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IL CAPITALE UMANO? SI FA COL PRESTITO

Ringraziamo Daniele Checchi e Marco Leonardi per il loro commento critico (vedi “All’università col prestito d’onore? No, grazie.”) alla nostra proposta (vedi gli articoli “Una laurea in prestito” e “Un prestito con molti vantaggi”). Ecco le nostre risposte, punto per punto, alle loro obiezioni. In alcuni casi sembra quasi che Daniele e Marco non abbiano compreso (senz’altro per nostra colpa) parti importanti di quello che abbiamo scritto.

SE I POVERI EVITANO I RISCHI

La prima obiezione che ci viene mossa è che gli individui hanno gradi di avversione al rischio diversi (verosimilmente maggiori quanto minore è il reddito e la ricchezza) e che questo è un forte deterrente nei confronti di un investimento dal rendimento incerto come quello universitario. Non potremmo essere più d’accordo! È proprio per questo che abbiamo proposto dei prestiti il cui rimborso sia proporzionale al reddito, invece che prestiti di tipo tradizionale. (1)
In particolare, nell’appendice mostriamo che con prestiti condizionati al reddito la scelta di investire in istruzione domina quella di non farlo, indipendentemente dal grado di avversione al rischio (ovviamente sotto l’ipotesi che l’investimento in istruzione sia efficiente, cioè che generi un reddito superiore al costo). Con un prestito income contingent il rimborso è basso o nullo proprio quando è più costoso per lo studente rimborsarlo, ed è questa caratteristica che lo rende attraente in presenza di avversione al rischio. E dal momento che la conclusione vale per qualunque grado di avversione al rischio, il fatto che questa sia diversa tra individui, o che quelli più poveri siano più avversi, semmai porta a concludere, come scriviamo nel nostro saggio, che questi prestiti avranno un effetto maggiore sui poveri che non sui ricchi. Consideriamo un investimento in istruzione con un rendimento  maggiore del suo costo. Senza prestiti condizionati al reddito, il ricco lo farà lo stesso perche è poco avverso al rischio. Il povero invece, proprio per la maggiore avversione al rischio, non lo farà. L’introduzione dei prestiti condizionati sarà sostanzialmente irrilevante per il ricco, mentre consentirà al povero di effettuare un investimento vantaggioso.
Forse però l’obiezione di Daniele e Marco è più radicale: gli individui più poveri e con meno istruzione non sono proprio in grado di comprendere il vantaggio associato al prestito income contingent, se ne terrebbero alla larga “a prescindere”, come Totò. Può essere. Con razionalità limitata e regole euristiche di comportamento la nostra conclusione salta, così come salta un bel pezzo dell’analisi economica. Ma ci sembra che l’onere della prova sia su chi sostiene che la razionalità non sia l’ipotesi appropriata, e la tavola presentata da Daniele e Marco non basta a fornirla. Le persone (di ogni classe sociale) comprano case con mutui, macchine con prestiti, fanno investimenti finanziari di vario tipo: difficile pensare che tutto questo accada senza capire che cosa ci sta sotto. In ogni caso proviamo nel concreto, in via sperimentale, e saranno i dati a dirci chi ha ragione.
La seconda obiezione è che il rendimento dall’istruzione in Italia è basso, e quindi non giustifica un investimento rilevante (e dal rendimento incerto). Anche qui, siamo completamente d’accordo, ma ci sembra che la risposta sia nel tentare di alzarlo, migliorando l’offerta formativa (attraverso una combinazione di maggiori risorse, maggiore autonomia, maggiore pressione concorrenziale), invece di accontentarsi di ampliare l’accesso a un’università troppo spesso di bassa qualità. Daniele e Marco sanno benissimo, perché lo hanno scritto nei loro lavori, che un’università di bassa qualità ma gratis per tutti serve a poco. La nostra proposta, che unisce ai prestiti un aumento significativo delle tasse universitarie solo per quei corsi in grado di costruire in modo credibile un’offerta formativa migliore, mira invece ad alzare il rendimento dell’istruzione terziaria.

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CHI PAGA? IL CONFLITTO INTERGENERAZIONALE

La terza obiezione è che caricare sui giovani di oggi una parte maggiore del costo di fornire loro un’istruzione superiore è ingiusto, poiché questi giovani sono già oggetto di una pesante redistribuzione intergenerazionale a loro sfavore. Far pagare l’istruzione terziaria alla generazione dei genitori è un modo per bilanciare, sia pure parzialmente, questo squilibrio tra generazioni. Tuttavia in linea di principio(e crediamo che Daniele e Marco siano d’accordo su questo) è del tutto sensato e in linea con criteri di razionalità ed efficienza economica che coloro che si approprieranno di una buona parte dei benefici dell’investimento in istruzione superiore siano chiamati a sopportarne in misura rilevante i costi. L’obiezione però è: si, ma non cominciamo proprio adesso, questa generazione è già fin troppo penalizzata. Come genitori di ragazzi che appartengono a questa generazione penalizzata non siamo insensibili a questo argomento. D’altra parte, c’è sempre un buon motivo per rinviare il cambiamento, e forse questo governo può essere, meno di altri che lo hanno preceduto e che lo seguiranno, preda di “miopia elettorale” e quindi più disposto a prendere in considerazione soluzioni nuove a problemi antichi. E poi, perché non dovremmo pensare che la generazione corrente dei padri e delle madri, che si vedrebbero sgravati da una parte del costo di finanziare l’istruzione superiore dei propri figli, non trasferiscano comunque a loro quel “risparmio”? 

La quarta obiezione è che la nostra proposta di aumentare in modo generalizzato e rilevante le tasse universitarie avrebbe l’effetto di ridurre l’accesso, specialmente per i più poveri, e invertirebbe quindi la tendenza a colmare il divario nella quota dei laureati con gli altri paesi. A riprova di questo Daniele e Marco citano la recente esperienza inglese, con la forte caduta delle immatricolazioni seguita all’aumento delle tasse universitarie. Su questo abbiamo varie cose da dire. In primo luogo, noi non proponiamo aumenti generalizzati delle tasse universitarie. Pensiamo ad aumenti solo per alcuni corsi di eccellenza, e differenziati per livello di reddito dei genitori: aumenti che mediamente portino 7500 euro per studente-anno nelle università e per i corsi che partecipano allo schema, con variazioni piccole o addirittura nulle per i meno abbienti, e maggiori di 7500 euro per coloro che se lo possono permettere. In secondo luogo, l’obiettivo di aumentare l’accesso all’università ha senso solamente se accoppiato con quello di garantirne (e, secondo noi, migliorarne) la qualità. Perseguire il primo a discapito del secondo ci farebbe salire in qualche graduatoria Ocse, ma non migliorerebbe le prospettive reali di crescita del paese e le condizioni di vita dei nostri ragazzi. In terzo luogo, proprio perché proponiamo di intervenire in modo selettivo e in via graduale, la nostra proposta è molto diversa da quella recentemente introdotta in UK, dove l’aumento delle tasse universitarie è stato generalizzato e soprattutto non differenziato in base al reddito della famiglia d’origine: queste due caratteristiche, con l’aggiunta della grave fase recessiva potrebbero spiegare il calo di iscrizioni del 15% in UK; in Australia, negli anni ’90, in corrispondenza di una trasformazione simile, non si è verificato alcuna flessione delle iscrizioni, né un peggioramento delle condizioni di accesso per gli studenti più poveri. Un recente lavoro di Ian Walker conclude, sulla base di stime per le diverse discipline, che il combinarsi di tasse maggiori e  prestiti ha sostanzialmente lasciato invariati i rendimenti interni dell’istruzione in UK. L’effetto osservato per quest’anno potrebbe essere soltanto congiunturale. E comunque le iscrizioni sono ancora aperte nelle università inglesi! Infine non pensano Daniele e Marco che possa essere utile alle università italiane finanziarsi facendo pagare il costo pieno dell’istruzione agli studenti stranieri, offrendo però loro un’istruzione di qualità, come regolarmente accade per esempio nelle università del Regno Unito? In Italia attualmente non è possibile. La nostra proposta lo consentirebbe.

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UNA SPINTA DAL MERCATO

La quinta obiezione è che la nostra proposta mira a costruire delle “macchie di eccellenza”, piuttosto che un generalizzato innalzamento della qualità della nostra università. È vero, pensiamo che una strategia di piccoli passi, con alcuni atenei e corsi di laurea che sperimentano e costruiscono un’offerta formativa migliore, da allargare successivamente quando si sia verificato che funziona, possa essere più efficace di un “grande piano” che coinvolge tutti allo stesso momento; e crediamo anche che sia opportuno concentrare le risorse per costruire e rafforzare i segmenti in cui abbiamo dei “vantaggi comparati”, piuttosto che distribuirle in modo uniforme su tutti. Anche su questo, peraltro, ci sembra che Daniele e Marco concordino. Ma allora perché va bene una differenziazione basata sulla “distribuzione incentivante di soldi pubblici”, e non una che lascia alle gambe e alla testa degli studenti la responsabilità di portare maggiori risorse alle università e ai corsi migliori? Noi non proponiamo di abolire la prima: è un ingrediente importante, e crediamo che l’Anvur stia muovendosi bene. Ma pensiamo che un aiuto “di mercato” non guasterebbe. 
Detto questo, riconosciamo che tutta la questione è controversa, e coinvolge la natura fondante e fondamentale dell’istruzione superiore in una società moderna: luogo di formazione della classe dirigente e di produzione dell’innovazione, o luogo di costruzione dei diritti di cittadinanza e dell’identità sociale delle nuove generazioni? Il tema è sul tappeto.

 

(1) Vedi nel documento Eief “Un sistema di prestiti per finanziare gli studi universitari in Italia“. La Sezione 2.3 (Incertezza dell’investimento in istruzione e avversione al rischio), la Sezione 2.4 (Come ridurre con un prestito gli effetti dell’incertezza e dell’avversione al rischio) e l’Appendice (Scelte di istruzione in condizioni di incertezza) trattano esattamente di questo.

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I CONTI SUGLI INCENTIVI ALLE IMPRESE *

  1. Giacomo

    Trovo triste la risposta di Terlizzese, soprattutto quando si aggrappa alla dimostrazione nella fantomatica appendice ed all’onere della prova circa la razionalità degli individui. In particolare, la tristezza emerge osservando l’incapacità di argomentare e fare proposte che non sembrino goffamente uscite dal Mas-Colel, Whinston e Green e, inoltre, l’utilizzo di un’ipotesi, quella del premio di laurea salariale, che è palesemente sotto accusa. Infine, sempre triste è l’argomentazione secondo cui le persone non sono stupide e, pertanto, l’utilizzo dell’ipotesi di piena razionalità va benone. Penso che Kahneman e Tversky&Co, abbiano mostrano chiaramente il perchè i comportamenti degli individui si allontanino da quelli pienamente razionali.

  2. Marco Viola

    Ichino e Terlizzese vanno sicuramente ammirati per la loro caparbietà: rispondono ad ogni critica che gli viene esposta. Peccato che le risposte dimentichino sistematicamente alcuni elementi, ad es.: (1) non basta la bacchetta magica della parola “qualità” per migliorare l’occupabilità dei laureati italiani in un mercato del lavoro come quello italiano, caratterizzato da un tessuto di PMI a basso contenuto di innovazione. Da un punto “economico” mi pare più utile lavorare sull'”appetito” del mercato del lavoro per i laureati qualificati (DOMANDA) che “aumentare la qualità” di laureati che sembrano non interessare a nessuno (OFFERTA). (cfr. i dati Almalaurea). (2) la retorica dell'”università gratuita ma di bassa qualità” andrebbe fondata e non ripetuta, a meno di non voler fare “chiacchiere da bar”. (3) ammesso e non concesso che gli studenti si appropriebbero davvero di buona parte dei benefici dell’HE, si dimentica sistematicamente di rilevare l’utile SOCIALE dell’investimento in HE, nella DIDATTICA, RICERCA, III MISSIONE. (4) anche in Inghilterra non ci si aspettava che tutti gli atenei aumentassero al massimo le tasse. Eppure l’hanno fatto. Perché in Italia dovrebbe essere diverso?

  3. Luca Colombo

    Concordo con Marco, è quasi commovente la caparbietà con cui Ichino and C. inisistono con la proposta dell’indebitamento degli studenti come soluzione ai problemi dell’università. Però: primo, la scarsa qualità dell’università italiana è tutta da dimostrare: a ben vedere, la scarsa qualità si annida soprattutto nelle facoltà non scientifiche (giurisprudenza in primis) dove i professori invece di fare ricerca o buona didattica sono distratti da incarichi extra universitari molto ben retribuiti. Qualcuno si prenda la briga di seguire il dibattito tra Sylos Labini e Ichino sul tema delle tasse universitare e non avrà difficoltà a capire quale delle tue posizioni ha solidità scientifica. Secondo: insisto, questi bocconiani hanno una visione mercificante e individualista della società: la spesa in istruzione è un investimento collettivo, non una scommessa personale sul ritorno economico che frutterà al singolo individuo. Ragionare in questi termini falsa tutta l’impostazione del problema.

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