In Italia, gli studenti universitari fuoricorso sono una quota pari al 40 per cento degli iscritti. È un fenomeno dovuto a diversi fattori: dal sistema di regole di accesso e di prosecuzione dell’università alle modalità di finanziamento degli atenei, ai rendimenti della laurea sul mercato del lavoro. Le soluzioni, allora, dovrebbero puntare a rafforzare le attività di orientamento già negli ultimi anni delle scuole superiori, a ripensare l’impianto delle tasse universitarie e a migliorare nettamente i collegamenti fra sistema d’istruzione e mercato del lavoro.
Una peculiarità consolidata del sistema universitario italiano è la tendenza a laurearsi ben oltre la durata legale del corso prescelto, fenomeno per cui è stato addirittura coniato il neologismo fuoricorsismo. Tuttavia, solo dopo le affermazioni del vice-ministro Michel Martone che ha definito sfigati coloro che si laureano dopo i 28 anni, il fenomeno è assurto agli onori della cronaca.
Nel trattare un tema così delicato occorre però non farsi trascinare dalla tentazione di interpretare tale abitudine meramente come la conseguenza di cattivi comportamenti individuali degli studenti.
LE DIMENSIONI DEL FENOMENO
Secondo i dati forniti dal ministero dellIstruzione, gli studenti fuoricorso rappresentano una quota pari al 40 per cento degli iscritti e il loro numero è cresciuto costantemente nel periodo 1969-2009 (figura 1).
Figura 1. Studenti iscritti, fuoricorso e laureati in Italia (1969-2009)
Note: La linea verticale si riferisce allanno di attuazione della riforma universitaria del 3+2.
Fonte: nostra elaborazione su dati Istat e Miur (1969-2009).
Con lintroduzione della riforma del 3+2, la quota di studenti che si laureano fuoricorso si è ridotta significativamente, passando dal 76,2 per cento del 2002 al 56,3 per cento del 2008 (figura 2), anche se tale dato è inficiato da coloro che sono passati dal vecchio al nuovo ordinamento, riuscendo così a laurearsi rapidamente.
Figura 2. Percentuale dei laureati nella durata legale e fuoricorso (2002-2010)
Fonte: nostra elaborazione su dati Miur (2002-2010).
LE CAUSE
Il fuoricorsismo è dovuto a diversi fattori, quali: 1) il sistema di regole di accesso e di prosecuzione degli studi universitari; 2) le modalità di finanziamento del sistema universitario; 3) i rendimenti sul mercato del lavoro della laurea.
La mancanza di test di ammissione (salvo rare eccezioni) permette liscrizione ai corsi universitari indipendentemente dalla motivazione e dal livello generale di preparazione acquisito; lunico requisito richiesto è infatti il possesso di un diploma di scuola superiore quinquennale. Questo scenario posticipa pertanto la selezione, con la conseguenza di rallentare il percorso di tutti. La laurea nei tempi previsti è poi scoraggiata da una serie di regole relative al superamento degli esami. Nella maggior parte dei percorsi non è necessario, ad esempio, superare tutti gli esami previsti durante un certo anno accademico per accedere a quello successivo; è possibile sostenere ciascun esame anche più volte, fino a quando non viene superato o non si raggiunge il voto desiderato; inoltre, non cè un limite di tempo massimo per laurearsi essendo stabilita solo la durata legale. Da ultimo, ma non per ultimo, il sistema universitario italiano è caratterizzato nel suo complesso da scarsa efficienza. In molte facoltà, specie nel primo anno di corso, gli studenti seguono lezioni in aule sovra-affollate, fattore che scoraggia la frequenza e che rende difficile se non impossibile linterazione tra docenti e studenti. Risulta anche estremamente carente, a causa dellinadeguato numero di docenti lofferta di classi di esercitazione/approfondimento più piccole, nellambito delle quali il lavoro dello studente potrebbe venire costantemente monitorato.
In questo contesto la politica di ridurre le tasse per gli studenti che sono iscritti oltre il periodo minimo previsto non incoraggia certo la laurea nei tempi stabiliti. (1) Inoltre, poiché i trasferimenti statali alle università, fino a pochi anni fa, erano correlati positivamente al numero complessivo degli studenti iscritti, incluso il numero dei fuoricorso, veniva meno qualsiasi incentivo da parte delle istituzioni di adottare qualsiasi misura volta a ridurre la quota di tali studenti.
Una possibile ulteriore spiegazione del fenomeno sembra infatti essere rappresentata dalle scarse opportunità lavorative per i neolaureati che, specie in alcune aree del paese, costituirebbero un forte disincentivo a completare regolarmente il percorso di studi. (2) I ridotti rendimenti dei titoli di studio universitari rappresenterebbero quindi non solo un disincentivo a investire in istruzione , ma anche un deterrente a laurearsi in tempo. Gli stessi bassi rendimenti possono essere visti come una conseguenza degli alti costi indiretti dellistruzione, strettamente legati al tempo impiegato per laurearsi. (3) Se acquisire istruzione spendibile sul mercato del lavoro richiede tanto tempo, lintera curva dei guadagni si sposta a destra e il laureato può sfruttare i maggiori guadagni per un periodo di tempo più limitato.
I RIMEDI
Dallindividuazione delle cause del fenomeno del fuoricorsismo italiano emergono possibili indicazioni di policy. Anzitutto occorre rafforzare le attività di orientamento già negli ultimi anni delle scuole superiori in modo da consentire ai giovani di individuare per tempo il percorso universitario più adatto alle loro caratteristiche. Tali misure dovrebbero poi essere accompagnate da efficaci meccanismi di regolamentazione degli accessi alluniversità. Inoltre, occorre ridurre leccessiva flessibilità nella programmazione degli esami da parte degli studenti. Sarebbe poi fondamentale intervenire sul fronte delle dotazioni di capitale fisico e umano, in modo da agevolare linterazione continua tra docenti e studenti.
Occorrerebbe poi ripensare il sistema di tasse universitarie, introducendo maggiori incentivi (o quanto meno eliminando gli attuali disincentivi) a un percorso di studi regolare.
I collegamenti fra sistema distruzione e mercato del lavoro sono ancora scarsi e andrebbero pertanto migliorati. Nonostante la progressiva diffusione dei tirocini e stage in azienda durante il percorso universitario, le attività di job placement delle università, laddove esistono, hanno ancora unefficacia limitata. (4) Tutto ciò porta a richiedere molti anni per laurearsi e un periodo non breve per trovare un lavoro.
(1) Garibaldi, P., F. Giavazzi, A. Ichino, and E. Rettore (2012), College Cost and Time to Complete a Degree: Evidence from Tuition Discontinuities, forthcoming in The Review of Economics and Statistics.
(2) Aina, C., Baici, E. and G. Casalone (2011), Time to degree: students abilities, university characteristics or something else? Evidence from Italy, Education Economics, 19(3): 311-325.
(3) Pastore F. (2011a), Fuori dal tunnel: Le difficili transizioni dalla scuola al lavoro in Italia e nel mondo, Torino, Giappichelli.
(4) Secondo lultima indagine Almalaurea, il 57 per cento dei laureati dichiara di aver svolto un periodo di tirocinio Almalaurea (2011) XIII indagine, Profilo dei laureati 2010, Bologna, Almalaurea
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carmelo lo piccolo
Articolo ineccepibile, che mette in dovuto risalto le cause del fuoricorsismo e del successivo abbandono degli studi, ma che a mio avviso non spiega il perchè dell’oggettivo sovraffolamento dell’Università, motivato dal valore legale riconosciuto alla laurea. Molti ragazzi, infatti, rimangono “parcheggiati” nelle università sostenendo uno o due esami all’anno anche perchè, oltre a iniziare a fare qualche lavoro per potere pagare tasse universitarie ormai altissine alle quali non corrispondono adeguati servizi logistici e adeguati livelli di qualità della didattica, sono indotti a reiscriversi comunque nella speranza che il conseguimento della laurea sia indispensabile per accedere più facilmente nel mercato del lavoro, ma non per la preparazione effettivamente posseduta, bensì per la semplice acquisizione del titolo. Ciò è particolarmente vero per la Pubblica Amministrazione, che si ostina a bandire i (pochissimi, per la verità) concorsi per titoli ed esami anzichè per soli esami. Il governo Monti ha avviato una consultazione pubblica sul valore legale del titolo di studio, speriamo che per un volta il buon senso prevalga sugli interessi corporativi del baronato universitario.
bruno gorini
Ci sono anche i casi di studenti fuoricorso, che dovendo contribuire al reddito famigliare ,perché orfani di uno o di entrambi i genitori ,dispongono di minor tempo da dedicare agli studi ,o che si devono mantenere lavorando , come nel mio caso orfano del padre ecc…
bruno gorini
Ci sono anche i casi di studenti fuoricorso, che dovendo contribuire al reddito famigliare , perché orfani di uno o di entrambi i genitori, dispongono di minor tempo da dedicare agli studi, o che si devono mantenere lavorando, come nel mio caso orfano del padre ecc….. sono forse gli sfigati?
Sergio Ascari
Tutto vero quello che dite. Tuttavia, insisto a credere che a tutto ciò contribuisca anche l’organizzazione dal lato dell’ “offerta”, ossia dei docenti. In Italia l’università, come in altro modo la P.A. rappresentano spesso un punto di partenza per brillanti carriere al di fuori dell’Università stessa, dalle professioni liberali al Parlamento e al Governo. A chi ha vinto un concorso da docente si garantisce il posto a vita, con aspettative a volontà, altro che rigidità del mercato del lavoro in uscita. Nel migliore dei casi i docenti si dedicano alla ricerca. La didattica per la loro carriera è solo un onere da sfangare alla meglio, Sono stato studente 4 anni in situazione fortunata, laurendomi a 23, ho fatto un master in GB e sono stato ricercatore universitario per 6 anni: è chiaro che all’estero la dedizione dei docenti alla didattica è un ‘altra cosa, e non solo in GB da quanto mi hanno sempre detto colleghi di vari paesi. Qualche anno fa uno spagnolo mi riferiva un carico didattico doppio del nostro. Se i giudizi degli studenti pesassero nei concorsi forse la didattica avrebbe più peso, e sarebbe più facile superare il circolo vizioso di un’università in cui gli studenti paga.
Marco S.
La mancanza di orientamento o riconoscimento delle proprie propensioni, ipotizzata nell’articolo, mi sembra sempre molto sottovalutata. Mi sono spesso chiesto, anche a fronte di altri articoli pubblicati su lavoce.info, come si faccia a studiare ciò che proprio non piace, che proprio non interessa. Un conto è considerare la disciplina come indispensabile per lo studio, altro conto è immaginare che si possa studiare ingegneria quando si è appassionati o “portati” per la filosofia, le scienze sociali, o la psicologia. Non riterrreste utile dedicare maggiore attenzione ai meccanismi motivazionali e di apprendimento come fattori propri di successo/insuccesso degli studi universitari? E fare o promuovere ricerca su questo? Forse per sintesi sembrate dare questa attività (orientamento) quasi per scontata, semplice. Capire bene ciò che si vuole, ciò che interessa veramente e per cui si è portati è sempre più importante quando cresce la platea degli iscritti all’Università e si crea competizione tra Università che “vendono” corsi di laurea e postlaurea. E lasciare solo al darvinismo sociale il maching tra talenti individuali e sapere potrebbe essere un errore.
Fabrizio Costa
Secondo me dalla vostra analisi mancano alcuni dati – che potrebbero apparire come soggettivi. Innanzitutto il numero spropositato di esami, di cui alcuni inutili o ripetitivi. Vi riporto a titolo esemplificativo esempi pratici che riguardano i miei studi. A ingegneria delle telecomunicazioni ho fatto: un esame di termodinamica, che nel nostro settore è TOTALMENTE inutile (serviva a dare una cattedra a un dipartimento potente); un esame di optoelettronica fatto apposta per dare una cattedra a un professore; un esame di Fondamenti di Reti di TLC, un putpurrì superficiale di argomenti esposti meglio in esami successivi. Nella specialistica vengono fatti esami estremamente specialistici, utili se vuoi fare il dottorato (lo 0.01% degli studenti?), ma superflui nel modo del lavoro: molti miei amici che lavorano sostengono di avere una cultura eccessivamente sovradimensionata alle loro esigenze. Può essere un vantaggio, oppure può essere una grande perdita di tempo per tutti. Esempi simili esistono in tutte le facoltà, da Medicina a Giurisprudenza (a cosa serve il diritto ecclesiastico nella Giurisprudenza moderna!) e spero si capisca che non si tratta della lamentela del fannullone di turno. Secondo me i motivi principali di questi “malfunzionamenti” sono 2: in alcuni casi si tratta di favoritismi fatti tra docenti e dipartimenti che devono magnà alle spese degli studenti, in altri casi si tratta banalmente di incapacità dei docenti di capire che alcuni argomenti sono ormai superflui. Il tutto condito dall’indifferenza verso gli studenti che tanto gli esami devono farli per forza e non hanno scelta.
marco
Tutte considerazioni giuste, ma penso che il problema sia più a monte; capire che l’istruzione e la ricerca non sono un costo ma servono a produrre ricchezza e introdurre nel sistema il principio della meritocrazia e del raggiungimento degli obiettivi; fin che i nostri politici si occuperanno solo di finti problemi ‘e di mettersi in tasca dei soldi non penso che la situazione possa migliorare-Bisognerebbe almeno capire che il problema esiste, cosa che non è avvenuta negli ultimi 50 anni, e aprire un dibattito tra pedagogisti economisti e grandi intellettualità per trovare risposte efficaci con idee vincenti e spese ridotte, guardando anche agli esempi esteri.
Alessandro Pagliara
Laureato in Ingegneria triennale con il massimo dei voti dopo aver intrapreso la specialistica ho rallentato sull’onda delle iniziative imprenditoriali che ho intrapreso..alcune non nego con evidenti successi. Sono fuori corso…è una colpa o un merito? Eppure lavorando nei settori di studio affronto gli esami anche se con più lentezza in maniera più approfondita e soprattutto avendo un idea forte dei contenuti su campo applicativo? Vado condannato per questo? Le mie tasse devono aumentare a dismisura?
andrea
Congratulazioni per l’ottimo articolo che affronta argomenti purtroppo dimenticati ogni giorno. Ai miei tempi (V.O.) il conseguimento della laurea dentro i termini legali avveniva in effetti entro i 10 mesi successivi alla fine dell’ultimo A.A.. Ignoro se sia ancora cosi con la riforma di Bologna (che orrore 3+2!); se lo fosse la forbice reale tra regolari e fuori corso aumenterebbe ancora, e non di poco. Considerando che in vari paesi gli studi pre universitari durano non 13 ma 12 anni, e addizionando questi 10 mesi per i “regolari”, generalmente un buon laureato si trova a mendicare lavoro in Italia, o ad affronare concorrenti due anni piú giovani, inseriti di immediato nel mondo del lavoro attraverso i contatti della propria università. E senza affrontare il discorso dei fuoricorso, come me! Osservando unicamente come il nostro Paese (non) gestisce il suo capitale umano, le prospettive future sono piú gravi di quanto mostrato dai giá cupi indicatori nellarticolo. Vogliamo o no essere un player internazionale?
luca
Dovrebbe essere ripensato l’intero sistema universitario. Non è affatto sufficiente l’orientamento, tutte le facoltà dovrebbero essere a numero chiuso. tutte, nessuna esclusa. I posti disponibili andrebbero rivalutati annualmente in base alle effettive esigenze e disponibilità del mercato; è inutile avere in un paese pochissimi laureati in ingegneria e tantissimi in legge se poi la domanda di ingegnieri è 100 volte superiore a quella di avvocati.
Silvia
Le responsabilità del fenomeno vanno ricercate anche nell’organizzazione della didattica e nella programmazione degli appelli d’esame e nelle sessioni di laurea. Prevedere un maggior numero di appelli durante l’anno per sostenere gli esami, magari attraverso una maggiore flessibilità delle regole che disciplinano la composizione delle Commissioni, aiuterebbe gli studenti a velocizzare il percorso accademico. Certamente anche una maggiore interazione con i docenti può contribuire al raggiungimento di questo risultato. Senza ricorrere a ipotesi che ritengo fantascientifiche per il nostro Paese, tipo seminari di approfondimento o laboratori, sarebbe forse sufficiente assicurare sempre la presenza dei docenti ai ricevimenti con gli studenti.
Davide
Mi domandavo se – oltre a migliorare l’orientamento studenti e i sistemi di incentivo e controllo sui docenti universitari – possa ipotizzarsi un meccanismo per velocizzare i percorsi di laurea (senza sfavorire gli studenti lavoratori). Ad esempio: ridurre di 1 centodecimo per ogni anno di ritardo il voto di partenza in sede di discussione della tesi (introducendo la possibilità di iscriversi ad ogni anno di corso come studente part time: metà tasse e solo metà esami sostenibili). Saluti dc
Vittorio Parisi
Questo elenco di cause sarebbe ineccepibile se non mancasse di alcune ulteriori considerazioni. Ai disincentivi a laurearsi in tempo vanno aggiunti:1) la tesi di laurea triennale. Da quel che so esiste solo in Italia e in gran parte dei casi occupa sino a un intero anno di lavoro. 2) L’ancora elevato numero di esami totalmente inutili nei piani di studi, spesso indice di cattedre create ad hoc e smistate tra docenti amici, parenti e amici di amici. 3) In alcune facoltà (soprattutto le umanistiche, da sempre parcheggi per fuoricorsisti) il biennio specialistico spesso diventa una ripetizione degli studi triennali. Tra i possibili rimedi non credo, infine, che diffondere e irrigidire i criteri di ammissione sia quello giusto: a Medicina, o Architettura, dove l’accesso è regolato da un test, il numero dei fuoricorso resta comunque molto elevato. La soluzione sarebbe, piuttosto, creare dei criteri di “prosecuzione” degli studi a determinati step. A uno o due anni dall’inizio degli studi, stabilire chi è idoneo e chi no a un determinato percorso, e fare in modo che gli anni già trascorsi non vengano perduti.
Vincenzi Gianni
Mi pare che nell’analisi ci si dimentichi di coloro che devono lavorare. oggi ho 64 anni e quindi non sono sospettabile di interessi particolari. quando mi laureai (fuori corso) a Padova (io risiedevo a Verona) la mia famiglia non era abbastanza povera per poter accedere all’assegno di studio ma non era abbastanza ricca per consentirmi di vivere nella sede universitaria senza lavorare.quindi suggerirei di tenere almeno dei corsi serali. L’ideale sarebbe un assegno di studio a fronte di un impegno serio. cordiali saluti
Marco S.
Reintervengo sollecitato dagli altri. Ciò che ritengo apriori sbagliato è fissare l’attenzione sulla velocità. I migliori studenti all’Università non sono necessariamente i più veloci di tutti. Anche se non ho alcun dato empirico sono pronto a scommettere che con il vecchio ordinamento chi imparava di più dalla laurea completava gli studi entro il primo o secondo anno fuori corso. Mi incuriosisce molto ciò che dice l’ingegnere gestionale che, avendo cominciato a lavorare, si trova a frequentare la specialistica con una domanda di istruzione diversa da uno studente che non ha mai lavorato, e chiede maggiori o diversi approfondimenti. Si può essere più lenti a volte perché si è più motivati, perché si sa di più, o perché si cerca qualcos’altro (e allora si può anche cambiare). Non condivido molto ciò che propone Davide. Nella mia generazione (quarantenni) in molti abbiamo combattuto contro l’università esamificio (laureandoci presto però). L’idea radicale di forzare scelte più convinte subito, o entro il primo anno, sembra a me preferibile ad approcci “marginalisti”, come l’imposta pigouviana. Verifiche empiriche?
Lorenz
Ai miei tempi (10 anni fa) la buona metà dei studenti che conoscevo era sostanzialmente parcheggiata in università. 1/2 esami all’anno, qualche lavoretto saltuario, e cosi via…credo che cio’ faccia perdere efficienza all’intero sistema, quindi é innegabile che si debba incentivare a raggiungere gli obiettivi nei tempi preposti (se poi qualche ingegnere diventa imprenditore tanto di rispetto, ma mi sai che é un caso raro il suo…). Per farlo, basterebbe alzare i costi a carico degli studenti. Non solo, ma lo studente dovrebbe essere tenuto anche a rimborsarli allo Stato, questi costi, attraverso la sua attività lavorativa. In questo modo si incentiva sia una maggiore ponderazione nella scelta del corso di laurea che il raggiungimento degli obiettivi. Il metodo sarebbe anche più democratico: oggi il paradosso é che un povero operaio paga con le proprie tasse il mantenimento del figlio del ricco parcheggiato all’universita (tanto quello il lavoro lo trova lo stesso).
Remigio Russo
Dai vari commenti emerge il legame tra fuoricorso e studenti lavoratori, tra cui specificherei i “professional” (con oltre 10 anni di esperienza). Questa ultima categoria può essere una risorsa per l’università e sì in quale modo? A volte c’è l’esigenza o la decisione di rivedere la propria formazione anche a 40-45 anni d’età, come nel mio caso (giornalista professionista, redattore in un quotidiano, ho da poco ripreso lo studio di Economia a Latina, con anche docenti in gamba…).
Chiara Ruocco
Premetto che mi assumo la responsabilità dell’essere sfigata, qualche elemento di valutazione in più visto dall’interno del fenomeno forse può essere utile. Per quel che vale la mia esperienza ho notato che: Le persone scelgono l’università non in base alla propria inclinazione ma in base alle proprie competenze e possibilità, quindi spesso si buttano sulle facoltà umanistiche solo perché sono autoconvinte di non avere adeguate basi matematiche per affrontare discipline scientifiche. Anche la scarsa conoscenza delle lingue può essere un problema. Inoltre se si ha un genitore professionista si tende a seguire i suoi passi (anche se forse questi ultimi sono più motivati perché hanno chiaro l’obiettivo).
ANDREA ZHOK
Nell’articolo non capisco precisamente, e me ne scuso, quale sarebbe esattamente il problema rappresentato dai fuoricorso. Il problema è che sono un costo per l’università? Oppure che perdono tempo prima di entrare nel mondo del lavoro? Il primo punto mi pare poco significativo: le strutture universitarie, dalla docenza alle biblioteche, rappresentano costi piuttosto stabili al variare del numero degli studenti, ed i fuori-corso, che sono spesso studenti lavoratori, hanno un tasso di frequenza universitaria inferiore alla media. Qual è l’onere aggiuntivo? In taluni corsi in certe università si possono avere corsi congestionati e ciò può influenzare la qualità della docenza. Ma, fare lezione a 40 o 80 studenti non cambia più o meno nulla, ed è di questo che di solito parliamo. Oppure il problema sarebbe la loro perdita di tempo. Ma nella mia esperienza di docente la netta maggioranza degli studenti fuori-corso sono studenti lavoratori ed alternano studio universitario a lavori instabili proprio per cercare di non sprecare tempo: l’università come investimento che tappa le discontinuità di lavori precari.
donato
Ho l’impressione che la comparazione tra fuori corso, prima e dopo l’introduzione del 3+2, non rispecchi la realtà. Secondo la mia valutazione basata sulla esperienza, i fuori corso oggi sono molti di più (almeno per quantità di anni). Una volta, potevi perdere qualche sessione e ti laureavi al massimo con un anno di ritardo. Oggi, calcolando l’intero percorso del 3+2, il ritardo è molto maggiore. Basta solo pensare allo spezzettamento degli esami (tra esoneri, scritti e orali), al tempo che si perde per la tesi del triennio, per la nuova iscrizione al biennio e per il tempo di attesa per poter dare i nuovi esami! Mi viene il sospetto che la comparazione sia stata fatta tra vecchio ordinamento e nuove lauree brevi. Ma sappiamo tutti che la laurea breve – complici gli ordini professionali – non vale certo come quelle di una volta. Con la conseguenza che la riforma del 3+2, pensata per ridurre i tempi di entrata nel mercato del lavoro e avvicinarci all’Europa, ha avuto proprio il risultato opposto!
Matteo
D’accordo sui punti 1) e 2), ho l’impressione che si sia sopravvalutato il ruolo di 3) e aggiungerei alcune ulteriori voci accennate in commenti precedenti: 4) La pigrizia culturale di un ampio numero di parcheggiati, 5) L’inefficienza dell’università nella stesura dei piani di studio e l’inesistente controllo esercitato sui docenti. Alla 4) si pone rimedio adottando i criteri di selezione adottati da mo’ in gran parte degli altri paesi europei (per es. ogni anno minimo 70% della sommatoria esami per numero crediti previsti, altrimenti fuori, eccezioni per studenti lavoratori). Alla 5) lo spazio limitato non mi consente di rispondere ad un problema che trovo principalmente di impostazione storica (università italiana nata senza PhD) e filosofica (impunità dei docenti di fronte a (quasi) ogni sopruso). Solo uno spunto: inutile scervellarsi sui a) rapporti studente-impresa se un tirocinio di 3 mesi mi fa saltare la sessione estiva più quella di settembre oppure b) sulle attività di orientamento se ad un professore è concesso impunemente di tenere 4 (4..) lezioni nell’arco di un semestre.
Mario Milani
1. l’università non serve solo ad accedere al ‘mercato’ del lavoro ma a fornire una preparazione culturale. 2. non è detto che chi è fuori corso sia uno studente pigro magari ha maggiori difficoltà soprattutto all’inizio del percorso di laurea 3. ridurre i fuoricorso spesso (sempre?) vuol dire abbassare il livello culturale del sistema il che va benissimo per preparare al mercato del lavoro meno bene per fornire basi culturali che possano portare allo sviluppo di idee nuove (per esempio per quanto riguarda l’attività nella scientifica). 4. una soluzione potrebbe essere quella di dividere facoltà e dipartimenti orientati al mercato tipo ingegneria o economia da quelli orientati alla cultura umanistica e scientifica tipo fisica o filosofia. 5. La mia impressione come docente è che con la riforma del 3+2 (buona per quanto riguarda la riduzione dei fuoricorso) gli studenti di fisica degli ultimi anni siano molto meno preparati di quelli di prima della riforma anche se la maggior parte di questi ultimi (me compreso) si laureavano fuori corso.
hk
Certo il mancato orientamento è una causa. Anche l’eccesso di iscrizioni alle facoltà non scientifiche dovuta ad una impreparazione in matematica. Ma la vera causa sono i docenti universitari. Sono loro che definiscono l’Università ed i suoi risultati. Non mi sembra siano gli studenti i detentori delle responsabilità del funzionamento delle Università? O mi sbaglio. Ma se l’attuale classe di professori non è capace di far meglio all’Università cosa possiamo sperare per il nostro Paese? PS:temo che dopo l’esperienza Monti la Bocconi scomparirà da ogni classifica…
luca
giusto l’aumento degli appelli. giusta la riduzione degli esami. inutile l’aumento delle tasse o la riduzione dei voti di laurea (come se questi potessero essere deterrenti). il problema è una società piena di laureati e poco professionalizzata. La riforma universitaria, attraverso lo sminuzzamento degli esami ha prodotto questo danno gravissimo: svilimento della laurea, troppi laureati sul mercato e 0 professionalità. La facoltà di giurisprudenza della federico II di napoli conta circa 15.000 nuove immatricolazioni ogni anno. Solo per giurisprudenza e solo per la federico II. A questa si aggiungono la Parthenope, la SUN, il Suor Orsola Benincasa. Per una cifra complessiva di circa 20.000 (o più) immatricolati ogni anno. Questo vuol dire che se si laureassero tutti insieme avremmo circa 20.000 nuovi giuristi (nel 90% dei casi avvocati) ogni anno. Ogni anno sul mercato Napoli immetterebbe (almeno) 20.000 nuovi competitors per il settore. Ci rendiamo conto che una realtà simile è ingestibile? Ci rendiamo conto che è necessario il numero chiuso per riequilibrare domanda ed offerta di lavoro?
SAVINO
La verità è che la parte migliore della nostra società, che vuole studiare, fare ricerca e rendere il nostro sistema competitivo è fatta da figli della povera gente, chiamati a mettere da parte nel salvadanaio i soldi per realizzare i propri sogni e totalmente dimenticati dai docenti e dalle istituzioni. D’altro canto, ci sono figli di papà che se ne fregano, come i loro genitori, e si danno alla scapigliatura spendendo e spandendo il loro immeritato patrimonio. E’ sempre più vicino il momento in cui ci si accorgerà che per uscire dalla crisi e per rinnovare la classe dirigente è un imperativo attingere tra le risorse umane giovani che appartengono ad un ceto sociale medio-basso ma hanno alta cutura e formazione professionale.
Pik
Da quel che ricordo di scienza delle finanze la scuola puo’ essere vista come mezzo di selezione o mezzo di formazione. Come mezzo di selezione siamo a posto, come formazione forse anche, ma forse meno per il mondo del lavoro. Il problema per me invece e’ che le stesse distorsioni che ci sono nel mondo del lavoro ci sono anche all’universita’, dove uno impara i soliti trucchi all’italiana: ruffianarsi, “esserci”, fare lo schiavo gratis al dipartimento del prof per qualche mese. Insomma servire e adulare il potente invece che ricercare l’efficienza. Dopo immagino che i prof facciano lo stesso per cio’ che hanno subito loro. Dopotutto in italia il prof universitario e’ ancora un lavoro ambito, in Olanda dove ho vissuto, un prof universitario e’ un benefattore che rinuncia ai soldi del settore privato per dedicarsi alla comunita’. Certo io ne conosco qualcuno anche in italia cosi’, ma son sicuro che tutti voi ne conoscete molti di piu che sono il contrario qua da noi.
Ettore
Frequento economia a Udine. Facoltà organizzata molto bene, nella top ten italiana. Tempo medio di laurea triennale 3.8 anni (dati almalaurea). Quasi il 30% in più del dovuto. Non ritengo di avere corsi inutili, quindi ad ora non ne eliminerei nessuno. Sono altri due i fattori che credo determinino il rallentamento degli studenti: la tesi della triennale. Difficile laurearsi a luglio o settembre preparando la tesi assieme agli esami. E poi dipende molto la prof: chi ti dice di non sbatterti troppo per una tesi che oltre a te ed al relatore nessuno leggerà mai, chi invece ti tiene in ballo anche un anno. Il secondo fattore sono gli appelli e la loro collocazione. Questi sono concentrati in due mesi a sessione, molto compressi: difficile farli tutti assieme per restare nei tempi. Se gli appelli fosse distribuiti anche durante i semestri sarebbe molto più agevole, anche ricorrendo a prove parziali. Spesso le università cercano di bloccare questo spezzettamento di esami e sessioni, poichè gli si attribuisce un effetto negativo sulla frequenza, che in realtà credo sia molto meno forte, se effettivo, di quanto si pensi.
massimo
Il fuoricorso che impiega il doppio del tempo a laurearsi è un benemerito: a differenza degli altri “parassiti” si paga l’università per quanto costa alla società. il fuoricorso paga già più tasse in proporzione a quanto tempo “perde”. Nonostante questo, si deve leggere sfottuto da sfigatissimi viceministri e commentatori poco intelligenti intortati da più o meno abili pennivendoli. La mia proposta è un monumento al fuoricorso all’ingresso di ogni università! E a quelli che moraleggiano… si facessero i cavoli propri, che di problemi ne hanno tanti e si vede.
Sergio Brutti
In tutto il territorio nazionale, fin dai tempi di Primo Levi, il corso di laurea in chimica soffre di un peculiare “fuoricorsismo” che si origina nei primissimi mesi di studi in seguito alla difficoltà di larga parte degli studenti di superare l’esame di Chimica Generale entro il primo anno. Essendo questo corso propedeutico alla larga parte delle materie “chimiche” successive, questa difficoltà si trascina e riverbera per tutto il triennio del corso di base. Questo problema è comune alla larga parte dei corsi di laurea italiani in chimica e si verifica identico e immarcescibile al succedersi delle generazioni di docenti fin dal fascismo. Questa realtà è largamente nota a tutti i chimici universitari senza che tuttavia questo abbia portato a significativi dibattiti o revisioni delle modalità di insegnamento. Specifici studi statistici dovrebbero essere condotti dalla Società Chimica Italiana e promossi anche dal CUN al fine di evidenziare questa peculiarità che non ha eguali in nessun paese europeo.