale meccanismo di finanziamento dell’università è iniquo perché regressivo (fa pagare ai poveri il finanziamento dell’università dei ricchi);
3) l’attuale tetto legislativo alla contribuzione studentesca pari al 20 per cento (vedi anche “Più tasse universitarie, ma con più borse di studio“, di Gilberto Muraro) azzera la possibilità di competizione tra atenei, e all’interno di questi tra facoltà e dipartimenti.

Pur essendo convinti della validità di ciascun argomento singolarmente considerato, riteniamo che un innalzamento significativo delle tasse universitarie (Ichino e Terlizzese arrivano a ipotizzare fino a un massimo di 7.500 euro annui) finanziato tramite indebitamento sia da evitare nel nostro paese, per due ragioni fondamentali.
La prima è che gli individui hanno un diverso grado di avversione al rischio: a un futuro ugualmente incerto reagiscono in modi molto diversi. A riprova, prendiamo un esempio tratto dall’indagine che ogni due anni la Banca d’Italia compie tra le famiglie italiane. Nell’indagine condotta nel 2000 si è chiesto agli intervistati quanto fossero disposti a pagare per comprare un biglietto per partecipare a una lotteria molto semplice: lanciando una monetina, se usciva “testa” non si guadagnava nulla, se invece usciva “croce” si guadagnavano 10 milioni. (3) Ebbene, un quarto dei rispondenti sembra non capire l’alternativa, in quanto chiede di essere pagato per partecipare, e ben il 60 per cento non è disposto a pagare nulla, per non rischiare di perdere il costo del biglietto in caso di uscita di “testa”. Se ci limitiamo a coloro che sono disposti a partecipare alla scommessa, i valori medi delle loro offerte sono riportati nella tabella, disaggregati per titolo di studio posseduto e per età del rispondente.

20-30

31-40

41-50

51-65

totale

nessun titolo

100

7.33

34.67

33.13

32.87

licenza elementare

50.33

37.55

62.35

53.94

55.07

licenza media

48.02

64.54

60.03

51.05

55.71

diploma professionale (3 anni)

74.13

69.93

55.06

57.31

64.71

diploma media superiore (5 anni)

56.86

56.66

63.16

62.7

59.12

laurea/laurea triennale/magistrale/dottorato

53.44

75.82

64.33

56.11

64.4

Totale

54.58

61.34

61.02

53.68

57.41

Ovviamente, la disponibilità nell’accettare una scommessa dipende da tanti fattori, primo fra tutti la ricchezza posseduta o i vincoli di spesa, ma anche il genere, il titolo di studio e le origini sociali di provenienza.
Come verrebbe affrontata, allora, la scelta dell’iscrizione all’università qualora costasse l’equivalente di mezzo anno di lavoro? Quante persone si ritirerebbero prima ancora di affrontare la scommessa? Specialmente quando le probabilità sono molto più incerte e sconosciute di un semplice testa o croce. A partire dal prossimo anno, in Gran Bretagna le tasse universitarie salgono da 4mila a 10mila sterline, accompagnate da una estensione dei prestiti restituibili successivamente all’entrata sul mercato del lavoro. Quell’esperienza sarà un buon banco di prova degli effetti della proposta. I dati preliminari segnalano una riduzione delle iscrizioni di circa il 15 per cento.
Ichino e Terlizzese si preoccupano di dimostrare che un sistema di prestiti condizionato ai guadagni futuri è molto diverso da quello in vigore negli Stati Uniti dove i prestiti devono essere restituiti incondizionatamente. (4) Sostengono anche che il rimborso condizionato è il modo migliore per limitare l’effetto negativo dell’avversione al rischio sulle iscrizioni. Tuttavia, alcuni lavori proprio sul fenomeno nei dati Banca d’Italia mostrano come chi proviene da famiglie poco istruite sia spesso molto più avverso al rischio di chi ha un’istruzione superiore e non comprenda facilmente il menù di opportunità e rischi. Visti i dati precedenti, probabilmente non comprenderebbe neppure il sistema proposto.
È chiaro che l’investimento in istruzione universitaria è un investimento incerto da molti punti di vista: incerto è il conseguimento finale del titolo; incerti sono i redditi futuri; e incerta è la probabilità d’impiego corrispondente all’indirizzo di studi che si è scelto. Studenti avversi al rischio difficilmente prenderanno a prestito denaro per studiare. Preferiranno utilizzare la classica strategia perseguita fino ad oggi da parte di chi ha problemi di finanziamento: lavorare e studiare.
Esiste poi un fattore specifico dell’Italia che rende i prestiti meno attraenti. Nel nostro paese il premio di laurea (la differenza tra un salario medio percepito da un diplomato e da un laureato) è tradizionalmente basso, attorno al 5-6 per cento, e probabilmente in calo dopo la riforma 3+2 che ha prodotto triennalisti difficilmente distinguibili da diplomati con tre anni di esperienza lavorativa. Con un premio di laurea così basso e rendimenti incerti e su un trend decrescente, chi prenderebbe a prestito cifre considerevoli per pagarsi l’università?
Se da un lato non conosciamo quindi quale sarà la reazione degli studenti e delle loro famiglie a un incremento potenzialmente drastico delle tasse universitarie, dall’altro siamo però coscienti che in Italia è attualmente in corso una drammatica redistribuzione intergenerazionale a scapito delle nuove generazioni (si veda al riguardo l’articolo di Biasi, Pellizzari e Poggi). Per questo, riteniamo iniquo accollare ulteriore debito alle future generazioni. Che ci piaccia o meno (e a noi non piace sicuramente), le tasse universitarie attuali sono pagate dalla generazione dei genitori, che per questa via restituisce intergenerazionalmente una parte dei benefici che ha ottenuto da un welfare poco equo.

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IL CONTRIBUTO EQUO E SOSTENIBILE

Che le tasse universitarie italiane siano troppo basse è già stato sostenuto su questo sito (vedi per esempio Checchi e Rustichini). Il problema è particolarmente impellente in un contesto di costante riduzione del Fondo di finanziamento ordinario, che pone un tetto massimo alla contribuzione e che viene sistematicamente sfondato dagli atenei. Tuttavia, il nodo è squisitamente politico, e come tale deve essere affrontato. Qual è il contributo studentesco ai bilanci universitari che si ritiene socialmente equo e sostenibile? Attualmente la contribuzione universitaria sul totale delle entrate incide per il 12,9 per cento a livello nazionale. (5) Noi riteniamo che una soglia ragionevole che possa essere assegnata agli atenei come punto di riferimento sia quella del 20 per cento del totale delle proprie entrate: stiamo parlando di quasi raddoppiare le attuali tasse universitarie. (6) D’altronde, anche gli altri paesi europei sembrano molto restii a seguire la Gran Bretagna sul terreno dell’innalzamento delle contribuzioni e, anzi, alcuni vanno in direzione diametralmente opposta. (7) Né la contribuzione nelle Ivy league universities americane raggiunge soglie di questa entità: nelle università di Harvard, Princeton e Yale le tasse universitarie (tuition fees) hanno un gettito (al netto di degli interventi di sostegno allo studio – financial aid) che copre rispettivamente l’8,3 per cento, il 7 per cento e l’8,9 per cento del totale delle spese.
All’interno delle università ci deve essere spazio anche per i prestiti d’onore e per corsi di eccellenza che possono costare più di quelli standard e quindi richiedere prestiti d’onore. Se l’opt out parziale per alcuni corsi può apparire opzione ragionevole in linea di principio, ci sembra che il sistema proposto per la sua complessità e novità sia più adatto a un opt out completo di interi atenei, per esempio alcuni politecnici. Ma allora ci chiediamo se davvero sia desiderabile una riconfigurazione del sistema universitario italiano a macchia di leopardo, dove alcuni atenei, pur di origine pubblica, si muoverebbero in contesti di quasi mercato, mentre altri continuerebbero a essere sovvenzionati in massima parte dallo stato. E quanto conterebbe nella scelta la composizione sociale dei territori in cui si trovano gli stessi atenei?
L’innalzamento generalizzato non può essere il nuovo sistema di finanziamento standard di un sistema universitario che solo oggi, dopo decenni, ha raggiunto percentuali di iscrizioni “europee”, con il 70 per cento dei diplomati di scuola superiore che vi si iscrive e il 50 per cento che si laurea, e che quindi si avvia a migliorare per via “naturale” il problema della redistribuzione perversa. Oggi davvero l’università italiana è alla portata di tutti, ricchi e poveri, e un moderato aumento delle tasse è giusto e dovrebbe essere benvenuto anche dagli studenti di famiglie più povere: l’aumento delle tasse serve a far contribuire di più chi può. Il passaggio a un sistema di prestiti d’onore generalizzato rischia invece di farci perdere quel poco che abbiamo ottenuto in questi dieci anni: l’accesso generalizzato all’università, che è forse il frutto migliore della riforma del 3+2.
Né vale a nostro parere l’idea di lasciare gli atenei liberi di fissare i livelli contributivi che vogliono, se non entro limiti ragionevoli, dal momento che percepiscono il contributo pubblico. Si persegue per questa via un obiettivo giusto (la differenziazione di sistema) con uno strumento sbagliato. La competizione tra gli atenei va stimolata con altri mezzi, tra cui quello principe è la distribuzione incentivante dei fondi pubblici.

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(1) NOTA SU FESTIVAL TRENTO
(2)
Vedi Sole-24Ore del 26/11/2011 – ripreso in Scienzainrete – saggio completo qui
(3) La domanda era “Le si prospetta l’opportunità di acquistare un titolo che, domani stesso, con uguale probabilità varrà 10 milioni o zero. Lei, quanto sarebbe disposto a pagare, al massimo, per acquistare questo titolo?”
(4) Ma anche questo è a rischio – si veda l’articolo di Huffington Post qui
(5) È la media tra il 15,3 per cento del Nord-Est e il 10,3 per cento delle Isole – tabella 6.8 dell’undicesimo rapporto Cnvsu.
(6) Si noti che non stiamo prendendo una soglia in riferimento al Ffo, ma in riferimento al totale delle entrate. In questo modo, quando anche l’Ffo calasse, le università avrebbero un incentivo a cercare fonti alternative di finanziamento per non essere costrette a ridurre le tasse universitarie (come oggi dettato dal Tar lombardo per l’ateneo pavese, che ha superato la mitica soglia del 20 per cento dell’Ffo).
(7)
Si veda in proposito il Cesifo database on university tuition – pag. 56.

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LA RISPOSTA AI COMMENTI

14 commenti

  1. riccardo

    Le tasse universitarie sono in Italia mediamente più alte che nel resto d’Europa. Se escludiamo UK (l’unico caso che si cita abitualmente), Francia, Germania e Spagna pagano tasse più basse (e si si guardassero a PPP, molto più basse). L’università italiana è sotto finanziata a causa del disinteresse dell’attore pubblico e non delle basse tasse universitarie. Il tetto del 20% è stato poi regolarmente aggirato dagli atenei, che sono stati infatti recentemente sanzionati per questo.

  2. Cristiano Grosa

    Mi permetto di dissentire sulle tesi di fondo dell’articolo, e argomento sulle principali contestazioni mosse a Ichino-Terlizzese: avversione al rischio: se un diplomato non è in grado di attribuire un valore significativo, anche se incerto, all’investimento in formazione universitaria, i casi sono due:
    a) non ha le basi culturali per capire l’argomento: mi pare che sia una carenza intellettuale talmente grave per un diplomato maggiorenne che non è giustificabile per chi ambisce ad accedere ad una università, per cui è giusto che ne rimanga fuori
    b) giudica che il valore atteso della formazione sia inferiore al costo: quasta considerazione, più che legittima, tende ad essere superata con il coinvolgimento degli studenti nel bilancio universitario, attraverso
        b.1 l’aumento della qualità della formazione per via del meccanismo competitivo (chi paga pretende qualità, le università scadenti non avrebbero un numero sufficiente di studenti se fosse abolito il valore legale del titolo di studio)
        b.2 l’aumento del premio retributivo per i laureati, che tornerebbe a livelli più vicini al resto del mondo se la qualità fosse percettibilmente migliore

  3. michele

    Con la crisi attuale c’è solo da spettarsi che i premi di laurea scendano ancora..ha fatto scalpore negli USA una dottoressa in legge che ha vinto una causa per truffa contro l’università per aver falsificato i dati sulla percentuale di laureati occupati, sul reddito, e i tempi per trovare un primo impiego dopo la laurea. Ottenendo un risarcimento per i debiti che aveva contratto. si prenda ad esempio il Politenico di Milano. Da anni, parlo almeno da prima del lontano 2000, fermo restandil rispetto del 20% massimo derivante dalle tasse universitarie, oltre il 70% del bilancio per didattica ricerca derivava da finanziamenti di aziende private. Se l’ateneo statale ha una sua autonomia gestionale, già oggi può fare un significativo ricorso al capitale privato. e più degli studenti coi prestiti d’onore, è giusto che siano le aziende a finaziare la nostra università, visto il rapporto sracciato qualità/prezzo dei laureati italiani. Per quanto siano peggio dei coleghi europei in tanti indicatori (cosa da verificare), è indiscutibile che costino e siani pagati meno che in qualunque altro Paese. E dove la qualità esiste, non si tirano indietro dal farlo

  4. Marcello Santagostino

    Non mi sento di valutare il discorso dei prestiti d’onore, ma mi sconcerta l’affermazione che il frutto migliore della riforma 3+2 sia l’accesso generalizzato all’Università. E’ la prima volta che sento una valutazione positiva di questa sciagurata riforma che produce “laureati” triennali che nessuno vuole, e costringe quindi a un ciclo di 3+2 anni +1 per la tesi triennale, in totale 6 anni anche per le lauree che prima ne richiedevano 4. Che poi l’accesso generalizzato all’Università sia di per se’ un valore non mi sembra affatto provato. Gli autori hanno un’idea di quanti neolareati, anche con laurea magistrale sono senza lavoro o in lavori precari e senza futuro?

  5. Carmen

    Questo Paese che non è capace di far pagare le tasse a ciascuno non può introdurre proporzionalità per ogni servizio. Chi dichiara integralmente redditi contribuisce già per quanto dovuto. E’ chi evade che verrebbe aiutato una volta in più.

  6. Andrea B

    Ma se il laureato non raggiunge il livello salariale per restituire il prestito?! Ad oggi molti neolaureati vengono assunti per brevi periodi di tempo durante l’anno e non è stabile il reddito da un anno all’altro.! Ho difficoltà a capire in quali momenti dovrebbe restituire il prestito. Solo in quei mesi in cui il reddito è superiore ad una certa somma? Ringrazio chiunque voglia rispondere.

  7. michele

    Non credo che sia un fallimento la nostra riforma del 3+2, casomai è un fallimento il nostro sistema di inseriemento dei giovani nel mercato del lavoro. Il 3+2 esiste in tutta Europa e negli Stati Uniti da anni, con successo per numero, tempi di attesa e retribuzione media dei neolaureati occupati. Il problema è il dottorismo che abbiamo dentro, il sovrannumero di laureati rispetto all’offerta, che permette alle aziende di prentendere e trovare dei mezzi scienziati, con lingue+master+stage+erasmus all’estero o un dottorato, per 20.000 euro di stipendio. Ho cambiato diversi lavori da impiegato.. e per usare Office, la posta, project e Internet, un diploma tecnico o una triennale è più che sufficiente. Le competenze medie che servono sono conoscenze base di informatica, diritto, bilancio e contabilità, programmazione, l’inglese e l’informatica. Forse sarebbe utile tornare a una scuola superiore dura e selettiva, a restituire un valore di mercato al diploma.

  8. Luca Moneta

    Concordo nella constatazione che le tasse universitarie sono troppo alte. Andrebbe però ricordata un’anomalia tipicamente italiana, ovvero la vasta popolazione universitaria fuori corso, che nel sistema attuale può addirittura beneficiare di un contributo agli studi molto più basso degli studenti in corso. Le famiglie più povere non possono permettersi di mantenere agli studi i propri figli a tempo indeterminato, pertanto privilegiare i fuori corso significa bloccare qualsiasi discorso di tipo meritocratico. Oltre a questo, chi scrive potrebbe anche interrogarsi sul valore aggiunto che una facoltà come Scienze Politiche – con la moltiplicazione degli insegnamenti e l’assenza di una reale apertura sul mondo, a partire dai corsi ben pagati per essere impartiti in inglese da docenti italiani – attualmente rappresenta e su quello che potrebbe rappresentare per i giovani d’oggi.

  9. lubetano

    E’ vero che in Italia le tasse sono più in media alte di quelle di altri paesi europei, ma ciò dipende in gran parte dal fatto che in questi stessi paesi il finanziamento pubblico al sistema universitario è molto più elevato di quello italiano, sicché le università italiane sono state costrette ad elevare le tasse per compensare (in minima parte) la scarsità (comparata) di fondi pubblici. Inoltre la situazione delle università italiane è molto diversificata: le università settentrionali fanno pagare tasse spesso superiori a quelle previste dalla legge, mentre le università meridionali applicano “tariffe” molto più basse, persino inferiori a quelle che sarebbe lecito aspettarsi in base alle differenze nei pil regionali. Infine, se è vero che i ranking internazionali sono dominati dalle università dei paesi anglosassoni, dove le tasse universitarie sono generalmente più alte di quelle dei paesi europei, mi chiederei se ciò non sia dovuto (almeno in parte) al fatto che in quei paesi il denaro speso per l’istruzione universitaria sia considerato dalle famigle un investimento fondamentale in capitale umano e non soltanto un costo fastidioso oppure un diritto assistenziale.

  10. alessio fionda

    C’è un tema che non deve sfuggire agli autori ossia il tema dei tempi della laurea. sono troppo lunghi e sono troppo lunghi, mediamente, non tra gli studenti lavoratori ma tra quelli che non lavorano, la differenza nel trovare occupazione con la laurea triennale la fa anche questo. ogni corsi di laurea deve differenziare le rette anche in base allo status “studente non lavoratore frequentante” – studente lavoratore non frequentante o frequentante part-time (la soglia degli 8 mila euro lordi l’anno da reddito da lavoro prevista per lo status di disoccupato potrebbe essere una buona base per differenziare). gli studenti non lavoratori di norma, devono frequentare e se vanno fuori corso paghino di più, non di meno come avviene oggi. E’ poi assolutamente necessario che ogni facoltà (o istituto-dipartimento ecc..) renda noti con larga pubblicità i dati su come sono distribuiti gli studenti nelle fasce ISEE ed ISEEU o di reddito e altri dati come la provenienza geografica e la professione dei genitori (che dovrebbe essere un dato obbligatorio da inserire all’atto di iscrizione) ci si accorgerebbe magicamente che intere facoltà pubbliche sono frequentate solo da studenti abbienti

  11. bob

    Prima di tutto siamo evasori,facciamo il lavoro in nero,non contribuiamo al bene del Paese. Mia moglie ogni mese acquista la carta igienica per la scuola, io periodicamente regalo carta fax ai Carabinieri ( con molto piacere), paghiamo l’autostrada, l’immondizia,la sanità,i parcheggi sotto casa, i libri per la scuola, etc, etc. Ma siamo proprio noi quelli che non fanno il bene per il Paese! “Dovrebbe essere ben accolto anche dagli studenti di famiglie più povere perché serve a far contribuire di più chi più ha.”

  12. Ferdinando Ferri

    Probabilmente lei non ha figli, o se li ha studiano all’estero. Qui in Italia formare un architetto costa sui 1800 euro l’anno per 5 anni, non mi sembra poco. In questa cifra non è compreso assolutamente niente, se non lo stipendio dei docenti/assistenti/bidelli, ecc e le spese fisse della struttura (riscaldamento, luce, ecc). Mio figlio in 5 anni non ha mai visto uno strumento di misura, o un laboratorio, per esempio. Non parliamo poi di uno studentato, per chi viene da fuori. E comunque facciamo un conto. A Ferrara, solo alla facoltà di architettura sono in 700 circa: per 1800 fa 1.260.000 euro l’anno di entrate. Per pagare stipendi e luce secondo me è abbastanza, non trova? Certo, visto che si parla anche di riforme degli ordini professionali, io andrei a curiosare per capire quanto prende un docente, che spesso non è neanche presente come dovrebbe in facoltà, rimanda le sessioni di esame, o le anticipa, o fa fare tutto agli assistenti, perchè oltre alla cattedra ha anche l’attività professionale, per esempio. Perchè non parlate mai delle cause dei costi? immagino sia più faticoso indagare, però sarebbe più professionale, e da un giornalista uno se lo aspetta.

  13. stefano

    A me risulta l’esatto contrario, ovvero che in Italia le tasse universitarie siano tra le più alte d’Europa, non certo basse! Anche considerando poi che molti studenti pagano fior di soldi (e spessissimo in nero) una stanza magari in condivisione, non ci vuole un genio a prevedere che i già scarsi laureati italiani siano destinati a diminuire ulteriormente.

  14. Luca Colombo

    Giungo in ritardo ma provo ugualmente a dire la mia. Due osservazioni banali. Per fortuna gli autori prendono le distanze dall’aberrante ipotesi del prestito d’onore. Tuttavia mi pare che si continui a dar per scontato, senza problematizzarlo, l’assunto che le spese per l’istruzione superiore siano un investimento personale. Si tratta invece di un investimento collettivo, perché avere gente più istruita e competente è un vantaggio per tutta la società. Questo è il motivo per cui è giusto che l’istruzione sia pubblica e sovvenzionata dallo Stato. Capisco che su queste pagine dominate dal Bocconi-pensiero sia difficile cogliere questo punto di vista, ma esistono altre forma di contabilità oltre a quella meramente economico-finanziaria. In secondo luogo il ragionamento sull’aumento delle tasse è svolto senza alcun riferimento al contesto generale. Ovvio che nessun pasto è gratis e che è necessario essere realisti, ma quando si spendono miliardi di euro in armamenti certi discorsi sull’aumento delle tasse universitarie suonano stonati. (Abbiamo appena finito di bombardare la Libia, tra tutti gli accademici che discettano di spending review ce n’è uno che si ponga il problema?)

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