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Se l’Europa mette sul piatto soldi pubblici

Nell’ultimo decennio i livelli di investimento in Europa sono stati molto bassi, determinando un forte deterioramento delle infrastrutture. Per questo il piano Juncker potrebbe dare buoni risultati, come mostrano anche le stime del Fondo monetario. E per l’Eurozona è forse l’ultima occasione.
INVESTIMENTI PUBBLICI PER L’EUROPA
L’Eurozona, si sa, non gode di buona salute. Nell’ultimo numero (ottobre 2014) del World Economic Outlook, il Fondo monetario internazionale assegna un 40 per cento di probabilità di una nuova recessione e un 30 per cento di probabilità di deflazione per l’Eurozona. La Bce barcolla fra misure di dubbia efficacia in un periodo di aspettative depresse (Tltro e annunciato acquisto di Abs) e l’impossibilità di procedere con il quantitative easing causa l’opposizione dei paesi del Nord Europa.
Le aspettative non cambieranno a breve, a meno di segnali forti di un’azione coordinata a livello europeo. È parere di molti economisti che in questa situazione, caratterizzata da una caduta dell’investimento privato e da tassi d’interesse a livelli storicamente bassissimi, l’Europa dovrebbe cogliere l’occasione per una politica di investimenti pubblici in settori che stimolano la crescita, come infrastrutture, educazione e ricerca. Nell’ultimo decennio, infatti, i livelli di investimento in Europa in generale, e in Germania in particolare, sono stati storicamente bassi, determinando un forte deterioramento delle infrastrutture a livello europeo. Chiudere l’“investment gap” è prioritario.
I POSSIBILI EFFETTI
Il capitolo 3 del World Economic Outlook dell’Fmi contiene un’interessante analisi degli effetti degli investimenti pubblici in infrastrutture, suggerendo che il moltiplicatore fiscale possa essere particolarmente alto per questo genere di misura. Secondo le stime empiriche dell’Fmi (vedi figura), un aumento permanente di investimenti pubblici in infrastrutture pari all’1 per cento del Pil porta a un aumento dell’output nel breve e nel medio-lungo periodo e fa da traino a un incremento (crowding-in) dell’investimento privato. (1) Soprattutto, un finanziamento di queste spese con debito è sostenibile perché grazie all’effetto espansivo cumulato sull’output si determinerebbe una diminuzione del rapporto debito/Pil. Infine, le stime mostrano che gli effetti sono molto più forti se queste misure sono finanziate in debito piuttosto che con una diminuzione delle tasse a bilancio in pareggio e se effettuate in periodi di bassa crescita, fino ad arrivare a una stima massima in quest’ultimo caso di 1,5 per cento di aumento del Pil nel primo anno e 3 per cento nel medio periodo (quarto anno).
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Nel suo recente discorso d’insediamento, il neo-presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha reiterato la proposta di un piano di investimenti infrastrutturali di 300 miliardi di euro spalmato su tre anni. La cifra corrisponde circa all’1 per cento del Pil nominale annuo dell’area euro. Considerando le stime dell’Fmi nel regime di bassa crescita, si tradurrebbe in un aumento dell’output di circa l’1,5 per cento nello stesso anno e del 3 per cento nel medio periodo.
Ovviamente, i numeri vanno presi con estrema cautela. Il piano Juncker (ahimè) non è permanente, anche se tre anni sono un orizzonte significativo. Inoltre, non prevede solo investimenti pubblici, ma anche investimenti privati, e i dettagli non sono ancora noti. Le stime non prendono poi in considerazione possibili effetti negativi sui tassi d’interesse dei paesi ad alto debito che un ulteriore aumento dell’indebitamento potrebbe scatenare. Infine, questi numeri assumono massima efficienza, nel senso che ogni centesimo di impegno di spesa si traduce in investimento pubblico. Sappiamo bene invece che in molto paesi, soprattutto del Sud Europa, la macchina pubblica è notevolmente inefficiente e la corruzione pervasiva. Nel caso di bassa efficienza degli investimenti pubblici, questi numeri sono notevolmente più bassi: la stima dell’Fmi prevede un aumento del Pil di 0,2 per cento il primo anno e di 0,7 per cento nel medio periodo.
Necessaria quindi una centralizzazione del fondo tramite il Fondo d’investimento europeo e la Bei, che si impegnino a garantire un’attenta opera di validazione e selezione dei progetti, rigorosa analisi costi-benefici, monitoraggio e rendicontazione.
L’ULTIMA CHANCE?
L’evidenza empirica fornisce una forte giustificazione per il piano Juncker e anzi dovrebbe spingere i paesi dell’Eurozona (e in particolare quelli con finanze pubbliche più sane) a un’azione coordinata ancora maggiore. (2) Il fatto che l’Fmi dedichi un capitolo di una delle sue più importanti pubblicazioni a questo tema è significativo. Inoltre, nuove voci si fanno strada nel dibattito pubblico tedesco. Il direttore del Diw (una specie di Isae tedesco; in Italia, tanto per gradire, l’abbiamo chiuso), Michael Fratzscher, da tempo sostiene che il deterioramento delle infrastrutture tedesche è uno dei più grandi rischi per le prospettive di crescita della Germania. Il ministro dell’Economia tedesco ha formato una commissione di esperti, fra cui lo stesso Fratzscher, con il compito di individuare misure per colmare l’“investment gap” tedesco. La Germania verosimilmente non ammorbidirà le sue visioni sulle politiche di austerity, ma forse qualcosa si muove. Anche perché la locomotiva tedesca si è fermata. La domanda estera difficilmente a breve potrà ancora garantire i tassi di crescita recenti e soprattutto non è ovviamente una politica applicabile a un’economia così grande come l’Eurozona nel suo complesso, a meno di cominciare a esportare su Marte. Un aumento della domanda interna è urgente.
L’alternativa è una stagnazione perdurante causata dall’aggiustamento attuato attraverso il lento e doloroso meccanismo della svalutazione interna, reso ancor più arduo dalla bassa inflazione tedesca.
Il rischio, a mio parere serio, è ritrovarci senza Europa. I barbari sono già alle porte. Lo UK Independent Party cavalcherà la prospettiva di un eventuale referendum sull’Europa. In Francia Marie Le Pen guadagna voti a ogni giro di vite della crisi. Matteo Renzi ha ragione da vendere: o l’Europa cambia o muore. Forse, però, potrebbe trovarsi degli amici lungo la strada per il cambiamento. Perché no, anche tedeschi.
(1) E’ interessante anche notare come nel lavoro dell’IMF ci sia una sezione che dimostra come il Giappone non rappresenta un contro esempio. Guardando i dati, il rapporto mostra come l’espansione fiscale in Giappone sia in realtà andata a braccetto con una diminuzione degli investimenti pubblici a partire dalla seconda metà del 1995. Si legge nel rapporto che nei vent’anni dopo il 1992, ultimo anno in cui il Giappone registra un surplus fiscale, la spesa pubblica sociale è aumentata del 10.6% del GDP, mentre gli investimenti pubblici sono diminuiti del 2.3% del GDP.
(2) Anche risultati teorici ottenuti nello stesso studio tramite la simulazione del modello macroeconomico del FMI (Global Integrated Monetary and Fiscal model – GIMF) per economie avanzate portano a risultati simili.
 

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  1. Mi pare che si tratti di un articolo (uno dei pochi relativamente tecnici) che avvalora con qualche argomenzione tecnica e quantitative la necessità correttamente percipa da molti (per non farla morire di farla pasare attraverso unl piano europeo straordinatio per l’occupazione (sovrapputto giovanile), la crescita e lo sviluppo sostenibile.

    • Rainbow

      Finalmente qualcuno che sostiene,dati alla mano,l’importanza,l’opportunita’,la necessita’di stimolare la ripresa con un piano di investimenti pubblici a livello Europeo finanziati dalla Bei! Gli investimenti pubblici li può garantire solo l’Europa,non certo gli Stati Nazionali,specie l’Italia con un debito che supera i 2 trilioni di euro! Del resto questa Europa cosa ci sta a fare,soltanto a redarguire i paesi che “non fanno i compiti a casa”?Questo andrebbe spiegato al coro di oppositori interni che criticano la manovra di governo perche'”non prevede 1centesimo di investimenti pubblici”! La manovra opera correttamente sulla domanda interna,mettendo a disposizione importanti risorse ( 80€,etc) e sull’offerta riducendo l’Irap e i contributi per i neo assunti. C’e’anche qualcosa x gli ammortizzatori sociali,e per il lavoro autonomo. Il resto,gli investimenti pubbliici e’giusto che li promuova l’Europa altrimenti cosa ci sta a fare?

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