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DOVE PORTA LA RIVOLUZIONE DEL MERITO

Il governo Monti ha in agenda un capitolo delicatissimo, quello della riforma dell’università. Se realizzato, il progetto produrrà esiti davvero radicali. Ne spiegava il significato Pietro Manzini su questo sito. Il senso della riforma è essenzialmente uno: l’eliminazione del valore legale del titolo di studio.

RICONOSCERE IL MERITO

L’argomento che giustifica la riforma è che l’attuale situazione mortifica il valore del singolo studente e dell’ateneo, i quali non hanno incentivi a essere migliori visto che il loro sforzo è giudicato alla stessa stregua di quello fatto da studenti e atenei mediocri. Con l’eliminazione del valore legale del titolo di studio valutare gli atenei diventerà necessario e questo darà loro lo stimolo per operare al meglio. La certificazione della qualità è essenziale per associare il titolo di studio all’impegno degli studenti e dei docenti. Come si intuisce è un’intera filosofia, un intero sistema che viene cambiato. Il modello di riferimento è quello americano che fin qui ha funzionato, anche se, come hanno messo in evidenza perfino i rettori dei grandi atenei, con la crisi economica (e il taglio drastico delle borse di studio) si sta rivelando più propenso a selezionare quegli studenti che sono economicamente avvantaggiati (quando non li indebita per la vita). Ma sul principio indicato dal governo Monti non si può non essere d’accordo: riconoscere il merito, incentivare a perseguirlo, punire chi lo scimmiotta senza eguagliarlo, premiare chi lo riconosce.

TUTTO CAMBIA

Vorrei proporre uno scenario immaginario a partire da questa filosofia per farne comprendere la portata e la difficoltà e i tempi lunghi di attuazione. Prendiamo un ateneo statale qualunque. Per operare secondo i principi della nuova proposta di riforma, deve poter usare lo stipendio dei docenti come arma di punizione e stimolo, legandolo direttamente alla produzione, scientifica e accademica. Una voce importante sullo stipendio dovranno averlo anche i direttori di dipartimento e gli studenti perché conoscono direttamente il rendimento dei singoli docenti. Nel caso della qualità delle pubblicazioni, occorrerà che ogni casa editrice e ogni rivista accademica sottoponga i manoscritti in arrivo a lettori anonimi, al giudizio dei quali la direzione della casa editrice o della rivista deve attenersi. Occorrerà cioè che la valutazione sulla qualità sia affidata a meccanismi formali, non più dipendente dai giudizi soggettivi di preferenza, di cordata, di scuola. Una rivoluzione etica, poiché è evidente che chiedere a un ordinario di cessare di ragionare come naturalmente ha fatto per tutta la vita non è impresa semplice.
E non finisce qui: si prevede che ogni docente abbia un contratto individuale con l’ateneo, e che solo lui o lei (e l’amministrazione) ne conosca l’ammontare; che ogni anno lo stipendio possa o restare fermo o alzarsi a seconda della valutazione complessiva della produzione del docente. Insomma, la fine del valore legale del titolo di studio prevede che gli atenei ragionino e operino in tutti i settori secondo la logica del “mercato delle idee”. Ma occorre soprattutto che il denaro segua il merito – una faccenda che è tutt’altro che automatica e certamente non indipendente dal contesto culturale. L’Italia non è proprio un paese dall’etica protestante.
Occorre poi che i docenti diano il loro tempo (molto) alla formazione degli studenti, e che l’ateneo pubblichi ogni anno un rendiconto di come e dove piazza i suoi laureati. Un docente che non riesce a piazzare i suoi studenti contribuisce a dare un cattivo giudizio del suo dipartimento e del suo ateneo. Quindi controlli annuali dei piazzamenti: i quali, anche in questo caso, non saranno ottenuti per ‘conoscenze’ e cordate di amici di cattedra o famiglia, bensì per valore, poiché ovviamente non conviene a nessuna azienda o università assumere chi è “allievo di” ma senza merito.
Per concludere la storia di questo ateneo immaginario, con questa proposta di riforma il governo Monti può innescare un processo virtuoso che emancipi la nostra università dalla cattiva fama che si porta addosso. Non sarà facile né automatico, poiché anche il meccanismo che ragiona per costi e benefici opera meglio o peggio in relazione all’ambiente umano, e non neutralizza automaticamente furbi, furbetti e corrotti. Il rischio che i “figli di” si facciano largo nel meccanismo degli incentivi c’è, se nel frattempo non si arma la riforma con borse di studio per merito, se non si istituiscono commissioni per reclutamento degli studenti che valutino separatamente il merito e la condizione economica di ciascuno di loro. Se, insomma, tutto un universo sociale, culturale e normativo non si ri-orienta in fretta per dar vita a un sistema universitario virtuoso. Come non rammentare che i giacobini fecero grossi guai quando si ostinarono di imporre un modello di libertà ignorando l’elemento umano e sociale?

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SE ALL’UNIVERSITÀ MANCA PROFUMO DI SELEZIONE

  1. Luigi Oliveri

    In astratto, non si può non mostrare tutto l'interesse da dedicare a progetti di maggiore valorizzazione del merito e dell'efficacia dell'insegnamento universitario, al netto dei problemi di accesso alle università di eccellenza, dovuti al censo.
    Nel concreto, per affrontare il problema a 360 gradi, non si deve dimenticare che la laurea per il settore privato non ha alcun valore legale. Le aziende scelgono i propri dipendenti come credono e, purtroppo, sia per la mancanza di un sistema di qualificazione dei titoli di studio, sia per "prassi", sia per la distanza esistente tra l'accademia e gli effettivi bisogni delle aziende, la laurea non riveste un peso particolarmente adeguato, ai fini delle scelte degli imprenditori.
    Se, allora, la riforma, serve per selezionare in modo più flessibile i quadri dirigtenti della pubblica amministrazione, occorre valutare molto bene se valga la pena. Basterebbe già oggim applicare l'articolo 28 del testo unico sul lavoro pubblico, che prevede per l'accesso alla dirigenza concorsi pubblici per soli esami, senza valutare il peso del titolo di studio, ma solo guardando al merito e alle capacità. Purtroppo, molto spesso si continuano a fare concorsi anche per titoli, che col "merito" appunto non sempre si conciliano.

  2. Alessandro Figà Talamanca

    Ma quale principio ha indicato il Governo Monti? Nella bozza di articolo, poi stralciato, pervenuta in Consiglio dei Ministri, non c’era traccia, a quel che mi risulta, di proposte di valutazione dei titoli di studio delle diverse sedi. C’erano solo “criteri e principi” ispiratori di un futuro regolamento che si proponeva piccoli ma importanti interventi tesi a favorire la concorrenza tra laureati anche in discipline diverse. Che poi il sistema americano preveda una valutazione complessiva dei titoli di studio mi sembra incerto: vale di più un BA di Berkeley o di Pomona College? Secondo “il mercato” vale più quello di Pomona College, dal momento che le rette di Pomona College sono molto più costose. Ma è confrontabile il livello della ricerca dei docenti di Pomona College con quello dei docenti di Berkelet? Ricordiamo che il principale concorrente di Harvard per il reclutamento degli studenti undergraduate è stato Amherst College (cfr. J. Karabel “The Chosen”, Mariner Books 2006). Insomma importare in Italia il sistema americano non sarebbe facile.

  3. Renza Bertuzzi

    Esiste un problema che non viene mai considerato dai commentatori autorevoli ed è la “modalità” attraverso la quale si dovrebbero selezionare i meritevoli, escluso il titolo di studio. Io penso che non si possa ignorare la problematica dell’ “imperialismo” dei test. E’ noto che il superamento di esami a test per i concorsi ( si veda quello per Dirigenti scolastici) necessita esclusivamente di ottima memoria ( i test e le relative soluzioni sono diffusi prima delle prove) e di nessun ragionamento critico o preparazione specifica. Non so davvero se fissare l’ attenzione solo sul valore del titolo di studio e non sui metodi che dovrebbero sostuirsi ad un eventuale suo deprezzamento sia sufficiente…

  4. Andrea Zhok

    Nelle pagine di Nadia Urbinati ci sono diverse voragini informative relative ai problemi di una transizione dal nostro modello a quello americano. Non è qui lo spazio per soffermarcisi, ma almeno quella più macroscopica va segnalata. Sembra che l’unico modello alternativo a quello italiano sia quello americano, e sembra inoltre che la recente riforma dell’università predisponga il terreno per una mutamento nella direzione del modello americano. Tutto ciò è semplicemente falso. Se c’è un modello cui la recente riforma (sensatamente) mira non è affatto quello americano, bensì quello inglese (al netto delle recenti modifiche di Cameron), adottato anche nei paesi scandinavi. La differenza tra i due sistemi è enorme: nel sistema americano il mercato è sovrano. Detto per inciso, si tratta di un sistema che ha gravissime pecche sul piano della formazione, pecche che vengono compensate sul piano della ricerca grazie alla capacità (finanziaria) di attrarre studiosi che si sono formati fuori dagli USA. Il sistema inglese-scandinavo mette in concorrenza le università non sul mercato, ma per l’accesso a fondi di predominante provenienza statale. E qui ho finito i caratteri…

  5. carmelo lo piccolo

    Concordo pienamente con Luigi Oliveri: basterebbe applicare già la vigente normativa del Pubblico Impiego per risolvere il problema, e cioè concorsi per soli esami a prescindere dal titolo di studio posseduto. La vera selezione si crea solo “sul campo”,non all’ombra di “pezzi di carta” che funzionano solo come “barriere all’ingresso” sul mercato del lavoro e servono solo ad escludere i non laureati dalla possibilità di potere competere per un miglioramento professionale. Del resto si tratta anche di un falso problema: non credo che un geometra o un ragioniere possano “insidiare” nelle prove concorsuali un laureato “serio” in Ingegneria o in Economia, però credo sia giusto consentire loro di avere almeno la possibilità di “partecipare alla gara”, cioè di creare più concorrenza e contendibilità del “mercato del lavoro”, che è poi quello che, da Einaudi in poi, tutti i veri liberali e liberisti dovrebbero augurarsi…

  6. maurizio canepa

    Capisco che siamo in casa Bocconi, però si continua ideologicamente a proporre un modello WASP, che funziona “bene” in poche università di elite. Si creerebbero pochi centri per le elites (i nipoti di Martone, Monti, Deaglio, etc.) . Gli “sfigati” finirebbero in Università di serie B. E l’uguaglianza delle condizioni di partenza? Allora, meglio il vecchio modello tedesco. Cerchiamo di valorizzare le nostre scuole normali, per esempio! In Italia si gira intorno al vero problema: abbiamo solo bisogno di più onestà e serietà, a tutti i livelli. Tutto il resto verrà di conseguenza.

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